PALAZZOLO. Il vecchio aratro sparito dalle campagne non
possiamo ammirarlo più nemmeno sulle monete da 10 lire, poiché queste, anche se
tuttora in corso legale, risultano ormai introvabili a causa del loro
insignificante potere d’acquisto.
Il contadino tecnologico, oggi, si
serve di razionali aratri meccanici o polivomeri, trainati da potentissimi
trattori che gli consentono una notevole riduzione dei tempi di lavoro , una
maggiore produttività e un grande risparmio di fatica. L’aratro a chiodo è
diventato di conseguenza memoria storica, prezioso cimelio da custodire
gelosamente nel pagliaio o da mettere in mostra in qualche museo della civiltà
contadina.
Terminate
le fatiche della raccolta e riposto il grano, il contadino di una volta,
instancabile, era già pronto a ricominciare il lavori per la nuova stagione
cerealicola.
A fine agosto nelle “marine” e ai primi
di settembre negli altipiani e nelle coste, lo vediamo già al lavoro con il suo
aratro dentro i seminativi ancora assolati. Prima provvede però alla smacciatura, libera cioè il terreno da
rovi, saittuna, (scardiccioni), pulicani (pulicarie), radici, pedali, dà
fuoco alle stoppie, ecc.
L’aratro diffusamente usato sino a
qualche decennio fa, non si discosta molto dall’aratro medievale, come questo
non si discostava più di tanto dal primitivo aratro delle remote civiltà
fluviali, se non per il vomere in ferro, là dove prima era in ferro o in
materiale litico.
In principio gli aratri venivano
trainati indifferentemente o dagli schiavi o dagli animali, per lo più buoi. Ma
non solo in principio. Leggiamo quanto dice P. Giacinto Farina nella sua “Selva
e depositario storico di Palazzolo” a p. 60. Siamo nel 1648: “Il Rev. Ottavio da Piazza menava un vanto di
aver veduto nelle contrade di Palazzolo un uomo che arava la terra e
nell’aratro erano aggiogati un asino e una donna. Ciò mi è stato confermato da
molti”. Questo aneddoto viene citato dal buon cappuccino palazzolese perchè
è veramente insolito, ciò non toglie tuttavia che fino a oltre la metà del
secolo scorso la tecnologia nei campi non era molto diversa da quella
medievale, di conseguenza le condizioni di vita e di lavoro della gente di
campagna erano non prive di disagi e di sofferenze.
L’aratro a chiodo
L’aratro a chiodo dalle nostre parti si
presenta sotto due versioni: a scocca e a
ivu. Il primo è predisposto per essere trainato da un equino (uno solo!) e
viene utilizzato per piccoli appezzamenti e per arare lenze e vignali: è
l’unica macchina in grado di avventurarsi nei terreni accidentati e pietrosi
sottratti giorno dopo giorno alle asperità della montagna. L’animale viene
aggiogato a questo aratro per mezzo della scocca, consistente in due stanghe di
legno assemblate e collegate da una parte al pettorale e dall’altra al timone (piertica).
L’aratro con il giogo a ivu, è più grande di quello a scocca e
le sue dimensioni variano a seconda delle coppie di animali (asini, muli, buoi,
ecc.) che vi si intendono aggiogare: Cambia pure il sistema di aggiogamento tra
equini e bovini: Con i vièstii si
usano i basti (sidduna): Il timone,
lungo circa tre metri e inserito nella casa dell’aratro, viene collegato al
giogo per mezzo di uno snodo chiamato cuonzu.
A sua volta il giogo mediante due
anelli in legno si fissa ai due arcioni (purpa)
dei basti. I bovini invece vengono aggiogati senza sidduna: il giogo collegato al timone, viene poggiato sugli omeri
della coppia e fissato per mezzo di due collari, pàili, di ampelodesmo o di palma nana intrecciata.
Il vitello
ribelle
Gli equini sia lasciano aggiogare
facilmente all’aratro. Lo stesso non si può dire per i bovini. Questi, infatti,
prima di essere aggiogati all’aratro necessitano di un certo periodo di
addestramento. L’animale novizio deve essere aggiogato, per forza di cose, in
coppia con un altro bovino manzu o lauraturi, cioè esperiente dell’aratro.
