Alla visita
di leva si presentò nudo come un verme: solo due sonaglini ai genitali
infiocchettati con un elegante nastrino rosso vermiglio.
Aveva appena preso, tutto vestito
di bianco e contrito, la prima comunione, che introdusse del carburo di calcio
(acetilene) nel vaso da notte di una delle sue sorelle. Facile immaginare,
nottetempo, la reazione del composto a contatto con la pipì ma, soprattutto, la
reazione della sorella. Al matrimonio della medesima si presentò con una boccia
di vetro occupata da un vispo serpente che depose con noncuranza sul canterano
della stanza dove gli invitati erano in attesa della prima passata di dolci.
Era fatto
così Turi Rizza. Non gli passava mai
per la testa, e non perchè fosse cinico o cattivo, quali gravi conseguenze
sarebbero potute derivare dalle sue incredibili trovate. Una vita vissuta
intensamente, ma alla giornata, per sua libera scelta, tra lavoro, scherzi e schiticci vari, senza progetti e senza
certezze. Di sicuro una vita stravagante, scriteriata per le persone di senso
comune, ma impagabile per lui che volle viverla proprio come la visse.
Di mestiere
faceva il falegname, ma durante la movimentata esistenza, grazie al suo
eclettismo e alla sua genialità, aveva fatto di tutto: il cuciniere, il
suonatore di bombardino, il trombettiere, il venditore di polpette, il
barbiere, il conciatore di pelli di serpenti, il cesellatore, l'esploratore -
cavia nella savana. In Venezuela subì un incidente alla testa che gli
compromise seriamente la facoltà della vista.
Il suo
ricordo, nondimeno, è legato in particolare al carnevale palazzolese, di cui fu
animatore impareggiabile per decenni; tuttavia, per gli scherzi non aveva
bisogno di aspettare le baldorie carnescialesche: qualsiasi occasione era
sempre buona per divertirsi e divertire.
I suoi
scherzi a getto continuo hanno fatto epoca e costituiscono uno stupefacente
florilegio di trovate e di invenzioni di cui lui stesso si nutriva: non poteva
farne a meno, erano il suo modus vivendi. E quando gli si accendeva la
"lampadina" non si fermava più e non guardava in faccia nessuno, nè
amici, nè parenti, nè persone di riguardo, come, ad esempio, il padre guardiano
dei cappuccini. Costui, fornito di bicicletta, tutti i giorni era solito andare
a degustare un "ricco" caffé al bar Corsino. A Turi, un giorno, improvvisamente gli si accese la lampada-spia e
senza pensarci un attimo gli allentò di nascosto i pattini dei freni. Sorbito
il caffè, il malcapitato frate inforcò di nuovo la bicicletta e via di corsa
verso il convento, con la tonaca svolazzante. Al momento di frenare però, lo
sventurato, per evitare di andare a finire nella cava dei mulini, non ebbe altra scelta che il primo muro a portata
di mano. Un vero disastro! Il padre guardiano da quella volta si tolse il vizio
di andare a prendere il caffè con la bicicletta.
Il
"Barbiere di Siviglia" rimane uno degli scherzi più strabilianti di Turi Rizza. Siamo alla fine degli anni
'40, una sera di Carnevale in piazza Pretura. Il Nostro, allettandolo con la
lusinga che avrebbero vinto e spartito con assoluta certezza il primo premio in
palio, convinse un catanese della sciara
a fare la parte dell’avventore mentre lui avrebbe fatto quella del barbiere. Turi, ammantato di camice bianco e
attrezzato di forbice tosa pecore, di pettine e di rasoio di compensato, nonché
di pennello, lo legò ben bene alla sedia e, appena la banda di Buscemi intonò
l'aria rossiniana, diede inizio alla sua
performance: saponata con acqua gesso e sapone di casa pennellata in faccia con
lo scupazzu del cesso e inframmezzata
da generose "benedizioni" agli spettatori, che, intanto, si sbellicavano dalle risate; dopobarba
all'acqua di seltz spruzzata direttamente dal sifone al cliente e al pubblico
delirante.
