Con una canna il maresciallo gli scostò il bavero della giacca dal
viso esangue e lo identificò:
era proprio lui, Miceli Giuseppe, detto Peppi u zuoppu, nato a Buscemi il 2.4.1897 e residente a Palazzolo
Acreide in via Vistabella n. 20.
Lo trovarono una gelida mattina di dicembre di
trent’anni fa, a terra, con la barba grigiastra intrisa di bava, rannicchiato
sul pagliericcio del suo misero tugurio intanfato di umido, nei pressi di castieddu minzanu, con la coppola tutta
di traverso e le stampelle accanto. Sul tavolo sgangherato e imporrito una
montagna di pacchi di pasta, ammuffita, e una vastedda appena sbocconcellata, ammuffita anch’essa. L’umidità, in
quel buco senz’aria e senza luce, esalava un insopportabile tanfo di terriccio
rimosso e le ragnatele, assieme alla muffa, avevano conquistato ogni angolo.
Lo sventurato, solo al mondo, non aveva voluto dare fastidio al
prossimo, nemmeno per morire: se ne era andato con discrezione, in punta di
piedi, come per una sorta di inconsapevole senso del pudore. Da ragazzo, mentre
era intento a giocare con dei coetanei, fu spinto da uno di loro, e intanto che
cadeva a terra un grappolo di ragazzi gli rovinò addosso: la gamba sinistra
rimase completamente maciullata. Dati i tempi tristi, fu condannato a rimanere
storpio per tutta la vita e a vivere ai margini della società.
Una faccia verdognola, ingiallita dai patimenti e dalla miseria,
ispida, con una barba feroce, irta di peli, che gli invadeva le guance fin
quasi sotto gli occhi; due occhi nerissimi, di carbone; una coppola bisunta e
informe per tutte le stagioni, calcata regolarmente sulla testa, notte e
giorno: i capelli neri come ala di corvo, lisci, irsuti, che gli schizzavano da
sotto; il naso un po’ camuso e due ciuffetti di peli setolosi che gli
fuoriuscivano dalle pinne delle narici; altrettanti ciuffetti ai traghi degli
orecchi. Scaglioso di carattere, ma capace anche di sorridere, un sorriso che
era una smorfia dolente. Per potere sopravvivere dovette inventarsi un
mestiere.
Da giovane si mise a fare lo spaccalegna, poi a causa della sua
menomazione, fu costretto a cambiare lavoro e intraprese il mestiere di sigghiaru: girava per le strade del
paese aggiustando le sedie rotte.
All’occorrenza dava “vento” al mantice dell’organo della Matrice e della
chiesa di S. Paolo. Quelli erano i tempi in cui il maestro Arezzo, con i suoi
virtuosismi, deliziava gli orecchi dei fedeli sanpaolesi durante le messe cantate.
Un povero cristo, Peppi,
che mi ritorna in mente per la singolarità della sua giacca. Una giacca senza
bottoni, scolorita, mangiata dal sole e carica di untume; era veramente un capo
particolare e dimostrava l’estrema indigenza del suo indossatore. C’era però un
altro dettaglio che la rendeva veramente originale e le dava il suggello di
capo esclusivo: il pronunciatissimo rigonfiamento aggettante lungo tutto il
bordo inferiore; quella era la sua dispensa. Lì, tra la fodera e la stoffa, lo
sventurato immagazzinava tutte le cibarie che percepiva come compenso per il
suo lavoro: pane, pacchi di pasta, pezzi di formaggio, pomodori secchi, olive,
ecc. Una specie di “ruota” aperta a ventaglio da fare invidia ad un pavone
maschio.
Camminava a fatica reggendosi sulle stampelle e portando in mano
un sacchetto pieno di attrezzi e di ricambi per le sedie, caviglie, zammarra,
colla, chiodi. A lungo andare gli si erano sopralzate le spalle e il collo era
quasi scomparso in mezzo ad esse, si vedeva solo la testa infossata, reclinata
un po’ sulla spalla destra, con una faccia triste, segnata, che sapeva di
sofferenze e di privazioni (e forse queste poteva evitarsele, visto che, a quel
che si dice, i carabinieri trovarono un bel malloppo di denaro ficcato dentro
un recondito buco della sua squallida stamberga).
Stava fuori tutto il giorno a rimpagliare sedie, a mettere caviglie a riparare fondi e spalliere.
Non iniziava mai un lavoro senza avere stabilito il patto prima, una regola
dalla quale non derogava mai. Naturalmente mangiava fuori, per la strada, e all’ora
di pranzo si accordava per un compenso in natura: un piatto di pasta, un pezzo
di pane e formaggio. Quando durante il giro veniva a trovarsi nel suo
quartiere, a S. Paolo, faceva una puntatina presso l’osteria di don Paulieddu Mazza: qualche polpetta,
oppure un paio di arancini, o mezza dozzina di uova sode, accompagnate da mezza
lampa di vino forte. Continuava
quindi nel suo peregrinare per le strade del paese. Al tramonto incominciava ad
avviarsi lentamente verso la sua dimora, in via Vistabella, a ridosso del
castello; un rientro tutto in salita e per giunta assai erta!
Durante la buona stagione, per risparmiarsi questa faticata, Peppi pernottava all’aperto, in piazza
Umberto, steso su uno dei tanti sedili in ferro, sotto le stelle e gli oleandri
rossi. Chi lo conosceva bene sosteneva tuttavia che il motivo del suo dormire
in piazza non era per risparmiarsi la fatica del ritorno, alla quale del resto
era abituato, quanto piuttosto per non affrontare l’impari e diuturna battaglia
contro il nutrito esercito di pulci che, oltre alle ragnatele, assediava
stabilmente la sua casa. Specie nella stagione estiva le quasi invisibili
armate si eccitavano e diventavano più baldanzose e aggressive; quindi quando poteva, in estate preferiva dormire
senza la loro compagnia, anche se, tutto sommato, si era abituato a questa
convivenza forzata e non ne faceva un dramma. La stessa cosa non era per il
vicinato, il quale ricorda ancora (con terrore) le periodiche scorribande di
quelle orde fameliche di succhiasangue in tutta la via Vistabella e dintorni
con tanto di assedio al castello.
4 commenti:
Non lo conoscevo personalmente ... ma ne ho sempre sentito parlare. Comunque la descrizione del soggetto da parte del prof. Nello, che a Peppi ha fatto una vera e propria fotografia, basta a farlo divenire un personaggio odierno.
La ringrazio di cuore per i suoi costanti apprezzamenti nei miei confronti.
Ciao.
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