La mamma
quantu un castieddu, lu figghiu un cicirieddu!
Palazzolo Acreide. Appena iniziava la
scuola i primi giorni di calia erano
inevitabilmente riservati all'incetta dei favaragghi.
La loro maturazione coincideva esattamente con la ripresa delle lezioni: prima verdi, poi gialle, poi di colore nero-bruno, le piccole bacche edule, facevano la felicità di noi ragazzi. Per diversi motivi. Primo fra tutti la trasgressione, duplice: evasione dalla scuola e arrampicamento sugli alberi. Poi per il piacere di gustare, fino a strafogarsi, un frutto spontaneo dal gusto intensamente aromatico e poi (soprattutto) perchè, a questa goduria, seguiva lo sputacchiamento dei semi che attraverso la cannuccia di canna andavano a centrare chiunque si trovasse a portata di tiro. Con questi "proiettili" impropri si ingaggiavano delle furibonde battaglie tra ragazzi, oppure si colpiva proditoriamente la persona di passaggio, o i vetri delle finestre o si mirava alle lampadine. Un vero e proprio gioco al "massacro".
La loro maturazione coincideva esattamente con la ripresa delle lezioni: prima verdi, poi gialle, poi di colore nero-bruno, le piccole bacche edule, facevano la felicità di noi ragazzi. Per diversi motivi. Primo fra tutti la trasgressione, duplice: evasione dalla scuola e arrampicamento sugli alberi. Poi per il piacere di gustare, fino a strafogarsi, un frutto spontaneo dal gusto intensamente aromatico e poi (soprattutto) perchè, a questa goduria, seguiva lo sputacchiamento dei semi che attraverso la cannuccia di canna andavano a centrare chiunque si trovasse a portata di tiro. Con questi "proiettili" impropri si ingaggiavano delle furibonde battaglie tra ragazzi, oppure si colpiva proditoriamente la persona di passaggio, o i vetri delle finestre o si mirava alle lampadine. Un vero e proprio gioco al "massacro".
Quando dunque il colore dei favaragghi dal bruno incominciava a passare al nero, noi ragazzi
entravamo in fibrillazione fino a quando si stabiliva il giorno in cui
bisognava muovere all'assalto. Un
compagno si metteva ai piedi dell'albero e l'altro (o gli altri), con i piedi
sulla spalle del primo, si arrampicava in qualche modo sull'albero dal tronco
liscio e senza appigli. A manate ci riempivamo la bocca di questo frutto e poi
ci imbottivamo le tasche e la pitturina.
Completato il carico di "munizioni" e armati di cannizzola, già da sopra l'albero si dava inizio alle prime
schermaglie dopo avere scarnito per bene i noccioli tenuti in bocca che
fungeva, in questo caso, da "polveriera".
Oggi tali "frutti" spontanei e non commerciali sono spariti dalla circolazione: ci sono, ma restano sugli alberi: i ragazzi non li conoscono e se li conoscono non li cercano, nè tantomeno li mangiano. Eppure un tempo venivano venduti nelle bancarelle dei caliari: a Palazzolo, ad esempio, il buon don Peppi Trunzu, li metteva in bella mostra sul suo bancone a ruote, all'angolo tra il Corso e la via Monastero; non solo i frutti, ma vendeva pure l'apposita cannuccia per "sparare" il nòcciolo.
Oggi tali "frutti" spontanei e non commerciali sono spariti dalla circolazione: ci sono, ma restano sugli alberi: i ragazzi non li conoscono e se li conoscono non li cercano, nè tantomeno li mangiano. Eppure un tempo venivano venduti nelle bancarelle dei caliari: a Palazzolo, ad esempio, il buon don Peppi Trunzu, li metteva in bella mostra sul suo bancone a ruote, all'angolo tra il Corso e la via Monastero; non solo i frutti, ma vendeva pure l'apposita cannuccia per "sparare" il nòcciolo.
Anche Pitrè, ci fa sapere della vendita di questi
"frutti" occasionali a proposito della festa di fine settembre dei
santi Cosimo e Damiano a Palermo, dove, sulle bancarelle degli ambulanti
erano "di rito i càccami, bagolari, divertimento matto
dei monelli coi loro trummi e càccami, lunghi
boccioli di canna attraverso i quali fanno passare i noccioletti del loto
soffiandovi dentro con forza".
