Cci rissi 'u sceccu ô mulu: "Caru miu siemu nati pi dari 'u culu" .
Nella novella di Pirandello "Il vitalizio" si legge del dramma del vecchio Maràbito, sopraffatto dagli anni e dalle fatiche, costretto a lasciare podere, casa, animali e tutto il resto ai nuovi padroni: "...Conosceva gli alberi uno per uno; li aveva allevati come sue creature: lui piantati, lui rimondati, lui innestati... Pena per il podere e pena anche per le bestie... e Riro il giovenco biondo come l'oro che tirava da sè senza benda e senza guida l'acqua dal pozzo, piano piano, com'egli l'aveva ammaestrato. La nòria a ogni giro della bestia dava un fischio lamentoso. Egli, da lontano, contava quei fischi; sapeva quanti giri ci volevano a riempire i vivai, e si regolava. Ora, addio Riro! E il fischio della nòria da quel giorno in poi, non l'avrebbe più udito..."
Il "fischio" della nòria, lo
stridore, non lo udiamo più nessuno, a partire dall'inizio degli anni Cinquanta
del secolo scorso. Con l'avvento dell'elettricità, dei pozzi trivellati, delle
pompe elettriche sommerse che aspirano l'acqua spingendola verso l'alto, questi
marchingegni sono diventati obsoleti "monumenti di campagna", dove
ancora esistono; la maggior parte, stoltamente, sono stati smantellati e
venduti ai ferrivecchi di passaggio. Eppure rappresentano un patrimonio
culturale che andrebbe tutelato.
La nòria o bindolo, 'a sènia, è di origine araba. Veniva utilizzata per sollevare
l'acqua destinata all'irrigazione, dai pozzi e in tutti i casi in cui l'acqua
non arrivava per caduta. Funzionava a forza animale e all'occasione, in assenza
di animali, poteva essere azionata anche dall'uomo, e non quello delle favole
come Pinocchio nell'orto del contadino Giangio, ma quello vero in carne ed ossa.
Per l'uso domestico, invece, l'acqua si prelevava dal pozzo o dalla cisterna col secchio tirato da una corda 'n-putiri o meglio con l'ausilio di una
cigolante carrucola.
Tutto il marchingegno per il
sollevamento si piazzava sopra il pozzo.
Il meccanismo era costituito da due
ruote dentate collegate tra di loro. Alla ruota di centro sistemata
orizzontalmente era connessa la sdanga di
legno alla quale si legava l'asino o il mulo o anche un giovenco, come abbiamo
visto sopra.
La bestia, bendata, girando attorno
al pozzo muoveva la ruota di centro che trasmetteva il movimento alla ruota
verticale e ad un tamburo che trascinava un sistema a catena. Su di esso erano
distribuiti dei secchielli di lamiera zincata, i sicchitieddi ri senia, che attingevano l'acqua dal fondo del
pozzo uno dopo l'altro e quando arrivavano in alto la riversavano all'interno del tamburo che a
sua volta la convogliava in una condotta. Attraverso questa l'acqua giungeva
nella vicina ggebbia (vasca)
costruita con conci di tufo.
L'area dove c'era il pozzo si
chiamava sènia essa stessa, o ggebbia o anche pozzo. Era un punto di riferimento, per la
frescura dell'acqua, per l'ombra degli alberi che in quel punto erano meno radi,
per dissetarsi. Ci andavano i ragazzi a bagnarsi a insaputa o meno del
contadino, si sentivano i cantilleni
dello stesso in attesa che la vasca di raccolta fosse pronta per irrigare, si
raccoglievano le verdure selvatiche che nei prati attorno abbondavano.
E l'asinello
girava e girava senza sosta, sfinito, d'estate tormentato da mosche e tafani
scacciati invano con la coda o con il fremere della pelle.
In Sicilia per ben rappresentare una persona,
laboriosa, paziente, mite, resistente alle fatiche si usa ancora dire "è nu sceccu ri senia" come,
ad esempio il computista
Belluca, protagonista di un'altra novella di Pirandello, "...assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai
un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga di una
nòria ...".
Non per niente, una volta che ne ebbe
l'opportunità, 'u sceccu (legato da
rapporto di colleganza) cci rissi ô mulu:
"Caru miu siemu nati pi dari 'u culu".
Nella foto: i resti della sènia nell'area dei Santoni di Palazzolo Acreide (diacolor N. Blancato 18.3.1998)
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