«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

ERAN VENTUNO: ‘A Quararàra' (Angela Cassia)


In famiglia erano tutti di taglia forte, extralarge. Il padre, don Pippinu Cassia, faceva lo stagnino, ‘u quararàru, e i figli, due fratelli e tre sorelle, dal mestiere esercitato dal padre, per “diritto” di consanguineità avevano preso il nome di Quararàri.


Ad Angelina, questo appellativo le si attagliava come un abito su misura: a dispetto del diminutivo era larga e rotonda come una quarara. Nubile e madre di una ragazza bellissima, faceva la cartomante ma non disdegnava lozioni e misture per legamenti d’amore e altro. Abitava con il padre nel punto in cui la via Maestranza diventava un budello: don Pippinu stagnava pentole e caldaie e lei divinava il futuro leggendo i tarocchi.

Nonostante la grassezza spropositata, Angelina era piena di languori e di fascino, quanto bastava per ammaliare gli uomini che trovavano in lei, oltre ad una generosità fatta soprattutto di bistecche, quel tanto in più che in altre donne non potevano certamente trovare.
Quando, ricambiata, si innamorò di don Matteo,  costui non esitò un istante a piantare moglie, peli, contropeli e saponate per andare a vivere con lei.
Durante il periodo bellico gli affari si incrementarono sensibilmente: mamme mogli e fidanzate erano tutte ansiose di conoscere il destino dei loro uomini partiti in guerra. E allorchè la sua nomèa varcò i confini autoctoni e il giro dei clienti divenne sempre più vasto, lo "studio" di via Maestranza incominciò a starle stretto. E allora, la signora Angelina prese in affitto una casina e con il buon don Matteo, diventato nel frattempo anche lui ‘u Quararàru, per motivi… diciamo così, di affinità elettiva, si trasferì in campagna in contrada Saraceni, a 3 km dal centro abitato.

Nei primi tempi, la coppia viaggiava in carrozza. Don Matteo, allogata con fatica la sua metà (si fa per dire) dentro la vettura, saliva in serpa e via al trotto per Palazzolo.
Poi, all'inizio degli anni '50, continuando ad andare bene gli affari, la signora Angelina si regalò una "1100", nuova fiammante. Ora, quasi tutti i giorni i due andavano in paese in auto e il povero don Matteo, ogni volta, doveva sudare le proverbiali sette camicie per caricare tutta la sua amata dentro la malcapitata Fiat.
La macchina, con il tracimante carico dentro, nella tarda mattinata veniva abitualmente posteggiata in piazza del Popolo, davanti al caffè Sicilia. Mattiuzzu andava per botteghe a fare la spesa e a sbrigare incombenze varie, e lei rimaneva in attesa, immobile, sprofondata sui sedili posteriori, aggrappata con la mano tozza piena di anelli alla maniglia dell’auto e con l’altra mano, sempre tozza e sempre sfavillante di anelli, adagiata sul ventre. Quella macchina nera, lucida, “esposta” in piazza, era un punto di riferimento per tutti quelli che avevano bisogno di lei per un consulto chiaroveggente. Era da lì che la signora Angelina fissava gli appuntamenti con la sua fidente clientela.

Un donnone che non finiva mai, una montagna di carne incredibile. Quasi due quintali di adipe e di dolcezza allo stesso tempo, configurati da un bel viso rotondo, accattivante, dai lineamenti dolcissimi, con due sopracciglia come un filo di matita e incorniciato da capelli neri, leggermente ondulati. Al centro, un bocchino melato con due piccole labbra rosso vermiglio, simili ad una ciliegina sistemata nel bel  mezzo di una enorme torta. Dalle fitte pieghe della pappagorgia, veniva fuori a stento ma con prepotenza una doppia catena d'oro massiccio con un grosso medaglione che faceva capolino dallo scollo e tentava di insinuarsi tra i due seni sconfinati e molleggianti e, tutt'intorno, anelli e bracciali a 24 carati. Era sempre imbellettata ed elegante in modo vistoso ma assolutamente non volgare. E d'inverno indossava soltanto pellicce, i capi più ricercati e costosi, impreziositi da grosse spille a lagrimoni e a fiori.

Anche don Matteo, con lei, andava vestito abbastanza elegante. Era alto, magro, un po' calvo, sempre ben rasato e con un bel paio di baffetti; portava occhiali dai vetri spessissimi: era miope come una talpa. D'inverno indossava un cappello di feltro dalle tese larghe.

La casina di contrada Saraceni, in breve, divenne meta obbligata per i patiti delle fatture e della cartomanzia con le sue tecniche divinatorie, luogo conviviale per i più intimi, ma soprattutto fu nido d’amore per i due piccioncini. I numerosi frequentatori affluivano da tutto il circondario con domatrici, carretti, muli, biciclette; dalla strada provinciale per Noto a volte si intravedeva pure qualche auto posteggiata all’ombra del noce (e il noce, celebratissimo quello di Benevento, ci sta come il cacio sui maccheroni: ad esso sono legate una serie di credenze popolari tra le quali quella che lo vuole come luogo prediletto dalle streghe per i loro conciliaboli). Ognuno aspettava pazientemente il proprio turno, mentre lei, da dietro il paravento, trafficava e chiedeva responsi a getto continuo alle carte figurate. Per tutti aveva sempre la risposta giusta, la ricetta personale, data con il miele in bocca, con voce languida e suadente.

Era una padrona di casa allegra, gioviale, le piaceva stare con la gente. Spesso invitava gli amici più stretti, i vicini di campagna, e si stava un po' assieme: si ascoltava qualche disco, si assaggiavano i dolcini alla mandorla, gli amaretti, si metteva fuori la rosoliera tremolante di bicchierini smerigliati e si sorseggiava compitamente, con il mignolo all’insù e con la schiocco della lingua, il delizioso rosolio alla “strega di Benevento”, preparato, manco a dirlo, con le sue stesse mani.
All'imbrunire, nelle sere d'estate, amava sedersi davanti la porta della casina, di fronte alla strada: il sedere, sterminato, inondava il sedile di pietra che, sottoposto a quel peso immane e sollecitato dai morbidi ondeggiamenti sembrava dovesse schiattare da un momento all'altro. E qui stava immobile, come in attesa, a prendersi  il fresco e a guardare assorta, soprappensiero.


Viveva alla giornata, la signora Angelina, proprio lei! Ma chissà quale responso le diede la mantica quando dispose i tarocchi sul solito tavolo per conoscere il suo futuro, se il suo, proprio il suo futuro, era di già prematuramente segnato a 49 anni?

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