«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Nel mese di luglio a Palazzolo si rinnova il pellegrinaggio alla Madonna delle Grazie

Si parte alle ore 7, dalla chiesa di san Sebastiano. Strada facendo, mentre al gruppo si uniscono altri devoti, si recita il Rosario...



Ai primi tepori, la soglia della chiesetta della Madonna delle Grazie si veste di violette, di primule, di margheritine, di anemoni,  poi di rose, di papaveri, di spatuliddi. Chiunque  si trovi a passare per andare all’acqua a san Giovanni si ferma e lascia ai piedi della porta un piccolo segno di devozione.

Dal 2 luglio, ricorrenza della Madonna delle Grazie, e in seguito per tutti i sabati del mese, di mattina la chiesa si apre ai fedeli che vi si recano in pellegrinaggio e assistono alla messa celebrata da don Angelo Caligiore. Un tempo era don Turiddu Barbainu che aveva il compito di aprire la chiesa prima dell’arrivo dei pellegrini, oggi assolve a tale compito Paolo Caligiore, fratello del parroco.
Fino ad una settantina di anni fa, una compagnia di artigiani, per la maggior parte calzolai, il 2 luglio, per consuetudine si recava alla Madonna delle Grazie. I galantuomini arrivavano in largo anticipo sugli altri fedeli, e sistematisi sul cuozzu soprastante la chiesa, consumavano una ricca colazione a base di uova sode e patate bollite “bagnate” nel sale e innaffiate con vino (l’acqua di san Giovanni, anche se buona, la evitavano per non correre il rischio che andasse a finire nelle spalle) e subito dopo ascoltavano la messa.
La chiesetta rupestre della Madonna delle Grazie a circa un chilometro dall’abitato, è immersa nel silenzioso verde della piccola vallata di san Giovanni e convive da sempre con il sommesso gorgoglìo della fonte sottostante celebrata per la freschezza della sua acqua e un tempo pullulante di lavandaie

Pellegrinaggio e santa messa
Si parte alle ore 7 dalla chiesa di san Sebastiano. Strada facendo, mentre al gruppo si uniscono altri devoti, si recita il Rosario e si intonano canti dedicati alla Madonna. Non mancano pellegrini scalzi, come  non manca  la signora Fargione, una simpatica e intrepida fedele ultranovantenne.
Qualche anno addietro, il primo ad arrivare in piazza del Popolo era un fedelissimo pellegrino a quattro zampe: Zippo, cane di nessuno e di tutti. Dal Corso, dove aveva il suo domicilio elettivo, appena percepiva in lontananza lo scalpiccìo e il chiacchericcio delle donne più mattiniere, Zippo andava subito a piazzarsi ai piedi della scalinata della chiesa e pazientemente attendeva il momento della partenza per poi andare compostamente in processione anche lui e assistere alla messa, senza mai proferire abbaio.    
La messa, per problemi di spazio, si celebra all’esterno, sullo slargo davanti la chiesetta. Un tavolo, una tovaglia bianca, la pisside, il calice, l’essenziale per la celebrazione eucaristica. I fedeli stanno di fronte seduti a semicerchio, quasi sotto il grande noce che però a quell’ora rivolge altrove la sua ombra. Tra i  “fedeli”, ancora una volta c’è un cane, emulo di Zippo, che ritiene di far parte a pieno titolo della piccola comunità. “Francesca” si intrufola nella processione e durate la messa si acciambella in bella mostra tra i fedeli e l’altare. Quando lo prende la sete va nella sottostante fontana e subito dopo leccandosi il muso torna compostamente al suo posto.
Alle 9 in punto, quando il sole incomincia a farsi sentire, il nutrito gruppo di fedeli composto in partenza da circa duecento persone, è già sulla strada del ritorno e man mano che si procede dentro l’abitato si assottiglia e silenziosamente si accomiata.
Per oltre un secolo, questa chiesa è stata luogo di aggregazione e di culto per la comunità di contadini che abitava nella contrada: deposti finalmente gli attrezzi di lavoro, all’imbrunire, uomini e donne si riunivano in chiesa per recitare il Rosario e per assistere alla messa; nelle grandi occasioni si celebrava pure la messa cantata.
La chiesa è ad una solo navata con abside circolare e relativa calotta; a sinistra dell’altare è posto un cartiglio recante la data 1881, sull’arco sovrastante l’altare, inciso a caratteri cubitali, si legge l’attributo più bello rivolto alla Madonna: Maria piena di Grazia. Sia l’altare che la piccola sagrestia in parte sono scavati nella roccia; nel prospetto esterno sull’intonaco giallo, campeggia la scritta: Ave Maria. Il campanile ad arco, dotato di campana e sovrapposto alla chiesa, spicca in mezzo al verde dei bagolari, degli ulivi, dei noci e tra le rocce affioranti, patinate di grigio con surreali macchie a figurazioni nero-antracite e giallo-ocracee.
Il tempietto, poco distante dal santuario di Cibele, a causa dell’abbandono delle campagne si è venuto a trovare in perfetta solitudine e ciò ha agevolato anche il “pellegrinaggio” dei malfattori di piccolo cabotaggio che hanno ripetutamente trafugato qualche quadro e modeste suppellettili. Si spera che i scassapagghiari di turno vadano a rubare galline da qualche altra parte.

