«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

I Santi puniti. Dalle suppliche, agli insulti, alle violenze “fisiche”

“Signuruzzu, ciuviti ciuviti / Cà li lavura su morti di siti; / Ni mannati una bbona / Senza lampi e senza trona”. 

La penuria di pioggia, quando si protrae a dismisura, provoca gravi danni alle campagne e ne compromette i raccolti. La piaga della siccità ha sempre preoccupato e preoccupa non solo i contadini ma la popolazione tutta, visto il legame viscerale tra l’uomo e la madre terra:  

«E’ in uso nei nostri paesi, che, quando i seminati ingialliscono e la pioggia si ostina a non venire, il popolo porta la statua di qualche santo a benedire le campagne. Quella volta il popolo canicattinese urlando e piangendo, strappava manipoli del grano arso, e lo metteva sotto gli occhi del SS. Ecce Homo, gridandogli: “Nun miriti?!… È addumatu!… mannatini l’acqua!”» [1].Quella volta i canicattinesi avevano condotto il loro Santissimu Cristu in cima alla collina; da allora quell’altura prese il nome di “’A Vera Cruci” per la croce in ferro piantata su un masso in ricordo dell’evento. Andò bene “quella volta” all’Ecce Homo di Canicattini. La stessa cosa non si può dire, al contrario, per l’Ecce Homo di Monterosso Almo:

"…Un migliaio di villani con corona di spine, e due migliaia di villane, urlanti e a piedi scalzi, seguivano un altro villano, che portava un Ecce-Homo di carta pesta... Ed ove portano il Cinque Piaghe?... Dove han da portarlo?... Lo portano al beveratoio; e starà lì in mezzo all'acqua finchè non venga la grazia di Dio... (la pioggia)” [2].

Non sempre, dunque, cristi e santi uscivano indenni da punizioni    e stracanagghi da parte dei devoti, specie quando erano sordi alle suppliche organizzate spontaneamente e senza la partecipazione del clero. E allora, come ultima ratio, i più esagitati si sentivano autorizzati a dare una sonora lezione al loro Santo di turno, rappresentato materialmente dal simulacro.

Per contro c’erano le suppliche ufficiali, caratterizzate da un assetto processionale ad hoc e istituzionalizzate dalla chiesa a partire dai secoli V e VI: erano le Rogazioni, preghiere penitenziali, canti e litanie indirizzate ai Santi sotto forma di suppliche contro la siccità e tutte le calamità naturali a cui era soggetta la campagna.

Rogazioni e Litanie

La chiesa, in quei secoli, con molta difficoltà era riuscita a convertire le feste pagane di lustrazione dei campi con i riti cristiani. Quel culto primigenio dedicato agli spiriti della natura e ampiamente praticato nell’antica Roma e non solo, con l’avvento della cristianità venne trasferito ai Santi; successivamente, grazie anche all’opera dei monaci, molti dei quali contadini essi stessi, si diffuse in larga misura in tutta Europa [3].

Di queste processioni propiziatorie cristiane, le più popolari erano due: le Rogazioni o Litanie maggiori, celebrate il 25 aprile e le Rogazioni o Litanie minori (per distinguerle dalle prime, più antiche e più solenni) effettuate durante i tre giorni precedenti l’Ascensione.

Le Litanie maggiori andavano a cristianizzare la festa pagana dei Robigalia; questo rito prevedeva il sacrificio di un cane e di un montone a Robigus, divinità malvagia che personificava la ruggine del grano [4]. Le Litanie minori invece assorbivano i rituali precristiani chiamati Ambarvalia: questa antica festa romana richiedeva il sacrificio di un porco, di una pecora e di un toro dopo averli condotti tre volte in processione attorno alla città e ai campi arati, in segno di protezione e per propiziarne la fertilità [5].   

Le Litanie, tuttavia, non si limitavano solamente a queste due. Al primo sentore di malannata i vescovi come antidoto prescrivevano motu proprio Litanie per i Santi più amati nella propria diocesi da recitare in chiesa o, meglio, in processioni organizzate dal clero.

Un’idea di come si svolgessero queste processioni propiziatorie ufficiali, ce la possiamo fare segnalando, ad esempio, alcune delle Litanie che erano in uso a Palazzolo:

La prima litania è quella di S. Gregorio, che l’Università di Palazzolo fa per S. Gregorio in memoria d’una grazia da lui ricevuta. Si fa a 12 Marzo col concorso del Clero Sec. e Reg. Giurati ec. Essa parte dalla Madre Chiesa, e terminava nella Chiesa dell’Assunta de’ PP. Osservanti sul Monte Acre prima del terremoto del 1693. Ora termina nella Chiesa trasferita a lato di Palazzolo” [6].

La processione delle Litanie di S. Gregorio fu istituita nel 1651. La grazia ricevuta fu una inaspettata provvista di frumento per il popolo in difficoltà. Il percorso di questa Litania, fra l’altro, si svolgeva negli anni in cui era in atto lo sviluppo urbano di Palazzolo che, dall’area attorno al castello, incominciava ad espandersi verso il sito più elevato a ridosso della vetusta Acre: una sorta di collegamento ideale tra la parte bassa della città e quella alta che tornava a rinascere [7].  

