In famiglia erano tutti di taglia forte, extralarge. Il padre, don Pippinu Cassia, faceva lo stagnino, ‘u quararàru, e i figli, due fratelli e
tre sorelle, dal mestiere esercitato dal padre, per “diritto” di consanguineità
avevano preso il nome di Quararàri.
Ad Angelina, questo appellativo le si attagliava come un abito su misura: a
dispetto del diminutivo era larga e rotonda come una quarara. Nubile e madre di una ragazza bellissima, faceva la
cartomante ma non disdegnava lozioni e misture per legamenti d’amore e altro.
Abitava con il padre nel punto in cui la via Maestranza diventava un budello:
don Pippinu stagnava pentole e
caldaie e lei divinava il futuro leggendo i tarocchi.
Nonostante la grassezza spropositata, Angelina era piena di languori e di
fascino, quanto bastava per ammaliare gli uomini che trovavano in lei, oltre ad
una generosità fatta soprattutto di bistecche, quel tanto in più che in altre
donne non potevano certamente trovare.
Quando, ricambiata, si innamorò di don Matteo, costui non esitò un istante a piantare
moglie, peli, contropeli e saponate per andare a vivere con lei.
Durante il periodo bellico gli affari si incrementarono sensibilmente:
mamme mogli e fidanzate erano tutte ansiose di conoscere il destino dei loro
uomini partiti in guerra. E allorchè la sua nomèa varcò i confini autoctoni e
il giro dei clienti divenne sempre più vasto, lo "studio" di via
Maestranza incominciò a starle stretto. E allora, la signora Angelina prese in
affitto una casina e con il buon don Matteo, diventato nel frattempo anche lui
‘u Quararàru, per motivi… diciamo
così, di affinità elettiva, si trasferì in campagna in contrada Saraceni, a 3
km dal centro abitato.
Nei primi tempi, la coppia viaggiava in carrozza. Don Matteo, allogata con
fatica la sua metà (si fa per dire) dentro la vettura, saliva in serpa e via al
trotto per Palazzolo.
Poi, all'inizio degli anni '50, continuando ad andare bene gli affari, la
signora Angelina si regalò una "1100", nuova fiammante. Ora, quasi
tutti i giorni i due andavano in paese in auto e il povero don Matteo, ogni
volta, doveva sudare le proverbiali sette camicie per caricare tutta la sua
amata dentro la malcapitata Fiat.
La macchina, con il tracimante carico dentro, nella tarda mattinata veniva
abitualmente posteggiata in piazza del Popolo, davanti al caffè Sicilia. Mattiuzzu andava per botteghe a fare la
spesa e a sbrigare incombenze varie, e lei rimaneva in attesa, immobile,
sprofondata sui sedili posteriori, aggrappata con la mano tozza piena di anelli
alla maniglia dell’auto e con l’altra mano, sempre tozza e sempre sfavillante
di anelli, adagiata sul ventre. Quella macchina nera, lucida, “esposta” in
piazza, era un punto di riferimento per tutti quelli che avevano bisogno di lei
per un consulto chiaroveggente. Era da lì che la signora Angelina fissava gli
appuntamenti con la sua fidente clientela.
Un donnone che non finiva mai, una montagna di carne incredibile. Quasi due
quintali di adipe e di dolcezza allo stesso tempo, configurati da un bel viso
rotondo, accattivante, dai lineamenti dolcissimi, con due sopracciglia come un
filo di matita e incorniciato da capelli neri, leggermente ondulati. Al centro,
un bocchino melato con due piccole labbra rosso vermiglio, simili ad una
ciliegina sistemata nel bel mezzo di una
enorme torta. Dalle fitte pieghe della pappagorgia, veniva fuori a stento ma
con prepotenza una doppia catena d'oro massiccio con un grosso medaglione che
faceva capolino dallo scollo e tentava di insinuarsi tra i due seni sconfinati
e molleggianti e, tutt'intorno, anelli e bracciali a 24 carati. Era sempre
imbellettata ed elegante in modo vistoso ma assolutamente non volgare. E
d'inverno indossava soltanto pellicce, i capi più ricercati e costosi,
impreziositi da grosse spille a lagrimoni e a fiori.
Anche don Matteo, con lei, andava vestito abbastanza elegante. Era alto, magro,
un po' calvo, sempre ben rasato e con un bel paio di baffetti; portava occhiali
dai vetri spessissimi: era miope come una talpa. D'inverno indossava un
cappello di feltro dalle tese larghe.
La casina di contrada Saraceni, in breve, divenne meta obbligata per i
patiti delle fatture e della
cartomanzia con le sue tecniche divinatorie, luogo conviviale per i più intimi,
ma soprattutto fu nido d’amore per i due piccioncini. I numerosi frequentatori
affluivano da tutto il circondario con domatrici, carretti, muli, biciclette;
dalla strada provinciale per Noto a volte si intravedeva pure qualche auto
posteggiata all’ombra del noce (e il noce, celebratissimo quello di Benevento,
ci sta come il cacio sui maccheroni: ad esso sono legate una serie di credenze
popolari tra le quali quella che lo vuole come luogo prediletto dalle streghe
per i loro conciliaboli). Ognuno aspettava pazientemente il proprio turno,
mentre lei, da dietro il paravento, trafficava e chiedeva responsi a getto
continuo alle carte figurate. Per tutti aveva sempre la risposta giusta, la
ricetta personale, data con il miele in bocca, con voce languida e suadente.
Era una padrona di casa allegra, gioviale, le piaceva stare con la gente.
Spesso invitava gli amici più stretti, i vicini di campagna, e si stava un po'
assieme: si ascoltava qualche disco, si assaggiavano i dolcini alla mandorla,
gli amaretti, si metteva fuori la rosoliera tremolante di bicchierini
smerigliati e si sorseggiava compitamente, con il mignolo all’insù e con la
schiocco della lingua, il delizioso rosolio alla “strega di Benevento”,
preparato, manco a dirlo, con le sue stesse mani.
All'imbrunire, nelle sere d'estate, amava sedersi davanti la porta della
casina, di fronte alla strada: il sedere, sterminato, inondava il sedile di
pietra che, sottoposto a quel peso immane e sollecitato dai morbidi
ondeggiamenti sembrava dovesse schiattare da un momento all'altro. E qui stava
immobile, come in attesa, a prendersi il
fresco e a guardare assorta, soprappensiero.
Viveva
alla giornata, la signora Angelina, proprio lei! Ma chissà quale responso le
diede la mantica quando dispose i tarocchi sul solito tavolo per conoscere il
suo futuro, se il suo, proprio il suo futuro, era di già prematuramente segnato
a 49 anni?
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