Più la banda suonava e più il novello "figaro" diventava
"cattivo" con delle sforbiciate assassine al povero disgraziato che
cercava di sfuggire disperatamente allo scopino e alle forbici. Per ultimo, in
un crescendo ormai inarrestabile, shampoo a base di ricotta fresca e
talco-farina cosparso col crivello. Si racconta che Turi, in quella occasione, fu costretto a rimanere nascosto per
oltre una settimana onde evitare la biblica furia omicida del tapino catanese
schiumante di rabbia.
Aveva una
faccia allegra, Turi, da sceicco,
sempre pronta al sorriso, ammiccante ma mai rassicurante, non potevi mai
prevedere che cosa gli frullasse in testa; una faccia stagnata, incapace di farsi rossa neanche a sputargliela. Portava
sempre un paio di occhiali scuri, ma solo per proteggersi dalla luce e sulla
boscaglia di capelli un cappello a seconda delle stagioni. Quando decise di
farsi crescere la barba, bianca, tutta abbatuffolata come il pelo delle pecore,
sulla testa capelluta mise un colbacco di pelo di coniglio che gli dava un’ariata a Garibaldi, come garibaldine
erano le imprese di Turi, audaci e
temerarie.
Di media statura, tarchiato, azzampato alla
cavallerizza, aveva delle mani grandi e nocchierute e una voce arrochita dalle
sigarette: fumava due, tre pacchetti al giorno. Gli piaceva la buona cucina,
abbondante, saporita; beveva solo Coca Cola, a fiumi. Era capace anche di
“emozionarsi” davanti ad una fetta di mortadella ripensando mentalmente cos’era
stato l’insaccato prima di diventare tale; sulla sua mensa però non mancavano
mai galline o galli ripieni con contorno di patate e cipolline, specie quando
era ancora permesso tenere le nasse,
con dentro questi deliziosi pennuti, sui marciapiedi davanti le porte delle
case; né si emozionava più di tanto quando andava a barbaini che consumava seduta stante succhiandoli e sradicandoli
dal vivo direttamente dalla conchiglia.
I musicanti
della banda di Palazzolo, di cui anche lui faceva parte, conoscendolo, stavano
sempre sul chi va là, ma Turi
riusciva lo stesso a fargliela in barba: una volta strofinava le spine dei
fichi d'India sulle imboccature degli strumenti a fiato; un'altra volta, mentre
i colleghi dormivano, spaiava e rimischiava le scarpe annodando tra di loro le
stringhe; un'altra volta, mentre si suonava, infilava la prima cosa che gli
capitava dentro la bocca dei tromboni: topi, lucertole, scorpioni tarantolati e
via di questo passo. A un mulunaru, che
aveva impostato a piramide la sua merce sul marciapiede di via San Sebastiano,
accanto alla chiesa, gli giocò un tiro assai pesante: gli sfilò una anguria
dalla base che provocò il rotolamento a rotta di collo di tutta la pila per
tutta la discesa, fino a piazza Pretura, con la polpa color sangue che
schizzava da tutte le parti.
Anche lui,
ovviamente, subiva degli scherzi da parte dei suoi amici, come quella volta che
gli nascosero il letto. Siccome mancava la lampada nella stanza da letto,
chiamata in questo modo sol perchè era tramezzata da una tenda nera di quelle
che si usavano per allestire i talami dei morti nelle chiese, e oltretutto ci
vedeva anche poco, era ormai abituato ad andarsi a coricare a tentoni: quando
era sicuro di essere arrivato nel punto giusto, si buttava a pesce. Quella
volta, come al solito, prima tastò il muro e poi fece il salto, ma mal gliene
incolse. Andò a finire a terra come un sacco di patate.
Un'altra
volta, al posto del latte, gli diedero da bere del colostro che lo costrinse a
rimanere incollato alla tazza del water per tutta la giornata. Un'altra volta
ancora (ma anche su quest'altro versante si potrebbe continuare all'infinito)
alcuni ragazzi gli ammannirono un gatto per coniglio alla stimpirata (alla "cubana" diceva Lui). Quando verso la
fine del lauto pasto qualcuno incominciò a miagolare con insistenza, finalmente
Turi sbottò: "Ma che è, che è
successo?" Al che uno dei ragazzi di rimando: "Don Turuzzu come vi è sembrato il
gatto?". "Eh, figli di grandissima bbuttana!".
