…si partiva sempre di prima mattina, col carretto, a
barda, a piedi, per scorciatoie e sentieri appena tracciati...
Palazzolo Acreide. Un notissimo canto popolare ci rammenta l’atavica
consuetudine del bucato affidato alla donna: ”Sant’ Anna lavava, Maruzza
stinnìa, Gesuzzu chiancìa, minnedda vulìa...”. Proprio sant’Anna , la
“nonna” di Gesù cioè, è la protettrice delle lavandaie.
Quando
ancora le abitazioni era prive di acqua potabile si andava a lavare al fiume o
al lavatoio pubblico. La madre di famiglia di una volta, oltre a quest’onere,
aveva il carico di tutta una serie di adempimenti a cui non poteva sottrarsi:
andare ad attingere l’acqua alla fonte, cucinare, rattoppare, cucire,
rassettare la casa, badare ai figli, andare al mulino per la farina, preparare
il pane, lavorare al telaio ecc. ecc.
La
maggior parte di queste gravi incombenze oggi sono scomparse, e quelle rimaste,
naturalmente, sono cambiate.A Palazzolo, a
partire dal 1951, con l’entrata in funzione dell’acquedotto civico, le
fontane e i lavatoi incominciarono a perdere l’importante funzione che avevano avuto nell’economia e nelle
abitudini del paese. A poco a poco le massaie si attrezzarono di pile in scaglietta e, sempre
a mano, continuarono a lavare in casa.
Subito dopo arrivarono le lavatrici e i detersivi,
ma per il loro alto costo, inizialmente furono accessibili solo alle famiglie di una certa agiatezza.
L’arcaica consuetudine, dunque, fu dura a morire sia per il convincimento che solo l’abbondanza
dell’acqua della fontana o del fiume potesse dare un bucato “veramente” pulito
e sia anche per un problema di risparmio sulla bolletta.
Fontanagrande e Fiumegrande
Fontanagrande e Fiumegrande erano le due fontane con i lavatoi sempre affollati e servivano,
di solito, le famiglie che abitavano nelle zona alta del paese.
Il
lavatoio di Fontanagrande era diviso in quattro grandi vasche comunicanti che ricevevano l’acqua dal tuttopieno
dell’abbeveratoio: la vasca più vicina all’abbeveratoio, la più pulita, era
quella dell’ultimo risciacquo che precedeva la mazziata e la strizzatura.
Appresso c’era la vasca per la seconda sciaquata, in seguito quella per la
prima e infine c’era la grande vasca per la primissima insaponata. Il compito
di pulire tutto il complesso era affidato al buon don Sarafinu, lo spazzino del quartiere: ogni sabato mattina nettava
lavatoio, fontana, abbeveratoio e tutta l’area circostante da quello che
lasciavano cadere le bestie o che abbandonavano le persone.In una famiglia la
frequenza del bucato alla fontana era in rapporto all’entità della prole e al
tipo di lavoro del capofamiglia; non si lavava mai, comunque, meno di due volte
alla settimana. Giorno e notte era una continua processione di donne che con la
truscia in equilibrio sul capo, o sul
fianco, si recavano a lavare. Sabato notte e tutta la giornata della domenica
si registrava il tutto esaurito: si doveva lavare la biancheria sporca del
marito che, finita la settimana, il lunedì appresso doveva ritornare al lavoro.
Quella di Fontanagrande era la struttura più grande e la più attrezzata e un tempo era fornita di tettoia e anche di un fanale a petrolio. Di giorno andavano soprattutto le lavandaie pubbliche, cioè quelle venivano pagate e che lavavano la biancheria alle famiglie abbienti o impossibilitate a farlo per motivi di salute, e poi quelle madri di famiglia che non avevano remore. Si lavava sino a sera inoltrata. Di notte o fin dalle prime luci dell’alba andavano le casalinghe più riservate, quelle che non volevano farsi vedere, oppure quelle che non avevano trovato la balata libera in precedenza. Fontanagrande era in grado di dar posto anche fino a una ventina di lavandaie contemporaneamente. Guai però a non rispettare le regole di igiene e di buon senso relative al razionale utilizzo dei settori del lavatoio: dalle parole si passava ai fatti e allora si che erano colpi di lenzuola trucciuti o altro.