Le Litanie maggiori, sempre a Palazzolo, previste per il 25 aprile, più di una volta furono anticipate e prolungate oltre la data ufficiale: “1781. Litanie. Da quest’anno cominciò per ordine di Mons. Alagona la devozione di recitarsi dal 1° Aprile a tutto Giugno la Litania di tutti i Santi pel raccolto, e per allontanare i gastighi di Dio…” [8]. Ancora: “1846. In quest'anno fu di siccità. Abbiamo pregato e predicato 8 giorni e dopo venne la desiderata acqua a 17 Aprile” [9]. Di più: 1858: fu anno di gran siccità. I seminati erano un teatro di dolore. Si uscirono i Santi, si predicò, si pregò, ma indarno, non piove. Io che dovette portarmi in Noto osservai cogli occhi miei intere valli di secchi seminati. Era una gran pena il vederli!...”[10].

Sia le Litanie maggiori sia quelle minori rispettavano uno schema ben collaudato: durante la processione penitenziale si cantavano antifone, orazioni stagionali, e soprattutto si snocciolavano le accorate suppliche ai Santi seguite dalla benedizione dei campi.

Ecco com’era strutturato nella nostra città il triduo delle Litanie minori: 

“La processione esce, cantando il Benedictus, dalla Matrice: e giunta nella Piazza di sotto un Sacerdote colla stola a traverso, dato l’incenso, canta fra due lumi l’Evangelo della prima Domenica d’Avvento. Indi si porta in S. Paolo, cantando per via il Magnificat detto: o Sacrum Convivium. Poi l’Antifona et Orazione di S. Paolo.

Dopo cantando: Laudate Pueri Dominum, si porta alla Croce dello Spirito Santo, si canta l’Evangelo dell’8 Agosto. SS. Ciriaci ec. Poi si fa la solita benedizione dei Campi, come nelle Litanie.

Poi si porta cantando il Te Deum Laudamus nella piazzetta della gradinata del Piano Matrice, e si canta... Finalmente si porta all’ingresso della Matrice cantando ancor il Te Deum e l’Evangelo di S. Giovanni: In principio erat Verbum. Poi siegue il Te Deum e finisce all’Altare” [11].

In prossimità della mietitura, dall’1 al 13 giugno, era prevista la triricina a Sant’Antuninu, a volte prolungata per tutto il mese, non solo per favorire l’allegagione dei seminati ma soprattutto per ottenere una spiga piena e ben matura [12]. E anche a Palazzolo, a partire dal 1781, “cominciò per ordine di M. Alagona la devozione di recitarsi dal 1° ante a tutto Giugno la litania di tutti i santi pel raccolto e per allontanare i gastighi di Dio” [13].

I Santi puniti

In caso di perdurante siccità il popolo di solito si rivolgeva al Signore (e ai Santi) con la seguente supplica: “Signuruzzu ciuviti ciuviti/Cà li lavura su morti di siti/Ni mannati una bbona/senza lampi e senza trona/E si vui nun la mannati/Siemu poviri e scunsulati” [14].

Se il Santo invocato e pregato non la mandava (la pioggia, o ne mandava troppa), il popolo, non solo rimaneva “povero e sconsolato”, ma si arrabbiava di brutto e dava in escandescenze con azioni che superavano di gran lunga il limite della blasfemia.

Facciamo riferimento, ora, ad alcune manifestazioni, più o meno spontanee, che, nei tempi andati, si svolgevano in vari centri dell’isola. Storica la siccità che, nel 1893, afflisse Palermo e la Sicilia tutta per ben sei mesi. E allora i palermitani:

“…scaraventarono S. Giuseppe in un orto perché vedesse con i suoi occhi come stavano le cose, e giurarono di lasciarlo lì, sotto il sole, fino a quando non fosse caduta la pioggia. Altri santi furono girati faccia al muro, come bambini cattivi. Altri ancora, spogliati dei loro ricchi paramenti, furono esiliati lontano dalla loro parrocchia, minacciati, insultati pesantemente, tuffati negli abbeveratoi. A Caltanissetta all’Arcangelo Gabriele vennero strappate dalle spalle le ali d’oro e sostituite con ali di cartone; gli fu tolto il mantello rosso, e venne avvolto invece con un cencio.    A Licata, S. Angelo, il santo patrono, se la passò anche peggio perché fu lasciato senza vesti del tutto; ingiuriato, incatenato, e minacciato di finire affogato o appeso a una forca…” [15].

A Nicosia, gli abitanti, scalzi e a capo scoperto, per convincere i Santi a far piovere portavano dei crocifissi per tutti i rioni della città, flagellandosi con fruste di ferro. A Rosolini si prendeva la statua di S. Giuseppe (di nuovo lui!) e si imprigionava in una chiesa e lì rimaneva fino a quando non avesse fatto piovere [16].

