Don Paolino
il patronimico Genoveffa lo aveva
ereditato dalla madre mentre questa era ancora in vita. Faceva il calzolaio e
nello stesso tempo badava ad un buco di negozio, attiguo alla scarparìa, una specie di microbazar dal
tetto basso, tutto scaffalato, sito al n. 27 di ronco Cairoli (u curtigghiu ri Furcedda, dal soprannome
di don ‘Mmastianu che c’abitava).
Per i
ragazzi quel posto era una specie di oracolo di Delfo al quale si accorreva non
per conoscere il futuro ma per esaudire i desideri vagheggiati durante la notti
insonni o nelle lunghe ore trascorse sui banchi. All'uscita di scuola si andava
tutti in processione per comprare figurine, giornaletti, radici di liquirizia,
a stecche, caramelline alfanumeriche multi colorate; la via Lombardo, da piazza
San Michele alla Balatazza, brulicava
di ragazzi: l’uscita dalla scuola era l'ora di punta per Genoveffa. Si faceva la fila, però, soprattutto per comprare le
figurine: prima, venivano subito scambiati con il primo che capitava i
doppioni, e poi, seduta stante, ci si accoccolava su uno dei tanti scalini che
si affacciavano sulle cciappittule e
si giocava al "soffio".
Basso, minuto, con
un lieve accenno di gobba, don Paolino Infantino Genoveffa aveva un aspetto quasi diafano, sofferente. Il suo viso
era liscio come quello di un bambino, ma giallo, smunto, quasi esangue e con
una barbettina da malato, con quattro peli sparsi qua e là. Teneva la testa insaccata tra le spalle,
piegata da un lato, e così scontorto pareva che ti guardasse dal basso in alto.
Sulla testa, completamente spoglia e aureolata da un'esile coroncina di
capelli, portava di solito una coppola nera e floscia che serviva pure a
schermare la vivida "luce" che splendeva sotto. Indossava un paio di
pantaloni scuri, gessati, corti quasi fin sulle caviglie e sostenuti da
bretelle e d'inverno teneva sulle spalle uno scialle di colore marrone e in più
una sciarpa nera, girata sul collo dal lato sinistro.
Nel locale si
accedeva attraverso una misteriosa porticina verdognola (lo stesso colore che
lascia vedere ancora oggi), con i vetri abbuiati da numerose vetrofanie
pubblicitarie e dai giornaletti messi a cavalcioni sui fili che lo rendevano
ancora più oscuro ed angusto. Don Paulinu
si muoveva con estrema lentezza, accompagnando il movimento del capo con le
spalle e il resto del corpo. Era pieno di dolori: artrosi e acidi urici. La
malattia, l'anchilosi, lo affliggeva senza sosta e aumentava ogni giorno di
più, con una progressione inesorabile. Nella stagione fredda non si separava
mai dal suo scaldino di rame: da questo turibolo, rovente di sansa, traeva
conforto e l’effimera illusione di una primavera precoce. E d'estate, quando
poteva, usciva sulla porta o si sedeva sulla sua cciappittula per far godere alle povere giunture, mangiate dai
tofi, i rari sprazzi di sole che riuscivano a filtrare dentro il cortile,
angusto anch'esso.
Per coricarsi o
alzarsi dal letto, si serviva di una corda sospesa proprio sullo stesso e
fissata alle due pareti contigue. Col tempo, poi, la malattia gli impedì di
fare il calzolaio e don Paolino si contentò di gestire solo il negozio.
A sinistra c'era il
piccolo bancone dietro il quale sedeva lui, Genoveffa,
con il bastone agganciato alla spalliera o fra le gambe. Quello era il suo
regno, e lì, in quello spazio ristrettissimo, con l'aiuto del bastone, riusciva
a muoversi a proprio agio, accompagnato dallo sgrigliolio delle scarpe. Si era
adattato al suo stato e attrezzato: il bastone gli serviva anche per farsi cadere
gli oggetti dagli scaffali alti e con il manico agganciava e sollevava lo
scaldino da terra, evitando così di abbassarsi.
Di fronte la porta,
un armadio privo di sportelli e dal colore indeciso, con i ripiani affollati
dalla roba in vendita, e tutt'intorno mensole, cassetti, locandine, giornali e
giornaletti appesi ai fili, come in un terrazzino pieno di bucato. Dietro lo
scaffale e addossato al muro c'era il lettino di donna Genoveffa. Quel buco
serviva infatti anche da camera da letto per la madre di don Paolino.
In questo bugigattolo, di nemmeno tre metri
per cinque, era in vendita una tale qualità di prodotti che sarebbe stato
difficile trovarli tutti assieme in altri negozi congeneri: pettini larghi,
pettini stretti (per spidocchiare), bottoni, lucido sfuso per le scarpe
(l’omino della reclame della Brill, La-perla-dei-lucidi, era una vera icona in
questo buco), bullettame, cuoio per le suole, stoppini, il Super-Iride per
ricolorare i vestiti, i quaderni di Pizzonero e Codaritta, cartoline illustrate
di Palazzolo (editore don Paolino, fotografo Sisino), legacci per le donne,
anilina per preparare l'inchiostro in casa, la cassa con i coriandoli di
carnevale
Entrare da Genoveffa e sentire l’odore del chiuso
di quel “megastore”, significava ogni volta provare un turbamento che ti
inebriava e ti stordiva. Da un miscuglio tanto eterogeneo e stagnante di
prodotti e di vecchiume veniva fuori un odore originale, esclusivo, un odore
che alla fine raggiunto il giusto amalgama era diventato armonioso, e si era trasformato
in profumo: "profumo" di carta, di giornaletti, di liquirizia, di
cera, di stantìo. Un profumo unico, che solo da don Paolino Genoveffa si poteva assaporare e della
cui formula solo lui era il depositario. Era un rito ineluttabile andare da Genoveffa, una malia, un‘abitudine,
quasi un “obbligo” come quello di andare a scuola: si andava per comprare, si
andava per fare semplicemente compagnia all'amico in quel momento con
disponibilità di liquido e quindi con un prurito irresistibile alle mani, si andava
per riempirsi gli occhi di mille cose; si andava, soprattutto, per ubriacarsi
di quell'odore deliziante, ineffabile; un odore diventato "profumo":
profumo di Genoveffa.
UNA DESCRIZIONE DEL PERSONAGGIO (DON PAULINU GENOVEFFA) E DELLA SUA "BOTTEGA" VERAMENTE ECCELLENTE, ECCEZIONALE. PERFETTA IN OGNI SUO PARTICOLARE. LUI ERA COSÌ, IL SUO "BUCO" (NEGOZIETTO) ERA ... QUELLO. GRAZIE, PROF. BLANCATO, MI HA FATTO RIVEDERE E RISENTIRE (IL "PROFUMO DI GENOVEFFA") QUALCOSA CHE AVEVO QUASI DIMENTICATO MA CHE INVECE NON DEVE E NON PUÒ ESSERE ASSOLUTAMENTE DIMENTICATO.
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