Per imbiancare i capi di abbigliamento particolarmente sporchi si faceva la liscìa a casa, nelle quararare e nei mezzaranci, e poi si portavano al lavatoio dove venivano sottoposti a nuove insaponate e a ripetute esposizioni al sole (il sole imbianca più del sapone) per buona parte della giornata. A questo proposito P. G. Farina ci fa conoscere un aneddoto relativo alla fiera della Madonna Odigitria del 1883 (6 agosto) e alla furbizia delle donne: “Era il tempo della fiera in cui tutti vanno a beverare gli animali. Le nostre donne avevano posto in Fontanagrande una quantità di calderoni pieni d’acqua per dar da bere alle bestie, e farsi pagare mentre aveano levato l’acqua dalla beveratoja. Bella martinella! La giustizia voltò l’acqua nel beveratojo, e portò seco i calderoni…”.
Al fiume
Per andare a lavare al fiume si partiva sempre
di prima mattina, col carretto, a barda,
a piedi per scorciatoie e sentieri appena tracciati. L’operazione impegnava
tutta la giornata: si ritornava a sera stanche, ma con la biancheria asciutta e
profumata di pulito. E pure la chiesa, un tempo, sempre intransigente nel far
rispettare i suoi princìpi, proibiva di eseguire questo lavoro nei giorni di
precetto, pena la confisca di piccoli beni e oggetti personali.
Nelle campagne non c’era fiume, fiumiciattolo o gora che non venissero utilizzati per il bucato. Nelle vicinanze di Palazzolo si lavava soprattutto alla "ciumara", si lavava a S. Giovanni, alla "Rifacca", ai Mulini, presso il torrente Purbella, ai Saraceni, alla "cava ro Santazzu", ecc. Il fiume, per l’abbondanza dell’acqua e per lo spazio disponibile si prestava meglio per lavare biancheria particolarmente sporca, per lavare la tela di casa, per fare la liscìa, per lavare la lana
Appena si arrivava sul posto si accaparrava subito la pietra, "a balata", su cui lavare (se possibile, sempre la stessa): “Come nel confessionile si pongono le corone per indicare il posto, così nei fiumi dai (sic) lavandaie si mette una robba per mostrare il possesso” (P. G. Farina, Selva). Era un problema di rispetto del turno e quindi di economia di tempo (dopo la levataccia) ma anche di reputazione, nel senso di sapersi far valere: “a bona lavannara nun manca mai petra”, recitava un antico proverbio carico di sottintesi.
Sistemato un capo sporco sotto le ginocchia oppure una pala di fichidindia o inginocchiate a diretto contatto col terreno, le donne iniziavano subito a lavare. Fiume e dintorni, diventavano allora scenari e testimoni della routinaria fatica femminile e delle liti che, anche qui, inevitabilmente, scoppiavano. C’era chi insaponava, chi sciaquava, chi strizzava, chi "mazziava", chi sciorinava, chi cantava, chi gridava, chi litigava per la petra che tardava a liberarsi, chi rimproverava il proprio piccolo per essere andato in acqua, chi lo controllava dentro la improvvisata "naca a vuolu" sospesa a due alberi o a delle robuste macchie. E intanto si apprendevano e si propalavano gli ultimi pettegolezzi, gli scandali: rosari di notizie vere e false che venivano drammatizzate, amplificate, distorte.
Il fiume era il posto più adatto per imbiancare la tela tessuta in casa: "liscìa" e poi sapone, acqua corrente, "mazziate" e sole; sapone, acqua corrente, mazziate e sole… per diversi giorni fino a quando la tela non assumeva il bianco desiderato. La liscìa consisteva in un infuso bollente di acqua, sapone, cenere ottenuta dalla combustione del mallo delle mandorle (ricca di carbonati di potassio e quindi con un forte potere detergente), ramoscelli di alloro bruciacchiati, gusci d’uovo. Il tutto si versava dentro la quarara con la biancheria insaponata e si metteva a macerare per qualche ora. Questa pratica la si poteva fare in precedenza a casa oppure direttamente al fiume. Il risultato dopo tale procedimento era quello di un candore e di un profumo che ancora oggi rimangono indelebili nei sensi e nella memoria di chi ha vissuto quest’ultima fetta di antica civiltà contadina.
