"Aprili favi cini, si nun su' ccà, su' a li marini".
PALAZZOLO. L'uomo, secondo il filosofo Porfirio, avrebbe
avuto il suo primo nutrimento nelle fave. Nell'antichità classica, la minestra
di fave, entrava nei riti sacri dedicati agli dei e all'arrivo della primavera.
Nel Medioevo la coltivazione delle fave era diffusissima e più o meno questo
legume veniva cucinato e consumato come
ai nostri giorni.
Tempo
di favajani
Dice un proverbio: "Aprili
favi cini, si nun su' ccà, su' a li marini". Dalle nostre parti, in
effetti, i favajani vengono raccolte
tenerissime quasi sempre a partire dai primi di maggio; la circostanza è
occasione per una bella scampagnata specie se è seguita dal pentolone sul
fuoco.
Crude, appena raccolte, si gustano da sole, col pane, o
accompagnate da fette di formaggio fresco e olive bianche; cotte si consumano
di solito a pisciruovu o con la
pasta; una variante sono le "fave con la menta": alle fave cotte si
aggiunge pan grattato, una spruzzata di aceto e foglie di menta. Le frittate
con le fave verdi variano a seconda delle zone e dei gusti, in ogni caso i favajani si sposano sempre bene con i
piselli, i cuori di carciofi, la cipollina di stagione e il pecorino.
In alcuni paesi, a scopo propiziatorio, è tradizione
ornare il "Sepolcro" nel Giovedì Santo con grappoli di baccelli di
fave; a Modica, invece, per S. Giorgio (23 aprile) durante la processione
insieme ad altri doni si offrono al santo piante di fave verdi.
Coltivazione
La coltivazione della fava è diffusa in tutto il
territorio regionale. Nella nostra area, dopo i cereali, il posto d'onore
spetta alla fava e fino a qualche tempo fa questa coltura ha avuto una discreta
importanza nell'economia agricola locale.
"San
Martinu favi e linu": le fave si seminano a Novembre. Si seminano a zotta o a surcu, lasciando cadere 4 o 5 semi per volta e coprendo con
terra mista a concime. Entro un mese dalla semina spuntano le prime piantine e
a gennaio, quando ancora sono piccole, si zappulianu,
avendo cura di togliere le erbacce e di addossare un po' di terra alla base
della pianta, per favorire altre sbocciature. A marzo (di solito) si zappa per la seconda volta.
Dopo la fioritura spuntano i vaiani che contengono da 4 a 6 fave. Dice un proverbio: "Tri sunu di li favi la ruvina: la furmica, la lupa e la risina (ruggine). La lupa (orobanche
speciosa) è il nemico più temibile. Si tratta di piantine parassite, belle ma
perfide, le cui radici vivono a spese di quelle dalla fava, che intristisce e
muore.
Le fave non si estirpano ma si mietono: il cespo
radicale fissa nel terreno una gran quantità di azoto, piuttosto molte volte sono usate come sovesci nelle
rotazioni agrarie in modo tale che "La
favata cuntrasta cu la malannata": la coltura della fava cioè conza il terreno per il frumento
dell'anno successivo.
Dopo la mietitura si passa alla trebbiatura. Il metodo tradizionale è quello dell'asino che calpesta i covoni di fave
sparpagliati dentro l'aia (v. foto)
fino a quando escono i semi dai baccelli.
La
carne dei poveri
Le fave sono state sempre un legume di largo consumo. I
Romani tentarono di farne persino il pane, mescolando la farina di fave a
quella di frumento. Proprio al periodo romano ci rimanda il maccu di fave (puls fabata) usato
nei banchetti funebri, ma già prima,
i Greci, in occasione delle panepsie, servivano una minestra a base
di fave.
In Sicilia la minestra di fave (maccu) di solito era
presente tutti i giorni sulla tavola del contadino ("Lu suli è-bbaneddi vanneddi,/la me patruna ha-mminisciatu i
scureddi" ricordava il garzone al padrone, a tromonto inoltrato,
quando era il momento di smettere di lavorare) e delle classi popolari e anche sulle mense dei conventi
considerati a ragione i "Paradisi delle fave".
