Si
scende a lume di candela e a piedi scalzi, attraverso stretti cunicoli, per
arrivare ad oltre 100 m di profondità.
Nel tempo, poi, ogni civiltà ha elaborato per le necessità quotidiane e cultuali vasellame e statuette votive sui quali ha impresso i propri caratteri originali, validi anche per riconoscere storia e costumi.
Paolo Giliberto, titolare del laboratorio di ceramica a
Palazzolo, è il classico tipo di siciliano intraprendente e caparbio che va
fino in fondo quando lo decide. Tra le sue mani prende forma e vita, e il cuore
dolce della bianca pietra iblea e la zolla informe di creta lambita da solari
policromie.
Entrare nella sua bottega significa entrare in un mondo che avevamo scordato: un mondo di argilla che ti riaccende la memoria e ti riporta indietro nel tempo, all'interno delle nostre case contadine e popolari con le scansie piene di ceramiche d'uso; e, per associazione, rivedi pure la Casa-museo di Antonino Uccello con le pareti tappezzate di piatti e fiancuotti.
La
ricerca nell'Altipiano Ibleo
La selezione tipologica di questi manufatti è il
risultato di una accurata indagine sul campo di Giliberto. Armato di macchina
fotografica e di carta e penna, è andato in giro per campagne e masserie alla
ricerca di notizie relative all'uso e al nome (nella parlata locale) delle terrecotte
e delle ceramiche tradizionali dell'Altipiano Ibleo. E così poco alla volta il
suo negozio si è arricchito di una vasta gamma di manufatti fittili di origine
calatina che, con le opportune varianti, caratterizzano e rispettano il gusto e
lo stile della nostra area. È chiaro che oggi questi oggetti sono diventati
suppellettili ornamentali che fanno folklore e turismo, tuttavia, oltre a
questa, hanno la funzione di cui s’è detto: servono a far conoscere alle nuove
generazioni i costumi e le usanze dei nostri padri.
A tale scopo accenniamo ad alcuni di questi “souvenir” riportandone
il nome locale e l'uso: u bainu, per lavare i piatti e le stoviglie; u
bainicieddu ro cruscenti; u culapasta; a cannata, per il
vino; a saimera, per lo strutto di maiale, poteva anche servire da salera;
u maritieddu, surrogava il calore del marito (nelle fredde notti d’inverno)
grazie all'introduzione di acqua calda o sabbia; "marito di creta" lo chiama P. Giacinto
Farina nella sua "Selva": "Vi è l'uso in Palazzolo presso
delle donne volgari, invece dello scaldino di rame ne usano uno di argilla
grossolana..."; u ciascu, per modeste quantità di vino da
trasportare: è una brocca leggermente schiacciata con manici ad anelli entro
cui passa una corda che serve per ancorarlo al basto dell'asino; a cannata
c'o 'ngannu (bevi se puoi), si usava in occasioni particolari: per
Carnevale, per il lunedì di Pasqua, ecc.: chi conosceva il trucco trincava senza
sbrodolarsi, in caso contrario si infradiciava di vino; a sbrunia per i pomodori secchi, per
l'estratto, per i capperi, per il miele (per le acciughe e le sarde salate
nelle zone di mare): questi contenitori a seconda della grandezza, prendono il
nome più generico di stipiceddi, stipi, stipuni. Lo stesso
avviene per la "quartare: u ugghialuoru o stipa è una quartara
smaltata da 12 litri con la bocca stretta e con le labbra tipo lumera,
serviva per l'olio; quella da 6 litri si chiamava minzalora, da tre trizzalora
(veniva usata anche per conservare l'ariu per la ricotta); una variante
è un'altra stipa anch'essa da 12 litri, con la bocca larga per infilarvi
le mani e prendere le olive in salamoia; a lumera, lucerna ad olio, con
o senza piede; u fiancottu" p'o strattu ce ne sono di due tipi:
quello classico, con la falda bassa che serviva per asciugare u strattu,
l'altro, con il bordo alto, veniva usato a tavola come unico e grande piatto
dal quale, la sera, al desinare, tutti i componenti della famiglia attingevano
con vibranti forchettate; a daugghia e a daugghiedda, piccole
terrecotte bianche non smaltate per mantenere fresca l'acqua: nella pancia
veniva praticato un foro per bere a garganella. Infine le giare, bianche,
grandi, introvabili.