Usi del legno
Il bagolaro (Celtis australis), detto anche lodogno o
spaccasassi, è un albero xerofilo rusticissimo, spontaneo, di grandi
dimensioni: raggiunge i 20 m d'altezza. Ha il fusto eretto e la corteccia di
colore grigio cenere. Caratteristico delle regioni mediterranee, nelle nostre
zone è assai comune (in territorio di Palazzolo esiste la contrada Favaragghiu con le omonime grotte). I piccoli frutti, grandi quanto un
pisello o poco più, assomigliano perfettamente agli escrementi delle capre. Un indovinello di Vann'Antò, riportato
da Uccello nella sua "Civiltà del legno in Sicilia", lo presenta in
questi termini: "La mamma quantu un
castieddu,/lu figghiu un cicirieddu!".
Il legno, tenace ed elastico e di un colore tendente al
giallo, per la sua compattezza una volta era utilizzato per la costruzione di
manufatti di campagna, ma anche per i
manici delle fruste, per le racchette, per le stanghe delle carrozze, per i
raggi delle ruote dei carri e per svariati altri usi.
Con il favaragghiu,
in campagna, venivano costruiti soprattutto gli aratri e i collari bovini. Per
evitare che il legno venisse aggredito dal tarlo si sceglieva la stagione
giusta per il taglio: il mese di gennaio o di agosto e la luna in fase
crescente. Con queste due regole si garantiva una maggiore durata
dell'utensile. Per piegare a U il legno per il collare, ridotto ad una strisca
di un cm di spessore, lo si immerge nell'acqua calda o nel siero della ricotta
e dopo avergli fatto raggiungere la curvatura desiderata, si legano i due
estremi con una corda e si lascia ad asciugare. Dopo si procede all'intaglio e
a tutto il resto.
Sempre con questo legno, ma anche con altri, il
contadino realizzava collari più piccoli per gli ovini, tridenti (trarenti, servivano per spagliare il
frumento nell'aia), forcelle, bastoni (col manico ricurvo, altrimenti di
mandorlo); i mastri d'ascia vi ricavavano anche il màncunu, la gramola per il lino e la canapa. La corteccia ha
proprietà concianti e serviva per tingere di giallo la seta.
L'uragano e i giudici ideoti
Nel nostro altipiano, saranno sicuramente in pochi a non
conoscere l'esistenza del secolare millicuccu
nel cortile della scuola elementare di Buscemi: è un albero maestoso e generoso
che ancora oggi sotto la sua ombra accoglie i grandi e i piccoli dall'inizio
della primavera fino ad autunno inoltrato.
Un bagolaro altrettanto secolare e maestoso esisteva
davanti la chiesa di San Sebastiano a Palazzolo. P. Giacinto Farina ce ne dà
notizia nella sua "Selva" a proposito della tromba d'aria che il 24
ottobre del 1872 si abbattè nella nostra città: "...Fra le lagrime e singhiozzi ci siamo portati alla chiesa di S.
Sebastiano e trovammo tutto il piano ingombrato di pietre: la terza parte della
facciata a terra, i muri dell'orto del Monastero a terra, case a terra, il
veterano albero di faggio (Uccello nel suo saggio sulla "Cronaca e
Storia dell'Uraganu del 1872 a
Palazzolo Acreide" fa notare l'errore grossolano del frate cappuccino il
quale in italiano traduce la parola favaragghiu
con faggio. La tesi di Uccello e quindi la certezza che di favaragghiu si dovesse trattare fu suffragata dalle testimonianze
orali che a suo tempo (nel 1963) l'etnologo ebbe modo di registrare) a terra dopo tanti secoli! La "Storia dell'Uragano", in versi dialettali, del suddetto P.
Giacinto Farina, infatti recita così:
"...Già tremanu li Chiesi,/ Si spaccanu tra nenti,/E mustra Sammastianu/Li
granni so spaventi/ ...Cadiu lu favaraggiu/Ed ammazzau alcuni/Dall'autu na
campana/Ristau a pinnuluni/...".
In epoca
feudale, in Sicilia, le sentenze dei giudici ideoti (così detti perchè giudicavano per terra cioè a la dritta)
venivano pronunciate proprio sotto la chioma di quest'albero. Ce lo fa sapere
A. Italia nella sua "La Sicilia feudale": "Come i giudici di Roma che davano sentenze de robore, cioè sotto
la quercia, essi sentenziavano sotto un albero. E come nell'alta Italia
l'albero preferito era il tiglio e in Francia l'olmo, in Sicilia era il
favaraggio, (celtis australis): vi si amministrava giustizia a la dritta e non
per viam scripturarum".
Il favaragghiu, dunque, utile e tenuto in
considerazione in altri tempi, oggi, cambiati i costumi, tramontata la civiltà
contadina, cambiata la tecnica, le forme e la materia è un albero
semisconosciuto, ma soprattutto non ha più quel fascino antico che richiamava a
frotte i ragazzi, pronti a sacrificare la scuola per gustare i suoi minuti
frutticini.
IL CORRIERE DEGLI IBLEI, settembre 2001
1 commento:
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