Questa purea era alimento base, a basso costo,
sostanzioso e sempre disponibile: "(il bracciante agricolo) ...alla sera si sfama con una minestra di
fave, alle quali si smussa il guscio, e che in dialetto chiamansi
pizzicati" (S. A. Guastella, 1887). Una scodella di fave (scuredda) condita con olio e sale e
quando possibile con l'aggiunta di pasta, sostituiva egregiamente la carne e
dava regolarità all'intestino (e nelle fredde serate d'inverno teneva caldo lo
stomaco): le fave per il loro alto contenuto proteico sono considerate la carne dei poveri.
Le stesse classi popolari le utilizzavano per guarire in
modo empirico da alcune affezioni: fave cotte contro gli occhi cispi (micciusi) e arrossati; 40 fave, una al
giorno, per guarire dalla tosse ostinata; fave cotte con la buccia contro la
diarrea; fave verdi per combattere la malaria.
Una variante è il maccu
di San Giuseppe, festività questa coincidente con l'equinozio di primavera. Le
contadine in questa occasione utilizzavano gli ultimi legumi invernali (fave,
ceci, piselli, fagioli, lenticchie), e oltre al curadduzzu (pasta) aggiungevano
urraini, finuccieddu, cipollina e
pomodori secchi a pezzetti. Lo stesso
diventa maccu lurdu quando si
aggiunge il lardo di maiale.
Credenze
e votazioni segrete
Esiste un relazione, anche se controversa, tra le fave e
i morti. Le macchie nere sui petali dei fiori delle fave erano considerate un
lugubre segno dell'aldilà, anzi si pensava che le anime vaganti dei defunti
albergassero proprio in quei fiori maculati. E per esorcizzare gli influssi
negativi, in occasione delle Lemurie celebrate nel mese di maggio, i padri
romani a mezzanotte si mettevano delle fave nere in bocca e poi le buttavano
dietro le spalle. Per tale motivo, ma soprattutto forse perchè la fava con il
polline dei suoi fiori procura quella brutta malattia nota col nome di favismo,
molti saggi, a incominciare da
Cicerone, la ritennero una pianta impura.
Sul versante della valenza positiva si spiega la
tradizione delle fave il 2 Novembre nelle nostre case, sia come piatto da
consumare, sia come elemosina per i poveri in suffragio dei defunti, sia sotto
forma di frutta martorana che i "morti" lasciano ai bambini.
Lo stesso vale per una filastrocca riportata da Pitrè
che nel Circondario di Modica veniva recitata dalla donna più anziana presente
al momento della nascita di un bambino, dopo aver posto nove fave nere sul
tavolo. Serviva per accattivarsi la simpatia delle "Donne di fora"
benigne: "Favi favuzzi,/Ch'hannu
niuri li 'uccuzzi!/E viniti cu lu suli,/Cà la menza è priparata;/ E faciemucci
anuri/A lu figghiu e a la figghiata!".
E ancora: a Noto per S. Giovanni le ragazze in cerca di
marito mettevano in un sacchetto tre fave: una intera, una pizzicata e una
sgusciata; a seconda della fava estratta, il marito sarebbe stato ricco se la
fava era quella non sgusciata, così così se veniva fuori la fava pizzicata,
povero in canna se veniva estratta la fava nuda.
Sia nell'antichità classica che nei secoli più vicini a
noi in molte comunità, quando si voleva tenere segreto il voto, si votava con
le fave bianche e nere (favi palini)
che sostituivano altrettante palline bicolori. Ciò avveniva, ad esempio, quando
si convocava il Parlamento popolare in epoca medievale. A Firenze esisteva
addirittura la cosiddetta "Autorità delle sei fave", che votava nella
maniera indicata. Questo sistema era anche abbastanza usato nelle votazioni dei
conventi, dove le fave erano veramente di casa.
I SIRACUSANI, bimestrale di storia arte e tradizioni, marzo-aprile 2006
1 commento:
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