alla fine,
tanta tenacia fu premiata da una evacuazione oceanica che per primo investì lo
stesso flebotomo…
"Mi scantu a
pigghialla,/ Mi scantu a tuccalla,/ Cci tagghiu la testa,/ cci tagghiu la
cura,/ E trovu dda rintra,/ ‘Na bedda signura”
sono versi di un antico
indovinello popolare dedicato al ficodindia, pianta tipica della macchia
mediterranea. Nella nomenclatura ufficiale fu classificata come “Opuntia ficus
indica” perché la si ritenne originaria dell’India, di quell’India scoperta da
Cristoforo Colombo e corrispondente alle regioni dell’America centrale. In
effetti, a quel che si sa, questa pianta era conosciuta da Greci e da Romani,
molti secoli prima della scoperta dell’America.
In
Sicilia, il ficodindia è così diffuso e connaturato al paesaggio che è
diventato, in certo qual modo, l’emblema stesso dell’isola. Non c’è campagna
dove non si trovino cespi di fichidindia; si riproducono e allignano dovunque:
nei terreni difficili e sassosi, sulle scarpate, sulle rocce laviche; spesse
volte il limite tra appezzamenti coltivati è segnato proprio da ininterrotte
siepi di pale spinose.
Da
qualche tempo tuttavia, in alcune contrade della Sicilia, grazie alla
latitudine, alla giacitura a alla fertilità dei terreni, dismesse le colture
seminative, sono nate delle zone tipiche di coltura intensiva e razionale che
hanno dato dignità a questo frutto esotico. San Cono, ad esempio, produce il
50% dell’intera produzione nazionale, poi c’è Militello Val di Catania, Belpasso,
ecc. Ingenti quantitativi di frutti inoltre vengono esportati in tutto il
mondo, compresi gli Stati Uniti che sono ritenuti la loro terra d’origine.
Le varieta’
La fioritura
avviene in primavera, ma quando si vogliono ottenere frutti con maggiore
contenuto di polpa e più saporiti, (bastarduna),
si scoccolano gli abbozzi fruttiferi entro la prima decade di giugno: i nuovi
rinasceranno sulle areole internodali degli articoli (pale). In questo modo il
frutto, con due fioriture, è presente da settembre a dicembre. L’opposto dei bastardi sono i ntuppacula, insapori e indigesti, e sono il risultato degli abbozzi
precoci che, lentamente, maturano bacche di qualità scadente.
Le varietà più
diffuse sono tre: la Surfarina o
nostrana, di colore giallo; la Muscatedda
dalla polpa bianco-rosata (questa cultivar è la più dolce); la Sanguigna, rossa, rosso sangue. Queste
stesse varietà il palazzolese Andrea Farina, verso la metà del secolo scorso,
dopo diversi tentativi, riuscì ad innestarle su un unico ceppo. Riportiamo la
descrizione che ce ne dà il di lui fratello, Padre Giacinto nella “Selva”: “…si prende una paletta delle novelle e si
mette dentro la fissura, che si fa nella pala, che vuol innestarsi, litando
anco di terra la stessa fissura. Così: una medesima macchia farà fichi d’India,
bianche, rose, gialle e spinose”.
Effetto astringente
La
polpa è squisita, fragrante, racchiude l’ultimo sole dell’estate; liberata
dalla buccia, diventa irresistibile. Ancora un sagace indovinello popolare (non
privo di doppio senso), ammicca alle delizie che questo frutto procura: “Lassimi stari,/ Nun mi tuccari,/ Lassimi
spugghiari,/ Ca ti fazzu arricriari”. Nasconde tuttavia una magagna: è
piena di piccoli semi durissimi che, oltre a rimanere impigliati tra i denti,
hanno un insidioso effetto astringente. Lo stesso Verga nella novella “Guerra
di Santi”, cita un tale “ch’era un
maiale, e aveva voluto morire per fare una scorpacciata di fichi d’India”.
