Palazzolo.
Novembre è mese di semina: “La prima a
tutti li Santi, l’urtima a Sant’Andria”. Oggi la produzione cerealicola è
quasi totalmente meccanizzata. Per la preparazione del terreno, per la semina e
per il raccolto si utilizzano macchine agricole ad alta tecnologia. Nella
fattispecie vengono utilizzate le seminatrici fornite di rullo di compressione
che mentre spandono la semenza la pressano e la interrano.
Non
era così in passato. La semina a mano richiedeva tempi lunghi ed era condizionata
in particolare dalla imprevedibilità delle condizioni atmosferiche: si
incominciava ai primi di novembre, si continuava per tutto il mese e si
seguitava a dicembre, qualora il tempo avverso non avesse consentito di
continuare l’opera entro il giorno di Sant’Andrea (30 Novembre).
La
semina tardiva, però, oltre a richiedere una maggiore quantità di sementi,
comprometteva in parte il raccolto, visto che molte piantine, spuntate in
ritardo, non erano in grado di sopportare le avversità del clima. Un antico
proverbio contadino avvertiva: “Cu simina
pi Santa Lucia / nun porta frumento pi la via”. La semina precoce, invece,
garantisce messi abbondanti: Da qui: “Simina
prummintiu e lassa fari a Diu”.
Il
contadino infatti, oltre ai semi, affidava al terreno (e al Padreterno) anche
le sue trepidazioni e le sue speranze: una buona annata ripagava certamente
dalle fatiche e poteva dare anche il pane sufficiente per mantenere tutta la
famiglia.
Stabilire
quando iniziare a seminare era quasi sempre una scelta sofferta, meditata, ma
poi si doveva decidere e agire con tempestività dato che bisognava fare i conti con i rovesci
improvvisi, con le campagne impantanate, con le eventuali gelate.
Si
seminava mentre i campi erano molli di pioggia: le giornate ideali erano quelle
cariche di umidità, piovigginose, quando l’acqua cade fine e continua, ad assuppaviddanu.
A
tempo di messi, se possibile, il contadino preparava l’ammannatu , selezionava i
covoni con le spighe migliori tutte della stessa qualità per ricavarne sementi
selezionate per la imminente stagione. La prima domenica di ottobre si portava
in chiesa na junta di questi semi e
si faceva benedire. A casa veniva poi mischiato a tutta la semente che per
osmosi risultava benedetta tutta (a
Palazzolo, l’ultimo giorno dell’ottavario di san Sebastiano, il 17 agosto,
durante la messa vespertina si distribuiscono ai fedeli agricoltori dei
sacchetti di ammannatu benedetto da
mischiare, secondo la tradizione, alla massa da seminare).
S’alliscia a simenza
Giunto
il tempo della semina, la sera s’allisciava
a simenza; si sottoponevano cioè i semi ad un trattamento a base di solfato
di rame (petra cilesti) per prevenire
una malattia assai diffusa tra le graminacee, il malnero o carie del frumento (u niuru). Si calcolava la giusta
quantità di semente occorrente per l’indomani e la si deponeva a terra sul
pavimento della casa ri massaria. In
una brocca di terracotta con dell’acqua calda, si introduceva il solfato di
rame rimescolando con un bastone, fino a quando il composto si scioglieva e
l’acqua assumeva un colore azzurrino chiaro; si riversava quindi sul mucchio di
semente e si rimestava ben bene con le mani e con la pala in legno per
amalgamare, infine si ammucchiava a chirchiriddu
(a cocuzzolo) e, con la stessa pala, si tracciava un segno a forma di croce con
evidente significato propiziatorio.
Le
tecniche di seminagione più in uso tra i nostri contadini erano tre: a straccu (a spaglio), a surcu (a solco, a fila), a zotta (a fossette).
Quest’ultima
tecnica, malgrado fosse specifica per le fave e per altre piante cespitose, a
volte veniva adottata dal contadino per la semina dell’orzo, allo scopo di non
impoverire troppo il terreno, dato che, tra una zotta e l’altra, rimaneva una buona percentuale di suolo
incolto.
Una
volta la tecnica più praticata era quella a spaglio: era la più sbrigativa al
momento, poi successivamente, quando si doveva zappuliare a mano, dato che le piantine crescevano in modo
disordinato comportava grandissima fatica e molto impiego di tempo per il
contadino.
Sul
terreno già rifunnutu, per evitare di
lasciare zone di terreno non seminato, con l’aratro si tracciavano dei solchi
paralleli ma perpendicolari a quelli del
rifunniri (si seguiva cioè la virsura della ciaccata) distanti l’uno dall’altro 3, 4 metri circa; gli spazi di
terra compresi tra solco e solco erano chiamati porche (broci, proci, spiriei).