Scelto il vitello, jencu, da iniziare al lavoro, lo si lega per le corna e gli si
monta il giogo, quindi, tirandolo, lo si fa avanzare in linea retta assieme
all’altro animale ri spadda.
Dopo questi primi tentativi, di sicuro
assai movimentati, al giogo si aggiunge il timone e in seguito l’aratro,
facendo in modo che la punta del vomere, per le prime volte, rimanga in
superficie e poi incominci ad affondare in maniera graduale tra le zolle.
L’animale sa prendere la virsura
quando è in grado di solcare con regolarità il terreno voltando ad ogni testa
di torna, cioè sa completare un solco e girando iniziarne un altro. A questo
punto è addumatu (addomesticato,
adatto cioè a lavorare con l’aratro).
Si inizia a lavorare subito dopo i
primi temporali estivi, verso la fine di agosto, e si continua per tutto il
mese di settembre, quando la terra, ancora arsa dall’implacabile sole africano,
comincia a stemperarsi grazie alle attese e benefiche piogge. Ma si può arare
anche con la superficie asciutta, sebbene questo comporti uno sforzo maggiore
per gli animali; in questo caso i buoi sono i più adatti in quanto molto forti
e capaci quindi di produrre lo stesso lavoro di un trattore.
A volte il contadino, compatibilmente
con la disponibilità di tempo e degli animali a disposizione eseguiva la prima
aratura (maggese) nel mese di maggio-giugno, subito dopo la fienagione, quando
ancora il terreno era ricco di umore: era questo il cosiddetto maisi re frinati,o maisi ri maiu.
Durante la stagione dell’aratura il
contadino si levava prestissimo per governare gli animali e in particolare
quelli da utilizzare con l’aratro: dà la biada e li porta ad abbeverarsi. Verso
le cinque, con il cielo ancora senza un barlume di luce, la coppia è già sotto
il giogo pronta per iniziare la virsura.
Si procede lentamente, a fatica, la
terra incisa e rivoltata dal vomere lascia andare sprazzi di fumo. La frusta o
il pungolo incitano e spingono senza tregua le bestie. Bisogna gravarsi con
forza sull’aratro, il vomere deve penetrare per intero nello strato attivo per
svellere le grosse zolle e scavare solchi profondi. Più sono profondi i solchi
e più le messi vengono abbondanti. Un vecchio proverbio contadino dice: “Cu scippa timpuna / Mancia cudduruna”.
Vale a dire: “Chi divelle le grosse zolle, fa un abbondante raccolto (mancia cudduruna = mangia pane).
Alle 11,30 si spaja,
si libera cioè la coppia dall’aratro e si fa una sosta per rifocillare gli
animali e per prendere ‘n muorsu, o
all’antu stesso o presso le “case” se
queste sono abbastanza vicine. Alle 13 si ricomincia, avanti e indietro, il più
delle volte sotto un sole cocente; dalla manuzza
(impugnatura) arrivano tremendo scossoni che scuotono tutto il corpo: il portamento
dei buoi è grave e solenne e l’aratore (u
laurauturi) deve stare assai attento nel guidare l’aratro per evitare di
lasciare scanni, cioè spazio di terreno non dissodato (u vasciu).
Al
crepuscolo, dopo dodici ore di durissimo lavoro, il contadino rientra a casa
unitamente ai suoi silenziosi ma infaticabili aiutanti (In contrada S. Lucia,
vicino Palazzolo, ancora oggi, il contadino Salvatore Amatore, conosciuto con
il soprannome di don Turiddu u Cuccu,
ara con il tradizionale aratro a jvu
tirato da due pazienti è ormai introvabili mucche addumate).
Nel
mese di ottobre si rifunni, cioè si
ripassa nuovamente l’aratro, questa volta in senso trasversale rispetto alla
prima: serve a rompere la crosta superficiale della terra e a rimuovere le
incipienti erbette nate dai primi temporali.
La terra è pronta: ora si aspetta novembre e
la pioggia per iniziare la semina.
CAMMINO,
settimanale diocesano di informazione e di opinione, 20 dicembre 1992
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