Haiu ‘n mazzu di millimillicchi; Nun su’
virdi e mancu sicchi. Pi lu ‘miernu e pi la stati; ‘Nzirtatimillu, pi
caritati!
I capelli,
rispetto ai peli delle altre parti del corpo, sono più morbidi, ma soprattutto
sono più lunghi, se lasciati crescere, e più folti (possono raggiungere il
numero di 150-280 per cm2). Per queste ragioni l’assalto ai capelli è il più
naturale e il più pronto quando due donne litigano.
Fin dalle
epoche più remote, nelle credenze popolari e religiose i capelli sono stati
considerati sede della vita o della forza di una persona. Questo assunto, tra
gli altri, è confermato da Sansone: “ I
miei capelli non sono mai stati tagliati…Se uno mi taglia i capelli, io perdo
la mia forza e divento debole come qualsiasi altro uomo” (Giudici, 16, 17) e da Niso, re di Megara, la cui
sorte fu legata a un capello biondo. La pettinatura, quindi, dalla più semplice
alla più sofisticata, da operazione abituale può diventare un rito carico di
valenze magico - sacrali. Nelle culture primitive, inoltre, oltre al problema
del cosa fare delle ciocche tagliate che potevano essere utilizzate per
sortilegi di vario tipo (credenza ancora non scomparsa del tutto), il tagliarsi
i capelli comportava il pericolo di disturbare lo spirito della testa,
considerata sacra perché sede dello stesso.
A pilucchera
L'acconciatura
è sempre stata una delle parti più caratteristiche dell'abbigliamento e uno
degli elementi più mutevoli e vari della moda. Raggiunse la massima importanza
nella prima metà del sec. XVIII, quando i capelli venivano spesso rialzati in
enormi cupole o in complicati disegni, retti da anime o da macchinari e non di
rado arricchiti dagli oggetti più svariati.
Tralasciando
il periodo dell’immediato dopoguerra quando, al primo tiepido sole primaverile,
per ottemperare soprattutto ad un problema igienico, era consuetudine vedere le
donne sedute davanti la porta di casa e spidocchiarsi e spidocchiare col
pettine fitto le teste della prole, ci soffermeremo invece, al periodo
successivo quando le stesse portavano i capelli lunghi e però andare dal
parrucchiere era un lusso che poche si potevano permettere.
La
pettinatura, dal punto di vista estetico e del decoro personale, in questo caso
era affidata ad una persona di famiglia (la nuora quando andava a trovare la
suocera, per rispetto, le chiedeva se voleva essere pettinati i capelli) o
all’aiuto scambievole della vicina o ad una persona deputata a questo ruolo: a pilucchera. Costei andava di casa in
casa a pettinare le sue clienti con
frequenza settimanale o bisettimanale a seconda dell’accordo; con le belle
giornate si lavorava all’aperto. L’operazione era più lunga e più laboriosa
quando bisognava acconciare boccoli e cannola,
e sciogliere e annodare inestricabili trecce, tuppi e crocchie. A Palazzolo le pilucchere di professione più richieste erano la signorina
Concettina a stidda (la sorella Pauledda, già pilucchera, si mise a fare la stiratrice), donna Ciccina a Giulianu,
a
Pirarisa, a Mangiaova.
Cu javi capiddi ca vi cangiu
Era il tempo in cui il
benessere, il boom, non era ancora arrivato per cui si riutilizzavano e si
riciclavano anche le cose di poco conto o apparentemente inutili, come le
trecce e i capelli tagliati; addirittura i capelli che rimanevano impigliati
nel pettine venivano raccolti e conservati filo per filo in attesa del
ferravacchio. Costui al grido di “Cu javi
capiddi ca vi cangiu” girava per le strade e per i vicoli e dava in contropartita aghi, pettini, forcine, fermagli,
filoforte (era quello adatto per cucire culati
e rinucciala nei pantaloni sfondati
di tricot), bottoni automatici, elastico, ecc. Capiglieri, li chiama P. G. Farina, questi rigattieri: “Questi comprano a caro prezzo capelli di
donne per farne scufie da portarle le donne. I mariti danno bastonate alle
mogli venditrici: alcune scufiate muojono per capei infetti di tisi, ecc. Le
scufiate erano le ricche signore,
spelacchiate e non, che avevano la possibilità di comprare toupets ed altro per
farsi belle. Le donne del popolo, infatti, portavano i capelli lunghi non per
seguire la moda ma perché essi costituivano un piccolo capitale da vendere nel
momento del bisogno.
Questi capelli, poi,
andavano a finire in piccole fabbriche dove venivano sfilati e puliti per
diventare in un secondo momento costose parrucche o per essere spediti in
America presso le grandi fabbriche dove i capelli italiani erano molto
richiesti perché sottili e facili da lavorare. Con i capelli più corti (pilu ri fimmina) si facevano delle
treccine che servivano a confezionare cestini per conservare fresche le olive.
Capelli e credenze popolari
I capelli,
come già accennato, non solo sono la sede dell’anima e della forza di una
persona, ma ad essi fin dai tempi più antichi, è riconosciuta grandissima
importanza nel campo delle superstizioni e nelle fatture d’amore.
E’ credenza comune che i bambini cresceranno
sani e forti se fino al primo anno di vita non si taglieranno loro i capelli.
Alla forza si aggiungerà la fortuna se i capelli verranno tagliati a zazzera. E
se fra i primi capelli del bambino se ne trovi uno bianco, si deve avere cura
di non strapparlo perché è anch’esso messaggero di fortuna (Sortino).
Chi si taglia i capelli non deve gettarli
nelle campagne, per evitare che gli uccelli , intrecciandoli nei loro nidi, gli
facciano venire il mal di testa. Bisogna impedire pure che i capelli cadano e
restino in acqua per evitare che diventino serpenti. Le ragazze, invece, quando
desiderano avere una capigliatura lunga, intrecciano una spoglia degli stessi
nei loro capelli. E per l’allungamento rapido ci si rivolge alla luna nelle
notti di plenilunio con la seguente orazione: Bon vinuta luna nova, Jisti vecchia e turnasti nova; Commu criscinu li
to pizzi, accussì mi crisciunu li me trizzi!”. Oppure si recita quest’altra
se si è giust’appunto nel mese di maggio: “Acqua
di maju, crisci-capiddi, Criscili a mia, ca l’haju picciriddi!”. E se a
tempo di castagne incominciano a cadere molti capelli la medicina popolare
ricorre all’olio di tarantole: olio di oliva nel quale siano stati fritti tre scorpioni (gechi) o in alternativa un
ramarro (lucirtuni ‘mbriacu).
E’ nota
l’eccezionale importanza che, da sempre, si attribuisce alla manipolazione dei
capelli nelle fatture amorose o nel procurare il malocchio. Per questo motivo le
donne superstiziose, quando hanno finito di pettinarsi, usano raccogliere i
capelli che son loro caduti dal capo e li bruciano o vi sputano sopra o li
nascondono per evitare che finiscano nelle mai di majare e stregoni. Una ciocca di capelli è per le streghe l’oggetto
del desiderio, lo strumento privilegiato per potere “lavorare” proficuamente
nelle loro fatture di seduzione o di nocumento. In quest’ultimo caso, dopo la
recita della formula “Tu u facisti a mia
e iù ‘u fazzu a tia: comu si nni va stu capiddu, comu u ventu si nn’avi a
gghiri iddu”, si prendono i capelli della persona bersaglio e si lasciano
volare via dalla finestra. I risultati letali sono garantiti.
Il Corriere degli Iblei,
aprile 2003
1 commento:
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