Quando il mercato locale e turistico ha incominciato a
richiedere con insistenza terrecotte di questo ultimo tipo, Giliberto è stato
"costretto" a intraprendere una nuova ricerca, questa volta
indirizzata a trovare vecchi ceramisti siciliani attrezzati di grandi fornaci a
legna. Niente da fare. Questo tipo di fornaci, in Sicilia, sono diventate dei
ruderi obsoleti già una trentina di anni fa, soppiantati dai nuovi sistemi.
Rivolgersi altrove. Il nostro Paolo non demorde. Carico di modelli e di
consunte foto di terrecotte nostrane è partito in Nordafrica alla ricerca di arcaiche
fornaci ancora in funzione. Le ha trovate presso una tribù di Berberi, una
etnìa ormai largamente meticciata con gli Arabi, amante del tè e del "Couscous".
Costoro lavorano ancora la terracotta con sistemi primordiali. Giliberto è
stato con loro per diverse settimane e, a più riprese e assieme a loro ha
modellato le prime forme delle nostre grandi giare tradizionali, da esportare
in Sicilia, nel nostro altipiano.
Tra i Berberi del Nordafrica
Nella zona sono diffuse, simili ad alveari, delle cave
inesauribili di argilla di origine millenaria. Si scende a lume di candela e a
piedi scalzi attraverso stretti cunicoli per arrivare ad oltre 100 m di
profondità. L'argilla estratta si riporta in superfice a spalla, dentro
"coffe" di palma; poi viene trasportata su asini e carretti nei
vicini laboratori. Qui le zolle vengono frantumate con delle mazzette di legno
d'ulivo e poi messe a bagno in acqua dentro fosse scavate a terra; quindi viene
scaniata, a piedi nudi prima e con le mani dopo, per renderla omogenea,
elastica e pronta al tornio.
I laboratori, circa una cinquantina, sono postazioni interrate,
fresche, contigue l'una all'altra, di epoca
antichissima, con delle porticine rivolte verso sud per sfruttare la
luce naturale dalla mattina alla sera, coperte con travi ricavate dai fusti di
palma tagliati a metà e poggianti su pilastri ed archi rudimentali. Uno spesso
strato di sabbia copre le travi e allo stesso tempo rende calpestabile il tetto;
inoltre non fa penetrare il calore all'interno, consentendo ai manufatti di
asciugare molto lentamente.
La costruzione delle giare di grande pezzatura avviene
con la tecnica tradizionale del metodo a strisce, detto "a
colombino". Si preparano dei rotoli di argilla e uno alla volta si
sovrappongono a spirale sul tornio ottenendo così il primo pezzo che si mette
ad asciugare. Appena è asciutto si riporta sul tornio a pedale e si innesta il
secondo pezzo e poi il terzo, e così via a seconda del volume del manufatto.
Quando la giara è pronta, prima della cottura, si passa
alle decorazioni sulla superfice mediante solchi e graffiti semplici o a
zig-zag, praticati con stecche di legno o pezzi di pettine, aggiungendo per
ultimo un cordoncino preparato separatamente che si schiaccia ad ogni cm con la
semplice pressione del dito.
Nel momento in cui le terrecotte sono asciutte si passa all'“infornaciatura”; quest’ultima
operazione richiede una maestrìa particolare in quanto bisogna saper dosare la
gradazione del calore (che può arrivare fino a 1000 gradi) a seconda delle fasi
della cottura. Ci vogliono ore e ore di "gran fuoco" ed enormi
cataste di legna e fascine. Il tipo di forno e il calore sapientemente regolato
danno il repertorio cromatico richiesto e la giusta porosità del prodotto. Questo
era il segreto dei vecchi ceramisti siciliani oggi non più operanti, e questo è
il segreto dei Berberi del Nordafrica a cui Paolo Giliberto si è rivolto per
riconsegnare all'Altipiano Ibleo le bianche terrecotte di una volta.
1 commento:
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