Il grassello di calce è l'elemento base nella preparazione delle malte impiegate per la stabilitura degli intonaci e degli stucchi. Si tratta di calce spenta, idrata, confezionata in sacchi da 24 kg: si presenta sotto forma di pasta bianchissima e morbida.
Oggi il grassello è largamente usato per la sua estrema praticità, però sino ad una ventina di anni fa, circa, i muratori usavano ancora la calce viva in zolle, da spegnere nelle calcinaie approntate in cantiere.La calce si ottiene
dalle rocce calcaree, cotte ad una temperatura di oltre 600°c in apposite
fornaci chiamate calcare, una volta piuttosto rudimentali, oggi moderne e
razionali, dotate di appropriate strumentazioni e attrezzate per la preparazione
del grassello.
Le carcare più antiche erano quelle scavate
nella roccia e ubicate vicino ai centri abitati, in aree ricche di pietra
calcarea: la migliore era quella dura, forte, comunemente chiamata pietra rizza, dalla quale si otteneva una calce
molto tenace. Quando il calcare incominciava a scarseggiare, oppure la fornace
si ingrandiva troppo per il continuo sfaldamento delle pareti che, alle
altissime temperature, tendevano a liquefarsi, si mollava tutto e si andava a
scavarne una nuova in un’altra area, sempre di formazione calcarea.
Molti anni
addietro, quando in campagna si dovevano edificare estesi caseggiati, era
consuetudine per i muratori (perché conveniente) preparare, prima di ogni cosa
e qualora ci fosse la pietra adatta, una piccola carcara per produrre la calcina necessaria al fabbisogno del
cantiere.
Per risolvere il
problema dello sgretolamento delle pareti, si pensò, in seguito di rivestire
l'interno della fornace con materiale refrattario, in particolare costituito da
pietra lavica. Ciò malgrado a partire
dagli anni Cinquanta, le fornaci furono costruite direttamente con mattoni
refrattari e in zone distanti dal centro abitato: incominciavano a diffondersi
gli automezzi e le distanze non erano più in problema.
Quest’ultimo tipo di fornace di solito è di forma troncoconica; quelle
tradizionali scavate nella roccia, invece, sono sempre cilindriche, con una
pronunciata slargatura nella zona mediana. Funzionavano tutte a riscaldamento
diretto e potevano essere alimentate da combustibili diversi: paglia, frasche,
legna, sansa, carbone.
I
combustibili e il caricamento
I sistemi di
caricamento sono due: a tammusu o a
carica mista, a seconda del combustibile. Il caricamento a tammusu si adotta per le fornaci alimentate con paglia, legna o
sansa. Partendo dalla base, sotto la quale c'è un pozzetto per la raccolta
della cenere e per il tiraggio, si murano le pietre posizionandole in modo da
formare una cupola, al cui interno si introduce il combustibile. Il carico
viene completato dall'alto, svuotando i
cufini ri spitrari colmi di pietre.
La carica mista si
adotta per le fornaci a carbone. Ad un metro e mezzo dalla base si
predispongono dei ferri a guisa di griglia. Su questa si distribuisce uno
strato di carbone e poi uno di calcare. A mano a mano che si sale, ad ogni sulata, si riduce la percentuale di carbone
e si aumenta quella della pietra, fino a quando la parte terminale della fornace
viene riempita esclusivamente di pietre.
A carico ultimato
era devozione disporre due pietre a forma di croce, sulla parte sommitale, a
scopo propiziatorio. È la conferma di un’esigenza di religiosità, un tempo
oltremodo diffusa tra i ceti popolari; un bisogno che si manifestava attraverso
gestualità e linguaggi carichi di attese e di fede. Era una presa d’atto dell proprio limite umano,
e, allo stesso tempo un affidarsi alla Provvidenza.
Le calcare a paglia
erano le più antiche ma anche le più faticose da gestire. Funzionavano solo
durante la stagione estiva, alimentate dalla paglia delle fave nella prima
mezza estate e da quella del frumento nella seconda. Occorrevano quindici,
venti giorni per ammassare la paglia nella carcarata,
e, una volta accesa bisognava alimentarla ininterrottamente per più di 48 ore.
Ben quattro erano
gli iardituri che si alternavano
notte e giorno, in turni di un'ora ciascuno, mentre altri erano addetti a liberare
il pozzetto di raccolta, dalla cenere che si accumulava rapidissimamente. Se la
stagione era prodiga di paglia, si riuscivano ad attivare anche ben cinque carcarate, con un buon guadagno per il
proprietario, visto il basso costo del combustibile.
All'inizio degli anni Venti, con l'entrata in esercizio della ferrovia
a scartamento ridotto Siracusa-Ragusa-Vizzini si incominciò ad utilizzare il
carbon Coke non combusto dal focolare delle locomotive. Privata dalle scorie, la
cacazzina era un ottimo combustibile
a buon mercato.