Anche la lana, fresca di tosatura, si lavava al fiume, da maggio a settembre. Una prima lavata con acqua calda in casa e poi al fiume veniva lavata più volte nell’acqua fresca sistemata dentro una "cruvedda"; quindi si metteva ad asciugare sull’erba di cui erano ricche le sponde.
Oggi il bucato si fa con la lavabiancheria; sul mercato ci sono macchine sempre più perfette e sofisticate alla portata di tutti o quasi. Il vero “lusso” consiste nel permettersi di lavare qualche capo a mano, “lusso” che poche donne ancora si permettono. Esattamente il contrario di quello che avveniva una quarantina di anni fa.
Nelle campagne non c’era fiume, fiumiciattolo o gora che non venissero utilizzati per il bucato. Nelle vicinanze di Palazzolo si lavava soprattutto alla "ciumara", si lavava a S. Giovanni, alla "Rifacca", ai Mulini, presso il torrente Purbella, ai Saraceni, alla "cava ro Santazzu", ecc. Il fiume, per l’abbondanza dell’acqua e per lo spazio disponibile si prestava meglio per lavare biancheria particolarmente sporca, per lavare la tela di casa, per fare la liscìa, per lavare la lana
Appena si arrivava sul posto si accaparrava subito la pietra, "a balata", su cui lavare (se possibile, sempre la stessa): “Come nel confessionile si pongono le corone per indicare il posto, così nei fiumi dai (sic) lavandaie si mette una robba per mostrare il possesso” (P. G. Farina, Selva). Era un problema di rispetto del turno e quindi di economia di tempo (dopo la levataccia) ma anche di reputazione, nel senso di sapersi far valere: “a bona lavannara nun manca mai petra”, recitava un antico proverbio carico di sottintesi.
Sistemato un capo sporco sotto le ginocchia oppure una pala di fichidindia o inginocchiate a diretto contatto col terreno, le donne iniziavano subito a lavare. Fiume e dintorni, diventavano allora scenari e testimoni della routinaria fatica femminile e delle liti che, anche qui, inevitabilmente, scoppiavano. C’era chi insaponava, chi sciaquava, chi strizzava, chi "mazziava", chi sciorinava, chi cantava, chi gridava, chi litigava per la petra che tardava a liberarsi, chi rimproverava il proprio piccolo per essere andato in acqua, chi lo controllava dentro la improvvisata "naca a vuolu" sospesa a due alberi o a delle robuste macchie. E intanto si apprendevano e si propalavano gli ultimi pettegolezzi, gli scandali: rosari di notizie vere e false che venivano drammatizzate, amplificate, distorte.
Il fiume era il posto più adatto per imbiancare la tela tessuta in casa: "liscìa" e poi sapone, acqua corrente, "mazziate" e sole; sapone, acqua corrente, mazziate e sole… per diversi giorni fino a quando la tela non assumeva il bianco desiderato. La liscìa consisteva in un infuso bollente di acqua, sapone, cenere ottenuta dalla combustione del mallo delle mandorle (ricca di carbonati di potassio e quindi con un forte potere detergente), ramoscelli di alloro bruciacchiati, gusci d’uovo. Il tutto si versava dentro la quarara con la biancheria insaponata e si metteva a macerare per qualche ora. Questa pratica la si poteva fare in precedenza a casa oppure direttamente al fiume. Il risultato dopo tale procedimento era quello di un candore e di un profumo che ancora oggi rimangono indelebili nei sensi e nella memoria di chi ha vissuto quest’ultima fetta di antica civiltà contadina.
Anche la lana, fresca di tosatura, si lavava al fiume, da maggio a settembre. Una prima lavata con acqua calda in casa e poi al fiume veniva lavata più volte nell’acqua fresca sistemata dentro una "cruvedda"; quindi si metteva ad asciugare sull’erba di cui erano ricche le sponde.
Oggi il bucato si fa con la lavabiancheria; sul mercato ci sono macchine sempre più perfette e sofisticate alla portata di tutti o quasi. Il vero “lusso” consiste nel permettersi di lavare qualche capo a mano, “lusso” che poche donne ancora si permettono. Esattamente il contrario di quello che avveniva una quarantina di anni fa.
IL CORRIERE DEGLI IBLEI, luglio agosto 2002
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