Tra storia e leggenda
L’origine di questa chiesa è, sotto certi aspetti, avvolta dalla leggenda e fa parte di quel filone cultuale assai diffuso che vuole il ritrovamento per puro caso dell’immagine di un santo, seguito quindi da una catena di eventi e “miracoli”, che portano alla decisione di eleggere quel santo a protettore degli abitanti della località ove è avvenuto il rinvenimento. 
Si narra che all’inizio degli anni ’60 del secolo XVII, il sacerdote, don Francesco Policara durante una delle sue solite passeggiate in questa contrada trovò, su un grande masso sotto un mucchio di rovi appena recisi, una vecchia immagine di Maria oltraggiata dal tempo. Profondamente colpito, nel punto esatto della inattesa scoperta, “…il degno sacerdote - come riferisce P. Giacinto Farina nella sua Selva-  vi fè fabbricare un dammusetto, a forma di chiesetta, che i Buscemesi di notte tempo venuti a bella posta, diroccarono sin dalle fondamenta, onde non deperisse la festa di Maria del Bosco per questa occasione…”.  Anche il culto della Madonna del Bosco di Buscemi, fra l’altro, è legato al ritrovamento per caso (ancora una reiterazione della fenomenologia su accennata), sul finire del XVI secolo, di un affresco con l’immagine di Maria sull’intonaco di un vecchio muro. Lo stesso sacerdote, intorno al 1664, fabbricò “…una mediocre chiesuola, con un altarino, sopra il quale mise quel gran macigno e ornò le pareti di 9 quadri oltre il quadro maggiore da lui fatto ritoccare. Egli colà passava gran parte del giorno, e vi stabilì il Rosario, per cui molte persone ci si portavano ancora”.
La prima strofa di una “Coronella a Maria delle Grazie”, composta per l’occasione, ricorda proprio il grande masso: “Chista petra in cui tu siedi, / Matri e Virgini divina/ è lu locu in cui cuncedi / Grazii all’alma assai mischina / E n’insigni a ben campari / Pri puturi a Diu truvari…”. La seconda richiama i rovi: “Tra li Spini biancu Gigghiu / cui rallegri a cui ti vidi / fa ancora ca to figghia/ mantinissi a nui la Fidi / la Spiranza e Caritati / Pri nun fari cchiù piccati.” Circa due secoli dopo, e sempre nello stesso punto, la chiesetta fu rifabbricata “di già più ampia e più graziosa”. Si tratta della stessa chiesa che, ancora oggi, nel mese di luglio, accoglie i numerosi fedeli in devoto pellegrinaggio.
In chiusura si propongono alcuni versi di una lunga preghiera popolare in dialetto, dedicata alla Madonna delle Grazie. E’ stata registrata su nastro magnetico, da chi scrive, nel luglio del 1993, dalla viva voce dell’allora ottuagenaria signora Paola Finocchiaro Musso: “Bedda Matri di la Razia, / ‘st’arma mia nun resta sazia / si nun havi a tutti l’uri, / o Maria lu Vostru amuri: / Oh chi gioia, oh chi alligrizza, / oh chi vera cuntintizza, / ‘st’arma afflitta pruvvirìa, / a ch’io amassi a Vui Maria./ Di la carni e di lu munnu: / assiemi a Vui nun mi cunfunnu, / la gluriusa e la vittoria, / a Maria tiegnu memoria…

Il Corriere degli Iblei, giugno 2008

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