A Vizzini invece:

“… portarono San Pasquale in processione a levante e a ponente, e l’affacciarono sul poggio a benedir la campagna, in una giornata afosa di maggio, tutta nuvoli: una di quelle giornate in cui i contadini si strappano i capelli dinanzi ai campi «bruciati» e le spighe chinano il capo come se morissero. San Pasquale maledetto! – gridava Nino sputando in aria, e correndo come un pazzo pel seminato. - M’avete rovinato San Pasquale! ...” [17].

Anche tra i Santi, esiste, fra l’altro, una scala gerarchica espressa dal popolo:

San Giuseppe, padre universale, vale più del Padre Eterno, di Cristo e della Madonna presi insieme: ma poi, immensamente superiore a tutti i singoli Santi del Paradiso è, per un paese, il Santo che di esso paese è Patrono… non ha superiori a sé, che tutto può e su tutto e su tutti impera assoluto” [18].

D’altra parte: “Il popolo li scegliea a protettori perché li difendesse, non perché pregasse pei loro nemici, e più li credea capaci di menar le mani, più la devozione diventava fanatica…” [19]. Di conseguenza, quando non si rimaneva soddisfatti dell’operato del Patrono lo si detronizzava e se ne eleggeva un altro per voto plebiscitario.

Così stando le cose, il Santo Patrono come tale, aveva l’”obbligo” di ascoltare le suppliche di qualsiasi natura dei devoti e di esaudirle al più presto, diversamente erano minacce, ingiurie, percosse e scattafìchiti di tutti i tipi come abbiamo già visto.

A casa, poi, ognuno, nei confronti del suo Santo Patrono   adottava le punizioni che riteneva più adeguate al torto subito: o appendeva l’immagine del Santo Patrono a testa in giù; oppure la spostava dal posto d’onore per relegarla in una zona fuori mano o addirittura nel tettu muortu; oppure la chiudeva a chiave nel cassettone e via di questo passo.

E in aggiunta, se possibile, rosari di bestemmie.

Una per tutte, la più terribile, la più empia, è la «bestemmia muta» (santiuni mutu):

“…si faceva paonazzo in viso, stringeva i pugni, digrignava i denti… e in capo ad un istante si cavava il berretto e portandolo sotto alla bocca semiaperto, vi mandava dentro ad uno ad uno, chiamandoli per nome posatamente ma con voce distinta, san Benedetto e gli altri suoi Patroni. E compiuto l’appello, stringeva forte l’imboccatura del berretto, e dicendo le più sconce parole all’indirizzo degli imprigionati Santi, se lo poneva sotto i piedi e lo pestava e sputava. Finito l’empio e grottesco sfogo mormorava…: -Vedremo se ora metteranno giudizio! -” [20].

Dalla terra dei Santoni, maggio 2022 (inedito)

 

NOTE

[1] S. Aiello, Canicattini Bagni Monografia, (1907), Canicattini B., Associazione Amici de “La voce di Canicattini”, 2007, pp. 10,11.

[2] S. A. Guastella, Padre Leonardo. Sfumature plebee, (1886), Modica, Associazione culturale S. A. Guastella, 1979, p.84.

[3] Cfr. A. Saitta, Antologia di documenti e di critica storica., Il Medioevo. Bari, Laterza,1985, pp. 49, 50.

[4] Cfr. A. Cattabiani, Calendario. Le feste, i miti le leggende e i riti dell’anno, Milano, Rusconi, 1994, p.230.

[5] Cfr. A. Cattabiani, Calendario… op.cit. p. 231.

[6] P. G. Farina, La Selva, 1869, p.266

[7] Cfr. Oberti-Trigilia, Palazzolo A., Architettura e città dopo il terremoto del 1693, Siracusa, Lombardi-Ediprinteditrice,1989 p. 23,24.   

[8] P. G. Farina, La Selva, op. cit. p.695.

[9] P. G. Farina, La Selva, op. cit. p. 712.

[10] P. G. Farina, La Selva, op. cit. p. 740.                                                          

[11] P. G. Farina, La Selva, op. cit. p. 266, 267.

[12] G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo sic. vol. III., op. cit., pp. 152,153.                                                                                          

[13] P. G. Farina, La Selva, op. cit. p. 695.

[14] G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo sic., vol. III., Op. cit., p.141.

[15] J. Frazer, Il ramo d’oro, (1922) Roma, Newton, 1992, pp. 100, 101.  

[16] Cfr. G. Pitrè, Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo sic., vol. III., Op. cit., p.143.

[17] G. Verga, Tutte le novelle, (1942), vol. primo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1989, p. 205.

[18] S. Salomone Marino, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, (1897), Sala Bolognese, Arnaldo Forni editore, 1984, pp.226,227.

[19] S. Amabile Guastella, Canti popolari del circondario di Modica, Modica, Tip. Lutri e Segagno figli, 1876, p. LXXXV.

[20] S. Salomone Marino, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, op. cit., p. 232 L’autore racconta “…una scena, alla quale più volte ebbi ad assistere, atterrito, nella mia fanciullezza…”. Il bestemmiatore è un tale di nome Vincenzo Lojacono.

 


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