Il drammatico racconto di un testimone del tempo: il prof. Erminio
Pricone
È il drammatico racconto di un cittadino palazzolese testimone del tempo: il prof. Erminio Pricone. Il dattiloscritto mi fu affidato con la più ampia facoltà di disporne come e quando avrei voluto. Nel più assoluto rispetto della memoria di chi più non è, ho ritenuto opportuno pubblicarlo così come, allora (il 6 giugno 2000), mi fu consegnato.
Sul questo stesso Blog si
potrà leggere un mio articolo già pubblicato su "Il Corriere degli
Iblei" dal titolo "Luglio 1943: cinquant'anni fa una lapide in
memoria". La lapide, come è noto, fu apposta all'inizio del Corso Vittorio
Emanuele per onorare le vittime innocenti di questa gravissima e
indimenticabile tragedia compiutasi a Palazzolo nello spazio di 24 ore.
Nello
Blancato
9,10 LUGLIO 1943: BOMBE SULLA CITTÀ.
Era un caldo pomeriggio di un luglio caldo e afoso. In quel
periodo i negozianti, in attesa di clienti, solevano sedere all'ombra, davanti
i rispettivi negozi.
Dove ha sede l'attuale Banco di Sicilia, c'era un vecchio edificio
con vari negozi sottostanti. In uno di questi si trovava il negozio di radio e
dischi di Paolino Casamichele. Stavamo seduti davanti la porta, cercando in po'
di refrigerio all'ombra del palazzo: io, Paolo Casamichele e il mio padrino
Sebastiano Carta. I discorsi erano sempre gli stessi: la guerra che andava male
per l'Italia, i continui bombardamenti aerei, i generi alimentari che si faceva
fatica a trovare.
Erano circa le ore diciotto e quindici. Si sentiva in lontananza
il già conosciuto rombo degli aerei nemici che, quotidianamente, sorvolavano
Palazzolo, per scaricare il loro micidiale carico di bombe su Catania, Augusta
o su altre basi militari. Ormai tutti avevamo fatto l'abitudine a questi passaggi,
considerandoci, chissà poi perchè, immuni da qualsiasi pericolo. Eppure
Palazzolo era una base militare di una certa importanza.
Infatti c'erano di stanza, in pieno centro del paese, l'intero 75°
Fanteria, con relativi comandi di reggimento e di divisione, un autoparco e uno
squadrone di carri armati M3 parcheggiati dentro la villa comunale, un reparto
di telecomunicazioni germanico, reparti logistici e di sanità, con rispettivo
ospedale, posto dentro il convento dei Padri Cappuccini. Pertanto v'erano
motivi sufficienti per stare in allarme.
Invece, il paese sembrava sempre in festa, per la presenza
costante dei militari, la cui fanfara, tutte le domeniche, suonava in piazza.
Il rombo degli aerei si avvicinava sempre più e infine sbucarono
sopra i tetti provenienti da sud, probabilmente dall'Africa. Volavano a bassa
quota ed io iniziai il conteggio: due, quattro, dieci, sedici, trentadue...
Erano appena spariti dallo spazio di cielo sopra di noi, quando... un tremendo
boato si scaricò sulle nostre teste. Saltammo tutti dentro il negozio, anche il
ragioniere Cassarino che in quel momento passava di lì, e stringendoci sui
muri, spaventatissimi, pregavamo in silenzio. Il bombardamento continuava
implacabile.
Intanto la polvere sollevata dalle abitazioni distrutte, oscurò il
sole; il Corso, immediatamente, si riempì di detriti, volavano grosse pietre e
pezzi di travi. La morte era scesa sullo sventurato paese.
Alla prima, seguì la seconda ondata di bombardieri che,
indisturbati, scaricarono il loro micidiale carico mortale. Gli
Americani usavano bombardare senza mirare il bersaglio, al contrario degli
Inglesi, per cui i loro bombardamenti a tappeto centravano indifferentemente
obiettivi civili e militari.
Così al terzo anno di guerra anche Palazzolo ebbe il suo battesimo
di distruzione e di morte, preludio all'imminente invasione della Sicilia.
DOPO IL PRIMO BOMBARDAMENTO
Allontanatisi i bombardieri, e terminato il terrorizzante rumore
delle deflagrazioni, un silenzio sepolcrale scese sulla città. Mi affacciai
preoccupatissimo alla porta del negozio e, ancora, non volevo credere a quanto
era appena successo.
Il mio pensiero andò alla mia famiglia. Cosa sarà successo a miei?
Corsi a chiudere il mio negozio, senza riuscirvi, perchè i detriti
ne ostacolavano la chiusura. Stavo per andare via, allorchè una voce lontana mi
chiamò. All'angolo di via Maddalena, vidi il mio carissimo amico Meno
Caligiore, con la faccia imbrattata di sangue, accompagnato da un militare, che
se ne andò appena mi avvicinai.
