«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

La semina a mano


Palazzolo. Novembre è mese di semina: “La prima a tutti li Santi, l’urtima a Sant’Andria”. Oggi la produzione cerealicola è quasi totalmente meccanizzata. Per la preparazione del terreno, per la semina e per il raccolto si utilizzano macchine agricole ad alta tecnologia. Nella fattispecie vengono utilizzate le seminatrici fornite di rullo di compressione che mentre spandono la semenza la pressano e la interrano.

Non era così in passato. La semina a mano richiedeva tempi lunghi ed era condizionata in particolare dalla imprevedibilità delle condizioni atmosferiche: si incominciava ai primi di novembre, si continuava per tutto il mese e si seguitava a dicembre, qualora il tempo avverso non avesse consentito di continuare l’opera entro il giorno di Sant’Andrea (30 Novembre).

La semina tardiva, però, oltre a richiedere una maggiore quantità di sementi, comprometteva in parte il raccolto, visto che molte piantine, spuntate in ritardo, non erano in grado di sopportare le avversità del clima. Un antico proverbio contadino avvertiva: “Cu simina pi Santa Lucia / nun porta frumento pi la via”. La semina precoce, invece, garantisce messi abbondanti: Da qui: “Simina prummintiu e lassa fari a Diu”.
Il contadino infatti, oltre ai semi, affidava al terreno (e al Padreterno) anche le sue trepidazioni e le sue speranze: una buona annata ripagava certamente dalle fatiche e poteva dare anche il pane sufficiente per mantenere tutta la famiglia.

Stabilire quando iniziare a seminare era quasi sempre una scelta sofferta, meditata, ma poi si doveva decidere e agire con tempestività dato che  bisognava fare i conti con i rovesci improvvisi, con le campagne impantanate, con le eventuali gelate.
Si seminava mentre i campi erano molli di pioggia: le giornate ideali erano quelle cariche di umidità, piovigginose, quando l’acqua cade fine e continua, ad assuppaviddanu.

A tempo di messi, se possibile, il contadino preparava l’ammannatu , selezionava i covoni con le spighe migliori tutte della stessa qualità per ricavarne sementi selezionate per la imminente stagione. La prima domenica di ottobre si portava in chiesa na junta di questi semi e si faceva benedire. A casa veniva poi mischiato a tutta la semente che per osmosi risultava benedetta tutta (a Palazzolo, l’ultimo giorno dell’ottavario di san Sebastiano, il 17 agosto, durante la messa vespertina si distribuiscono ai fedeli agricoltori dei sacchetti di ammannatu benedetto da mischiare, secondo la tradizione, alla massa da seminare).

S’alliscia a simenza
Giunto il tempo della semina, la sera s’allisciava a simenza; si sottoponevano cioè i semi ad un trattamento a base di solfato di rame (petra cilesti) per prevenire una malattia assai diffusa tra le graminacee, il malnero o carie del frumento (u niuru). Si calcolava la giusta quantità di semente occorrente per l’indomani e la si deponeva a terra sul pavimento della casa ri massaria. In una brocca di terracotta con dell’acqua calda, si introduceva il solfato di rame rimescolando con un bastone, fino a quando il composto si scioglieva e l’acqua assumeva un colore azzurrino chiaro; si riversava quindi sul mucchio di semente e si rimestava ben bene con le mani e con la pala in legno per amalgamare, infine si ammucchiava a chirchiriddu (a cocuzzolo) e, con la stessa pala, si tracciava un segno a forma di croce con evidente significato propiziatorio.

Le tecniche di seminagione più in uso tra i nostri contadini erano tre: a straccu (a spaglio), a surcu (a solco, a fila), a zotta (a fossette).
Quest’ultima tecnica, malgrado fosse specifica per le fave e per altre piante cespitose, a volte veniva adottata dal contadino per la semina dell’orzo, allo scopo di non impoverire troppo il terreno, dato che, tra una zotta e l’altra, rimaneva una buona percentuale di suolo incolto. 
Una volta la tecnica più praticata era quella a spaglio: era la più sbrigativa al momento, poi successivamente, quando si doveva zappuliare a mano, dato che le piantine crescevano in modo disordinato comportava grandissima fatica e molto impiego di tempo per il contadino.

Sul terreno già rifunnutu, per evitare di lasciare zone di terreno non seminato, con l’aratro si tracciavano dei solchi paralleli ma perpendicolari a quelli del  rifunniri (si seguiva cioè la virsura della ciaccata) distanti l’uno dall’altro 3, 4 metri circa; gli spazi di terra compresi tra solco e solco erano chiamati porche (broci, proci, spiriei).


