Agghiu ‘n picciriddu tuttu natichi e nasiddu
Era l’ora del Vespro del lunedì di Pasqua del 31 marzo
del 1282. Nella chiesa di S. Spirito, nei pressi di Palermo, si celebrava una
festa. Un soldato francese, col pretesto di accertarsi se portava armi,
oltraggiò una giovane donna.
L’offesa suscitò lo sdegno dei presenti e ne
scoppiò un tumulto e quindi una rivolta generale che da Palermo si estese a
tutte le città dell’isola. Dove era un
francese, si abbatteva, spietata, la vendetta siciliana. Parecchi francesi,
smarriti, impauriti, cercavano, travestendosi, di sfuggire all’ira popolare. Si
racconta che quando i Siciliani s’imbattevano in un tipo sospetto, lo
obbligavano col ferro alla gola a pronunciare la parola “ciciri” che gli Angioini, per conformazione fonetica, pronunciavano
kikiri o sisiri. Se il malcapitato non era in grado di pronunciare
perfettamente tale parola era la riprova della sua origine francese e quindi
veniva sgozzato senza alcuna pietà.
E
così per colpa dei ceci gli Angioini persero… la testa e il Regno.
***
Il cece (Cicer arietinum) è
una pianta erbacea della famiglia delle Leguminose, originario delle regioni
occidentali dell’Asia e ampiamente coltivato in Europa. In Italia viene coltivato specialmente nel Meridione e
nelle isole. I semi (ceci) si mangiano freschi, ma soprattutto disseccati e
cotti, come contorno o minestra vengono
utilizzati in cucina per preparare le più svariate pietanze. Contengono
il 5% di grassi, il 15% di protidi e il 60% di glicidi, costituiscono quindi un
cibo ricco di calorie, tanto da essere considerati un tempo, assieme agli altri
legumi, l’alimento base delle
popolazioni rurali, la carne dei
contadini. Freschi si possono mangiare anche crudi, come una volta, da ragazzi,
si faceva andando a sradicare manate di piante dallo “ziu stranu” e, piluccandole ad una ad una, si gustavano i semi.
A
Palazzolo, il 2 luglio, festa della Madonna delle Grazie e stagione in cui i
baccelli sono maturi ma ancora verdi, pieni e teneri, era l’occasione buona
(diventata poi consuetudine) per assaggiare i ciciri virdi della contrada, assai ricca di cicirati, e poi farsi una bella bevuta d’acqua fresca a S.
Giovanni.
La cicirata ha bisogno di terreno fertile e
di un clima caldo e asciutto. La semina avviene a partire dalla seconda metà di
febbraio (Plinio ai suoi tempi, I sec.,
prima di seminarli consigliava di tenere a bagno per un giorno i semi)
su terreno soffice e umido. Per preservare i ceci dal male volgarmente detto tammurieddu, i contadini solevano
collocare in mezzo al campo piccoli rami d’oleandro. I ceci maturano in estate,
come tutte le varietà di legumi, e il rischio che corrono quando sono pronti
per essere estirpati, è quello di rimanere allampati.
I cultivar più tipici sono le varietà “califfo” (dal chicco gigante) e
“sultano” (cece tondo e piccolo).
Bruoru
ri ciciri e altro
Il
brodo di ceci, contrariamente a quello che si pensa e al ricorrente modo di
dire amuri e bruoru ri ciciri (o alla
variante con punto di domanda e chi ti
pari bruoru ru ciciri?) per sottolineare un sentimento all’acqua di rose,
non è privo di sostanze, anzi. L’acqua di cottura dei ceci, ricca di
gelatinosità per via delle bucce, contiene infatti un’alta percentuale di vitamina
E detta della fertilità, che l’antica saggezza siciliana da tempo immemorabile
accoppia all’amore. Difatti i ceci (ma anche gli altri legumi), utilizzati per
minestroni e zuppe, in inverno servivano oltre che per scaldare lo stomaco
anche per scaldare il cuore… e dintorni.
Per
fare cuocere presto e bene i ceci la prima cosa canonica da fare è quella di
metterli a mollo la sera precedente alla cottura assieme ad un pizzico di
carbonato, con la speranza che non siano scurriei: in questo caso nessuna potenza al mondo
potrebbe farli diventare cucìuli; lo
stesso vale per u iadduffu, il cece
nero raggrinzito, che non cuoce mai: un decotto esclusivo di questi ceci invece
risulta utile per il catarro, una delle tre malattie cominciante per C (catarru, caruta, e cacaredda) pericolose
per la vecchiaia.
La
zuppa più semplice e più diffusa è quella dei ceci cotti senza pasta e con un
gambo di sedano: nel piatto ricco di brodo si aggiunge l’olio, il pepe rosso e
di volta in volta piccole e sottili fettine di pane, fino a quando svanisce il
brodo. Per la minestra di “Ceci alla siciliana”, ai ceci cotti si aggiunge un
soffritto di cipolla , pomodoro pelato, sale, pepe nero, pepe rosso e
rosmarino. La pasta con i ceci (ceci maritati) vuole i legumi lessati assieme alla
cipolla e poi nella stessa acqua vengono bolliti spaghetti sminuzzati o ditali
o corallini. Sul piatto si condisce con olio d’oliva e pepe rosso.
Per
ritornare a Palermo, non si possono non menzionare le panelle, le frittelle di farina di ceci per uno spuntino veloce,
piatto tipico del capoluogo, una vera istituzione per i Palermitani senza
distinzione di ceto o di classe; si smerciano nelle numerosissime friggitorie e
da parte dei panellari ambulanti
attrezzati di lape e prima ancora di
apposito carrettino tirato dall’asino. Le panelle
possono essere consumate da sole ancora calde e cosparse di sale pepe e succo
di limone oppure imbottite nei panini (pane - panelle), magari accompagnate dai cazzilli, crocchette di patate il cui nome deriva proprio dalla
forma (miniaturizzata) in cui vengono modellati.
La
calia
La
“morte” dei ceci è la calia (forse
dal latino calere: abbrustolire). U caliauru è il tipico venditore di
ceci abbrustoliti e altri “passatempi” ed è quello che porta sempre con sé un
sentore di festa. Prima la calia era spinnagghiu
immancabile in occasione delle nozze e delle nascite. Circa una settimana prima
dello sposalizio, la calia, confezionata dalla caliara di mestiere (a Palazzolo era assai rinomata ‘a Scupulidda), veniva recapitata, assieme
ai cosa ruci, in bianchissime
salviette di pintu ai vicini di casa
e offerta dagli sposi agli invitati presenti al trattamentu; veniva elargita a fazzolettate, magari assieme alle
fave “caliate”, alla levatrice, ai
compari, e agli invitati presenti al vattiu.
Ancora oggi, come allora, la tostatura dei ceci è un vero e proprio
rito, specie se si vuole ottenere calia
tenera e croccante. Scartati i iadduffi, si mettono a bollire i ceci selezionati
nell’acqua salata per un certo tempo la cui durata ogni caliaru tiene segreta per sé in quanto ad essa sarebbe affidata la
tenerezza del prodotto finale. Dopo sgocciolati si coprono con una coperta e si
mettono a “stufare” per un paio d’ore in una madia, così “ritornano”, si
ammorbidiscono cioè con il loro stesso vapore. Fatto questo, i ceci sono pronti
per andare a finire dentro il caliaturi
ed essere tostati assieme alla finissima sabbia arroventata, per diventare,
infine, calia, ovvero i famosi ciciri (o kikiri) passati alla storia col Vespro siciliano.
IL CORRIERE DEGLI IBLEI, luglio 2003
1 commento:
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