Non sapevo che fare, ero in ansia per la mia famiglia, ma non
potevo abbandonare il mio amico ferito. Ci avviammo verso l'infermeria che si
trovava nelle vicinanze. Qui vidi arrivare i primi feriti e qualche cadavere.
Ero sempre più spaventato. Cercavo d'interessare qualche ufficiale
medico, ma la confusione cresceva e nessuno interveniva.
Il tenente Buonavolontà, che poi sposò una signorina del luogo,
della famiglia Messina, andava avanti e indietro sbigottito e senza meta.
Non potendo cavare un ragno dal buco, lavai le ferite con l'acqua
di una botte e mi accorsi che, per fortuna, il sangue proveniva da numerose
escoriazioni del cuoio capelluto. Visto che non c'era nulla di grave, andammo
via con l'intento di accompagnarlo a casa sua.
Fu allora che incominciai a rendermi parzialmente conto dei danni
arrecati dalle bombe, vedendo le prime abitazioni rase al suolo. La prima fu
quella di don Ciccio Infantino CUCO, sulle cui macerie dovemmo passare.
Verso la piazza s. Michele incontrammo Capriotti Giosefatte, a cui
affidai il mio amico, essendo quello un suo parente e un vicino di casa.
Fui felice di poter, infine, volare verso casa. Mia madre e mia
sorella mi attendevano; per fortuna tutto era in ordine.
Raccattammo qualcosa e ci avviammo verso la zona archeologica,
dove trovavasi mio padre, che tutti i pomeriggi si recava nella nostra vigna.
Il tragitto fu faticosissimo, essendo la mulattiera totalmente
impraticabile, mentre le gambe molle per la paura, si rifiutavano di camminare.
Sempre più ci s'incontrava con altra gente che fuggiva in campagna
e qualche ferito. Ricordo, in particolare, il mio amico Turuzzo Magro (Varrachedda) con la faccia annerita come
un africano e la maggiore delle sorelle Zampetti, che aveva le braccia e le
mani bendate, perchè s'era ferita calandosi dal balcone centrale del Municipio,
lungo i fili spezzati e scoperti della luce, assieme a parecchie altre
colleghe.
Mio padre fu felice del nostro arrivo e ci raccontò che,
mentre guardava il bombardamento, il
paese si coprì di un polverone che saliva al cielo e vide letteralmente esplodere
il villino del parroco Calleri (ora del dott. Luigi Lantieri) al Santicello,
uccidendo un'intera famiglia di Siracusani che, credendo di salvarsi dalla
guerra, si erano trasferiti a Palazzolo credendolo più sicuro.
Pensavamo di essere soli. Invece a poco a poco incominciarono ad
arrivare parenti ed amici, per cui verso sera ci ritrovammo una sessantina di
persone circa. Naturalmente non c'era posto per tutti, per cui ci accomodammo
come meglio si poteva in quella tragica circostanza.
Purtroppo i miei zii Corallo-Mazzeo erano venuti su senza aver
potuto ritrovare il figliolo più piccolo di tre anni, sparito durante il
bombardamento.
Il suo cadaverino fu ritrovato sotto le macerie, quando queste
furono rimosse, mentre il suo compagnetto di giochi rimase indenne, Papa Felice.
Il caldo torrido del giorno appena trascorso, improvvisamente,
durate la notte, si trasformò in un freddo quasi polare, che mise a dura prova
la resistenza di tutti quelli che eravamo sul terrazzo a contemplare increduli
e terrorizzati l'orizzonte verso Siracusa.
Eravamo privi di qualsiasi notizia sugli avvenimenti che stavano
per travolgerci. Il cielo di Siracusa e di tutta la costa sud-orientale era in
fiamme. Un bagliore rossastro e un lampeggiamento ininterrotto si vedeva
all'orizzonte e tutto ciò durò fino all'alba.
In mattinata ci trasferimmo dentro la Necropoli dell'antica Acre e
la massa dei fuggiaschi che, intanto, era enormemente aumentata, prese posto
dentro gli antichi loculi funerari. Ogni famiglia vi si sistemò come in un
proprio appartamento. Mischiati tra i civili, c'erano non pochi militari e,
specialmente, un reparto ciclista.
In mattinata nella nostra stessa grotta, si riunì lo stato
maggiore del 75° Fanteria, di cui ricordo il generale Greco e il colonnello
Morettini che, dispiegando una carta topografica della zona, discutevano sul
modo di opporre qualche resistenza.
Infatti, poco dopo, il reparto si allontanò per ritornare dopo
alcune ore completamente disfatto. In zona Bibbinello s'era scontrato con
l'avanguardia dell'8° Armata britannica e il reparto ciclista si squagliò senza
opporre resistenza.
