Il
18 dicembre dello scorso anno, dopo 30 anni di chiusura per lavori di restauro
e di consolidamento, riapriva finalmente la chiesa madre di Palazzolo. Un
evento storico per i palazzolesi.
La chiesa Madre dedicata a san Nicolò
di Mira fu edificata nel 1215. Il terremoto del 1693 lesionò l’intero edificio
distruggendo il soffitto di legno dipinto, la facciata, il campanile. Ancora oggi, tra i più anziani, si tramanda oralmente il
ricordo di quel terribile sisma del 1693 e della Messa seguita dal Te Deum che
ogni anno l’11 gennaio alle ore 15 si celebrava alla Matrice (quest'anno è
ripresa la secolare tradizione). La cerimonia era poi accompagnata dai seguenti
versi popolari recitati dagli astanti: “…All’11
ri innaru a vintin’ura, cu sutta petri e
cu sutta cantuna…”. La chiesa in
seguito fu riedificata secondo i canoni stilistici del tempo.
Nella
notte del 13 febbraio 1833 alle ore due e tre quarti, crollò la facciata
principale. L'attuale prospetto è quello ricostruito dopo il suddetto crollo.
La chiesa era
ricca di dipinti e di affreschi anche di notevole valore artistico. Sotto la
volta dell'abside erano raffigurati i quattro Evangelisti: Giovanni, Matteo,
Luca, Marco e questi invece non solo erano di scarso valore artistico, ma erano
così brutti e sproporzionati da essere chiamati i varcacanni. Nell'immaginario popolare sono una sorta di spiriti
deformi e vagabondi con la "cuppulidda
russa".
Quando nel 1855 arrivò
il colera, "lu quattru di giugnettu
a ventinura / cadiu la prima vittima ntra nenti / O chi spaventi ca ci foru
allura/ In Palazzolu, ' ntra tutti ddi genti!...", tra i tanti provvedimenti,
per scongiurare il dilagare incontrollato dell'epidemia si disinfettarono i
locali pubblici e quindi anche le chiese, inalbando le pareti con la calce.
Pare che sia stato in quella occasione che i quattro Evangelisti varcacanni, siano stati completamente imbiancati
fino a scomparire arcanamente. Di essi rimase solo la tradizione registrata puntualmente
anche da padre Giacinto Farina nella sua Selva: "Vi è l'uso di far appaurire i ragazzi cogli spiriti infernali che
dicono varcacanni...". Le madri approfittavano di questa credenza per
tenere a bada i figli riottosi, specialmente quelli che non volevano digiunare
nei venerdì quaresimali : "I
Varcacanni escono in quelle notti onde
prendersi gli indigiuni, e così anche a me dicea mia madre" continua a
scrivere padre Giacinto. Ancora oggi
da noi non è è raro sentire frasi come: "quello se ne va a varcacanniari, oppure: dove sei stato a varcacanniari? e ancora: "eh varcacanni, eh magabunnu (vagabondo)". In lingua madre l'esatta voce verbale
corrispondente al dialettale "varcacanniari"
è bighellonare.
Il colera.
A causa delle
precarie condizioni igieniche nel 1800 in Europa si ebbero ben otto epidemie
coleriche. In Italia se ne registrarono sei. Le più gravi furono nel 1837, nel
1855 e nel 1867, soprattutto nel Meridione, per via della degradazione delle
condizioni igieniche e per le carenze delle strutture sanitarie.
Il colera è una
infezione intestinale contagiosa caratterizzata da vomito, diarrea, (scoppa di bottu vòmitu e diarria, "scoppia
all'improvviso vomito e diarrea" scriveva un poeta popolare), crampi
muscolari, collasso terminale.
In provincia di
Noto nel 1837 (Noto a quel tempo era capoluogo del Vallo) i morti superarono le
settemila unità. I comuni maggiormente colpiti furono: Rosolini, Pachino, Avola
e Siracusa. Malgrado il cordone sanitario istituito nei comuni il “mortifero
vomito orientale” si diffondeva sempre più, la gente aveva paura e bastava un
piccolo sospetto per cadere vittima della ferocia popolare. Il popolo credeva
che il colera fosse causato da un veleno sparso dagli sbirri borbonici nelle
acque potabili e nell’aria. A Canicattini, dopo il primo caso (88 vittime in
tutto), si diffuse il seguente tormentone: “Iarditi
pagghia e mittiti jagghia! Il Governo ci avvelena!”.
Padre G. Farina
nel 1855 cantava: "Senti a lu trentasetti
chi tirau / Quali castigu ni mannau stu Diu / Quannu cu lu piccatu si sdignau /
Pri pocu la Sicilia un si nni jiu / Ca l'orrennu culera nni mannau / E già Palermu parsi ca spirìu / Catania e Sarausa ncuminzau / Fici pocu maceddu e poi finìu. / Lassatimi,
lassatimi ora cantari \ Li vai di Palazzuolu e li suspiri \ Di lu cinquanta
cinque i chianti amari...".
A cavallo tra il
1854 e il 1855 arrivò il “grande colera”. I comuni della provincia di Noto
“travagliati dal flagello dominante sono a loro volta in difficoltà per le
spese per la pubblica salute”. In merito a Palazzolo scrive Nicolò Zocco: “Ai
mali arrecati dalle violente commozioni popolari… si aggiunsero i flagelli del
Cielo… Il doloroso avvenimento del 1855 ci sta ancora scolpito nel cuore…
Palazzolo colpito dal colera-morbus… Si moriva alla rinfusa in ogni luogo, e la
campagna era sparsa da improvvisate sepolture…”.
"Rusina"
rimasta orfana e sola a causa del colera ha paura: "Suddu ora veni lu lupu / Suddu veni lu babbau / O lu bruttu varcacannu / Ca a Turiddu si pigghiau / Ed unni m'ammucciu / O Mamma mia cara / si veni e mi pigghia \ La vecchia
cucchiara!".
Una terza
epidemia di colera si registra nel 1867.
A Palazzolo per ognuno dei quattro quartieri fu ingaggiato un medico, un
flebotomo, un cappellano e dei becchini a seconda delle necessità; il convento
dei Minori Osservanti fu adibito a lazzaretto; le persone sospette e i gendarmi
furono sottoposti a fumigazioni chimiche; dai posti di guardia si transitava
solo se muniti di lasciapassare. Nel nostro paese nei primi di ottobre morivano
dalle 15 alle 20 persone al giorno e in un giorno pare che si siano contate
addirittura 92 vittime. Finalmente il 10 novembre, cessata l'epidemia in quasi
tutti i comuni si tolse il cordone sanitario.
Iblon, giornale online, 20
dicembre 2012
3 commenti:
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