E
a Sortino dove maturano bastarduna di
eccellente qualità, circola la storia ormai vecchia di ’Ntoni setti botti, un povero diavolo che per calmare i morsi della
fame si ingozzò di fichidindia, rimanendo congestionato da una stipsi
paragonabile ad una gettata di calcestruzzo. Il barbiere medico di “casa” lo
penetrò ben sette volte con sette clisteri e, alla fine, tanta tenacia fu
premiata da una evacuazione oceanica che per primo investì lo stesso flebotomo
il quale, a motivo del suo ufficio, si trovava nelle immediate vicinanze della
“scaturigine”.
Gli esili ciuffetti di spine
I
fichi d’India si raccolgono col coppu oppure con una foglia di fico o di
cavolo per proteggersi le mani dagli esili ciuffetti di spine assai fastidiosi.
E’ conosciuto, a tal proposito, lo scherzo del solito Turi Rizza ai suoi
colleghi della banda musicale di Palazzolo, in trasferta a Testa dell’Acqua:
mentre gli amici musicanti schiacciavano un pisolino ristoratore, il Nostro,
prima si abbuffò del dolce frutto e poi, accuratamente, strofinò le bucce
spinose sulle imboccature di tutti gli strumenti a fiato. Le tragicomiche
conseguenze si possono immaginare.
Sullo
stesso tema, Pitrè ci fa conoscere l’originale espediente adottato un tempo dai
contadini di Avola, i quali, per svellere le spine dei fichidindia, si
servivano delle robuste zampe di una mosca cavallina (Ippobosca) catturata per
la circostanza.
Per
evitare l’inconveniente dei semi e delle spine, sono stati compiuti dai
botanici diversi tentativi di ibridazione ma sempre con scarsi risultati dal
punto di vista organolettico. Oggi, relativamente al secondo problema, esistono delle macchine despinatrici in grado
di eliminare completamente le spine.
Antiche tradizioni
Sino
a qualche tempo fa, i fichidindia, definiti nel passato “il pane di poveri”,
contribuivano ad alleviare un po’ di fame nelle famiglie contadine e nelle
classi meno abbienti, e chi non aveva la sorte di possedere un orto con gli
immancabili fichidindia, se lo affittava o ricorreva al baratto: la colazione
dell’intera famiglia era così assicurata fino ad autunno inoltrato.
Se
si vogliono conservare a lungo, i fichidindia si posizionano all’impiedi e in
posti ben aerati. E se si desidera gustarli nel cuore dell’inverno e oltre, si
colgono poco maturi e col peduncolo o con la pala dove sono attaccati e si
appendono ad un chiodo. Matureranno lentamente abbeverandosi alle riserve del
cladodio che li accompagna. Ancora oggi, il 19 marzo in Sicilia, nei “conviti”
e sulle “tavole” di S. Giuseppe fanno spicco panieri e ceste di fichidindia.
Da
questo frutto, ma anche dai fichi e dall’uva, si può preparare la mostarda, mustata: si mette a bollire la polpa in
poca acqua, quindi si aggiunge un po’ di farina o delle noci o mandorle
tostate; quando la pasta incomincia a rapprendersi si versa nelle formelle in
terracotta. I fichidindia si possono gustare anche a marmellata, a frittelle
(tagliate a fette e impanate con una
pastella di farina, uova, latte e sale), sotto forma di gelato. Assai prelibato
è il rosolio.
Nel
campo delle pratiche popolari, la pale, spaccate nel mezzo e arrostite, al
presente sono ancora largamente usate come cataplasma da applicare per i dolori
reumatici, per ascessi cutanei, fratture; il succo delle pale è lenitivo per la
tosse e la pertosse; il decotto di fiori ha capacità diuretiche e favorisce la
funzione epatica.
Un
tempo, gli ammalati di milza, per ottenere la guarigione dovevano spaccare con
la mano sinistra alcune pale di ficodindia e appenderle vicino al focolare. Il
malanno scompariva a mano a mano che le pale incominciavano a seccare. Per i
bambini affetti dalla stessa patologia cambiava il procedimento: il guaritore
faceva posare il piede sinistro del piccolo paziente su una pala e ne
ritagliava la sagoma a forma di suola, nel frattempo recitava una orazione
particolare; i genitori, arrivati a casa, appendevano la “suola” vicino al
forno. Il bambino guariva quando la pala risultava completamente avvizzita.
1 commento:
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