Io avevo tra i militari alcuni conoscenti, con i quali ci
s'incontrava al caffè e si giocava al biliardo: i sottufficiali Gentile e
Pampalloni che mi confermarono l'avvenuto sbarco, durante la notte, su tutta la
costa da Augusta a Gela, delle Armate Britanniche ed Americane.
L'8° Armata inglese, sbarcata a Pachino, si diresse verso Noto e Palazzolo, dove entrò dopo un lungo cannoneggiamento nel pomeriggio del 12 luglio 1943.
Intanto la mattina del 10 luglio, un secondo e più massiccio
bombardamento aereo di velivoli americani, scaricò, ancora, tonnellate di bombe
sul martoriato paese, uccidendo altri civili e numerosi militari. Fra questi
notai numerosi reduci dal fronte russo, riconoscibili dalla decorazione tedesca
della Croce di Ferro, che avevano sul risvolto della giubba.
Non si è mai saputo il numero esatto delle vittime dei due
bombardamenti: si disse che ci furono700 morti, fra cui 130 civili.
L'8° Armata britannica fu bloccata dai reparti dell'Asse nella
piana di Catania, dove subì notevolissime perdite durante 23 giorni di aspra
lotta.
Ricordo l'incessante passaggio di truppe che dalla zona dello
sbarco si dirigevano verso il fronte e il doloroso rifluire verso il mare di
colonne di ambulanze, che trasportavano i feriti verso le navi ospedali, che
ripartivano verso la Tunisia.
Noi civili eravamo, ancora, privi di notizie certe, non essendoci
la corrente elettrica per ascoltare la radio.
Non posso dimenticare il mio sgomento, quando, per la prima
volta,vidi transitare dal Corso i mastodontici carri armati inglesi, che con i
loro cannoni puntati, sfioravano i balconi delle case, mentre i carristi fuori
dalle torrette , facevano il classico segnale a "V" di vittoria di
Churchill e, pertanto, non potevo fare a meno di confrontarli con i
lillipuziani M3 italiani, che avevamo soprannominato "scatolette di
sardine"
Erminio
Pricone
Pubblicato su Iblon, giornale online luglio 2013
5 commenti:
Io, Paolo D'Angelo, avevo nove anni e questo racconto, l'ho vissuto in Piazza Pretura, dove adesso c'è la piazzola spartitraffico e lì contavo gli aerei, come i giorni precedenti quando gli aerei, come nel racconto di Pricone, passavano diretti altrove a bombardare. Vicino a me c'era l'accalappiacani col cappio a spalla e berretto con per fregio AC. Secondo me si chiamava Vicienzu, il quale mi illustrava il tipo di aerei: caccia, bombardieri. Iniziato il bombardamento lui si mise a correre imboccando Via Nazionale. Io terrorizzato gli correvo a contatto del gomito sx e senza accorgermi passai liscio davanti al portone di casa mia civ. 3. L'accalappiacani svoltò a dx per Via Margherita diretto in diagonale a sx verso Via Savoia dove abitava. Io sempre al suo fianco. Cadde la casa di dex di Digrano (Trentanove) e ci rimase sotto, mentre io entrai in casa di Bonaiuto (benzina o cummentu) senza in graffio. Finito il bombardamento andai a Vardia e mi riunii a mia madre e mia sorella davanti a Mirinu, dove intanto giunse mio padre, proveniente dai cappuccini dove era pompiere. Tutti insieme ci avviammo verso la Vanedda Larga, oggi Via IV Novembre.
quando e' venuto il borbamento io have 10 anni e, mi ricordo quando anno borbandato Palazzolo era di pomeriggio io ero fuore a giocare la nonna era seduta fuore al fresco ale ore 16 dope siame andat a passare la notte in ona grotta il giorno dopo siamo andati in campagna vicinoil teatro grecoscusa se non scrivo bene io abito in America e, non mi ricordo tanto la lingua italian
PINA PIRRUCCIO
Mia nonna mi ha sempre raccontato il giorno del bombardamento. Mi diceva sempre che aveva 8 anni e solo oggi che scopro la data, faccio il conto e corrisponde esattamente. Sua mamma le aveva chiesto di andare a comprare dei pomodori, e nel tragitto del ritorno iniziato o i bombardamenti. Per cui lei, Marianna Carbone, una bimba di soli 8 anni, ha cercato riparo e visto il suo paese andare in PZ. Quando il frastuono fini', uscì dal piccolo rifugio che aveva trovato e cercò di ritrovare la strada di casa, ma era molto difficile perché tanti punti di riferimento erano spariti. Così iniziò a piangere, pensando di essere sola. La madre, Vincenza Ficara, la cercò tra le nuove strade di detriti e sollevando sassi di tanto in tanto, temendo il peggio. Quando la vide sana e salva, l'abbraccio di gioia fu tra le più forti emozioni della vita di entrambe. Racconto oggi questa storia perché resti per sempre.
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