La sansa, ancora
oggi usata in qualche piccola fornace superstite, presenta il vantaggio, dopo
la combustione, di essere recuperata e venduta come carbonella (nuzzuliddu) per alimentare bracieri e cunculini.
Anche le traversine ferroviarie costituiscono un ottimo combustibile ad
altissimo potere calorifico.
Il tempo occorrente per la
calcinazione varia a seconda del combustibile. In media occorrono due giorni e
due notti per la cottura e 24 ore di riposo per il raffreddamento: dopo si può prelevare
la calce. Un carico
completo della fornace è costituito da 32 cufina
di calce, equivalente a
La giusta cottura
della cuacina era affidata alla competenza
e all’abilità del carcararu. Si
trattava di saper dosare in maniera empirica - senza termometri - l'esatta temperatura
del forno e sospendere poi il fuoco al momento propizio. Un lavoro, dunque, che
non ammetteva sbagli.
Agli inizi degli
anni Cinquanta, la calce si vendeva ancora a sarma e il costo era di 800
lire a sarma. Da lì a qualche anno si
usò il chilo come unità di misura e il prezzo fu stabilito in 8 lire al kg. Veniva
trasportata e distribuita con i carretti; carretti e carrettieri, quando si
dovevano recare fuori paese, si mettevano in strada alle 4 del mattino, prima
che iniziasse ad albeggiare.
Le nostre vecchie carcare
Tantissime le
vecchie carcare diffuse nell'area
iblea, sommersa di calcareniti. Quasi tutte in disuso, ora sono destinate a
scomparire perchè inutili e ingombranti, secondo un'ottica ruspaiola
mirata a stravolgere armonie e forme del nostro paesaggio. Eppure, questi segni
del passato (vera archeologia industriale), anche se privi di alcunché di
artistico, hanno un prezioso valore testimoniale nei confronti di una stagione,
anche recente, che merita di essere rivisitata e salvaguardata.
A Palazzolo, l'ultima fornace in attività ha chiuso i battenti nel
1968. Gestita dal signor Giovanni Benvenuto, in contrada Cozzo Pilato, aveva
iniziato la sua attività esattamente cento anni or sono, quando su specifica
autorizzazione "…chiesta da
Quattropani Paolo e soci, del locale alla Costa, per uso fornace di calce, dice
che per la sua distanza, per la topicità e perchè la pietra si presta all'uso
cui intende destinarsi,
Oltre ai due signori
già menzionati sono stati parecchi i palazzolesi che hanno speso la loro vita
in questo faticosissimo lavoro. Ricordiamo tra gli altri: Giuseppe Pizzo (mastru Seppi) e i figli Paolo e Pippinu, Lombardo (socio del già citato
Quattropani), don Angelo Ferla, alias Rita,
Giuseppe Piccione. Anche i centri vicini a Palazzolo contavano la presenza di
numerose carcare. A Canicattini erano abbastanza rinomate, per la
qualità del calcare, le fornaci di Carbone, di Musco, di Cichedda. A Solarino
era molto attiva la fornace di don Giovannino Teodoro; a Noto operavano la
fornaci di Caruso (Menzacanna), di Macca,
di Bellofiore (Frazzata).
Oggi, nelle nostre
zone, anche le fornaci meno antiche, ma tuttavia antiquate, sono in buona parte
chiuse, mentre quelle ancora attive, lavorano saltuariamente. È il caso della
fornace situata in contrada Carancino, sul fiume Anapo.
Costruita una quarantina di anni fa, oggi, a causa della sua limitata
capacità di produzione (circa 23 t di calcina) risulta antieconomica
utilizzarla. Il proprietario, infatti, per confezionare il grassello si serve
di calce in zolle prodotta industrialmente. È più conveniente e meno faticoso.
Tuttavia, quasi un
anno fa, ed esattamente il 6 luglio 1991, questa vecchia carcara ha sfornato il suo bravo carico di calce, compiendo per
intero il suo dovere.
Noi, però, non
vorremmo che fosse stata l'ultima e conclusiva carcarata. Se così fosse, non ci resterebbe altro che registrare,
ancora una volta per il nostro vecchio pianeta, il solito fenomeno della
"dissolvenza incrociata": si dissolve il vecchio, emerge il nuovo (il
sistema industriale). È ineluttabile!
CAMMINO, settimanale di informazione, 21 giugno 1992
Grazie tante,ora la mia conoscenza si è arricchita di un altro elemento
RispondiEliminaIn questa esposizione ho rivisto tanti volti, tanti conoscenti. Grazie della ripubblicazione. Grazie Nello
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RispondiEliminaE-mail : combaluzierp443@gmail.com
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