Vegetariano
sicuramente non era, ma con gli animali aveva un rapporto particolare, quasi da
ciaraulu. Con loro era pieno di premure e di tenerezze a qualsiasi
razza e genere appartenessero, dalla pecora Ninetta al serpente 'Nzulu, dal volpacchiotto Nino
(dall'olezzo irresistibile) al rospo Paolo o alla bertuccia Cita. La sua
casa-bottega-zoo del cala e scinni era
una specie di arca di Noè: serpenti che teneva nei cestini dell'asilo, cani,
gatti, topi, ricci, porcellini d'India, capretti galline e polli in lista di
attesa. Aveva persino un ramarro
sgargiante che imboccava personalmente lui tutti i giorni tenendolo in mano.
Quando nella
sua officina capitava incautamente qualche ragazzo ancora non smaliziato, Turi gli diceva subito: "Attia, attia, mi prendi le sigarette in
quel cestino!". Il malcapitato apriva il cestino o il cassetto indicato e
si trovava tra le mani un ramarro o un rospo o uno dei serpenti.
Era
improbabile che andasse in giro senza portarsi dietro qualcuna delle sue amate
creature. Un giorno assieme a Padre Zocco e allo zio Tanu, si era recato a Francofonte per una audizione della banda di
quella città, da scritturare per l'imminente festa dell'Addolorata a Palazzolo.
Nel momento in cui la banda sul palco della villa, gremita di persone, attaccò
la marcia trionfale dell'Aida, Turi
fece scivolare via ‘Nzulu, il fidato
biacco che portava sempre con sé. Accadde il finimondo: un fuggi fuggi generale
tra urla isteriche, svenimenti, sedie e tavoli con le gambe all'aria e intanto
la banda, ignara di tutto, concludeva imperterrita il suo finale travolgente.
La pecora
Ninetta, dal vello soffice e vaporoso (a lei faceva lo shampoo vero), ogni
pomeriggio, come in un rito, accompagnata dal cane pastore Laica, andava a
trovarlo al bar Corsino dove Turi
teneva banco e faceva la solita partitina con gli amici. Laica aspettava fuori
mentre Ninetta andava a prelevare il padrone. Prima di andare via però, in un
modo o nell'altro, la dolce Ninetta e il suo padrone si gustavano il loro bravo
cannolo di ricotta e cannella e poi Turi,
molto educatamente, con il tovagliolino di carta nettava prima la sua e poi la
bocca della pecora, o viceversa; quindi si rientrava a casa. Una volta, sempre
Ninetta, gli fece una graditissima sorpresa: lo andò a trovare a san Paolo
durante un matrimonio al quale inopinatamente era stato invitato solo il suo
padrone.
I suoi Carnevali, le sue
partecipazioni, le sue esibizioni, i suoi carri sono così tanti che riesce
difficile quantificarli. Basterà solo ricordare a caso alcuni titoli o
didascalie dei carri o dei gruppi mascherati, per farsi tornare alla mente,
come in un interminabile flash back, sequenze e scene esilaranti che hanno
sollazzato per un bel po' di tempo diverse generazioni di palazzolesi e hanno
contraddistinto il curricolo artistico della premiata ditta "Arte e
modello Turi Rizza".
Fra le tante cannaluariate di Turi si
ricordano: Giulietta e Romeo",
"Matrimonio all'Italiana di Turi Rizza e l'Americana", "La
patente dai cento fogli rosa", "Il gatto-barbiere" con la scocca
e il cavallino, "La gallina nostrana", "I sogni di Nixon",
"La sagra del finocchio", "Scagghiuni 1", "Scagghiuni
2" "Scagghiuni 3, 4, 5..." "U puorcu ra marina 'ngrassa cca gghianna ra muntagna",
"Mosè e le tavole della legge" con al seguito "La famiglia
vietnamita" (o "maomettana" che dir si voglia), "Tarzan e
gli animali della foresta", "Garibaldi e lo sbarco dei Mille",
I.N.A.M. (Italiani Non Ammalatevi Mai), ecc. ecc.
Il ricordo di questo singolare e irripetibile personaggio non
cadrà mai nell'oblio. Il suo nome rimane indissolubilmente legato al Carnevale
palazzolese, ma rimane anche nella memoria di chi ha condiviso con lui tutte le
stranezze di cui era capace e di chi lo ha semplicemente conosciuto ed ha
assistito alle sue mille esibizioni istrionesche.
1 commento:
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