Il
seminatore (abbiaturi), dopo essersi
segnato, procedeva lungo una sponda (solco) della porca, con la mano destra
prelevava i chicchi dalla coffa,
appesa alla spalla sinistra, e li lanciava con gesto ampio e deciso a
semicerchio sulla metà opposta della porca, sincronizzando passi e bracciate e
mantenendo un ritmo sempre costante. Poi ritornava sull’altra sponda e spargeva
i semi sul lato opposto. Subito dopo, eseguiva un’aratura superficiale per
ricoprire il seminato. Nelle cirenne
(le chiuse molto estese), durante la semina, operavano contemporaneamente molti
aratri e molti uomini, ognuno con il proprio compito: chi solcava i proci con l’aratro, chi frantumava le
grosse zolle, chi seminava, chi sotterrava i semi. Una vera e propria divisione
razionale del lavoro.
Anche
il fieno si seminava a spaglio, e però senza maggese. A fine ottobre, tracciate
le porche, i semi venivano sparpagliati direttamente sulle stoppie e sulle
spine (tirruzzu a facci).
Il vomere apre il terreno
L’altro sistema di semina era quello a solco.
Sempre seguendo la virsura della ciaccata (trasversale alla rifunnuta) il vomere apriva il terreno e
il seminatore, dietro, vi gettava la semente. Arrivati a testa ri torna, cioè nel punto limite della chiusa, l’aratro
voltava e tracciava un nuovo solco contiguo, ricoprendo a un tempo quello
seminato all’andata. Questa tecnica permetteva una crescita ordinata del grano
e nella fase successiva rendeva più facile, l’operazione della zappettatura e
della sarchiatura.
A
fine gennaio e a febbraio, infatti, quando la piantina fa a curinedda, vale a dire quando emette le prime foglioline, con la zappudda si zappettava pianta per pianta
(si zappuliava a tagghiu a tagghiu):
si eliminavano le infestanti e rincalzando si facevano “respirare” e accestire
meglio le piantine.
In
seguito la zappettatura a mano venne sostituita dall’erpicatura: con l’erpice
si risparmiava tempo, fatica e denaro, specie quando gli iurnatari da pagare erano tanti. Poi entrarono in campo le zappatrici
prima tirate da animali, poi nei primi
anni ’60 meccaniche e con le zappette rotanti.
Ai
primi di marzo si scerpava (si scirbava)
cioè si liberava con le mani il terreno e il grano dalle male erbe che allo
stesso tempo costituivano foraggio fresco per gli animali. Poi, le tenere
spighe diventavano turgide e gialle di chicchi e il contadino, nell’attesa del
pane nuovo, avrebbe sentito meno gravosa la fatica del raccolto. Egli si
sentiva come assoggettato da una fatalità ineluttabile al suo lavoro e alla sua
campagna, più sgobbava e più amava la sua terra, l’accudiva amorevolmente.
Anzi, l’ambizione maggiore era di possederla, di ingrandirla se era già
proprietario del fondo che coltivava, diventare massaru, salire la scala gerarchica dei contadini.
Prima che vi uccidano
Sentiamo
cosa scrive il nostro Giuseppe Fava nel romanzo "Prima che vi uccidano",
a proposito del vecchio contadino Turi Scirpo. A pag. 18. “... egli voleva diventare il padrone di quella
terra. Si era tolto perciò il pane dalla bocca, raccoglieva lo sterco della
mula, o dai sentieri per concimare la terra …” e
ancora a pag. 20: “Su questa terra mio
padre ci metteva semina e sudore prima che voi nasceste" diceva Turi
"ma intanto non è nostra, e alla fine dell’anno ci tocca portare al
padrone la metà del raccolto!” e più avanti: “Ora egli possedeva la sua terra, e il grano che sarebbe cresciuto era
tutto suo; … lavorava come una bestia nella campagna: levava le gramigne dai
solchi e rifaceva i muri, poneva il concime nei solchi con le sue mani poiché
la terra ne potesse subito fermentare …".
Il
contadino ibleo, oggi, in genere, punta ad abbandonare la campagna, e tende ad
inurbarsi in attesa del posto. E anche se è fornito di mezzi e attrezzature
idonee alla lavorazione del terreno o se
ricorre a contoterzisti specializzati che lo sollevano dal lavoro assi
faticoso, considera, lo stesso, la campagna come un ripiego. E dire che di
questi tempi vige anche il "set-asid", un meccanismo introdotto dalla
Cee per ridurre la produzione eccedentaria dei cereali o di altro. Il
coltivatore, previa domanda, si impegna a non coltivare il terreno per cinque
anni: questo "congelamento" viene premiato e gli frutta 700 mila lire
per ogni ettaro lasciato incolto. Altro che cultura contadina! Si è arrivati al
punto che anche stando in campagna, si possono lasciare ugualmente abbandonati
i terreni, in compenso si diventa rentier delle Cee.
CAMMINO, settimanale di informazione e di
opinione, 10 gennaio1993
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