Il seminatore (abbiaturi), dopo essersi segnato, procedeva lungo una sponda (solco) della porca, con la mano destra prelevava i chicchi dalla coffa, appesa alla spalla sinistra, e li lanciava con gesto ampio e deciso a semicerchio sulla metà opposta della porca, sincronizzando passi e bracciate e mantenendo un ritmo sempre costante. Poi ritornava sull’altra sponda e spargeva i semi sul lato opposto. Subito dopo, eseguiva un’aratura superficiale per ricoprire il seminato. Nelle cirenne (le chiuse molto estese), durante la semina, operavano contemporaneamente molti aratri e molti uomini, ognuno con il proprio compito: chi solcava i proci con l’aratro, chi frantumava le grosse zolle, chi seminava, chi sotterrava i semi. Una vera e propria divisione razionale del lavoro.
Anche il fieno si seminava a spaglio, e però senza maggese. A fine ottobre, tracciate le porche, i semi venivano sparpagliati direttamente sulle stoppie e sulle spine (tirruzzu a facci).

Il vomere apre il terreno
 L’altro sistema di semina era quello a solco. Sempre seguendo la virsura della ciaccata (trasversale alla rifunnuta) il vomere apriva il terreno e il seminatore, dietro, vi gettava la semente. Arrivati a testa ri torna, cioè nel punto limite della chiusa, l’aratro voltava e tracciava un nuovo solco contiguo, ricoprendo a un tempo quello seminato all’andata. Questa tecnica permetteva una crescita ordinata del grano e nella fase successiva rendeva più facile, l’operazione della zappettatura e della sarchiatura.

A fine gennaio e a febbraio, infatti, quando la piantina fa a curinedda, vale a dire quando emette le prime foglioline, con la zappudda si zappettava pianta per pianta (si zappuliava a tagghiu a tagghiu): si eliminavano le infestanti e rincalzando si facevano “respirare” e accestire meglio le piantine.
In seguito la zappettatura a mano venne sostituita dall’erpicatura: con l’erpice si risparmiava tempo, fatica e denaro, specie quando gli iurnatari da pagare erano tanti. Poi entrarono in campo le zappatrici prima tirate da animali,  poi nei primi anni ’60 meccaniche e con le zappette rotanti.  

Ai primi di marzo si scerpava (si scirbava) cioè si liberava con le mani il terreno e il grano dalle male erbe che allo stesso tempo costituivano foraggio fresco per gli animali. Poi, le tenere spighe diventavano turgide e gialle di chicchi e il contadino, nell’attesa del pane nuovo, avrebbe sentito meno gravosa la fatica del raccolto. Egli si sentiva come assoggettato da una fatalità ineluttabile al suo lavoro e alla sua campagna, più sgobbava e più amava la sua terra, l’accudiva amorevolmente. Anzi, l’ambizione maggiore era di possederla, di ingrandirla se era già proprietario del fondo che coltivava, diventare massaru, salire la scala gerarchica dei contadini.

Prima che vi uccidano
Sentiamo cosa scrive il nostro Giuseppe Fava nel romanzo "Prima che vi uccidano", a proposito del vecchio contadino Turi Scirpo. A pag. 18. “... egli voleva diventare il padrone di quella terra. Si era tolto perciò il pane dalla bocca, raccoglieva lo sterco della mula, o dai sentieri per concimare la terra …  e ancora a pag. 20: “Su questa terra mio padre ci metteva semina e sudore prima che voi nasceste" diceva Turi "ma intanto non è nostra, e alla fine dell’anno ci tocca portare al padrone la metà del raccolto!  e più avanti: “Ora egli possedeva la sua terra, e il grano che sarebbe cresciuto era tutto suo; … lavorava come una bestia nella campagna: levava le gramigne dai solchi e rifaceva i muri, poneva il concime nei solchi con le sue mani poiché la terra ne potesse subito fermentare …".

Il contadino ibleo, oggi, in genere, punta ad abbandonare la campagna, e tende ad inurbarsi in attesa del posto. E anche se è fornito di mezzi e attrezzature idonee  alla lavorazione del terreno o se ricorre a contoterzisti specializzati che lo sollevano dal lavoro assi faticoso, considera, lo stesso, la campagna come un ripiego. E dire che di questi tempi vige anche il "set-asid", un meccanismo introdotto dalla Cee per ridurre la produzione eccedentaria dei cereali o di altro. Il coltivatore, previa domanda, si impegna a non coltivare il terreno per cinque anni: questo "congelamento" viene premiato e gli frutta 700 mila lire per ogni ettaro lasciato incolto. Altro che cultura contadina! Si è arrivati al punto che anche stando in campagna, si possono lasciare ugualmente abbandonati i terreni, in compenso si diventa rentier delle Cee.


 CAMMINO, settimanale di informazione e di opinione, 10 gennaio1993 

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