Vestita
sempre di scuro con i capelli bianchi leggermente ingialliti e raccolti a
crocchia sulla nuca, camminava a piccoli passi, raso terra, quasi strisciando i
piedi, pareva che scivolasse su un piano di velluto. I due pendenti di onice
nero, in sincronia con il lieve tremore del capo, le conferivano una specie di
moto perpetuo che si trasmetteva a tutta la persona. Aveva un sorrisetto
accattivante con il quale metteva in mostra tutti i trentadue denti della cascia mentre il muso irto di grigi
peluzzi le si aggrinziva a fisarmonica. Negli ultimi tempi stava con il nipote Sebastiano,
apprezzato sarto di scuola francese, il quale parlava anche bene la lingua
d’oltralpe ma per una sorta di rivalsa postuma beveva i vini di Pachino, meno
raffinati ma più robusti di quelli che aveva avuto modo di assaporare durante
la sua lunga permanenza in Francia.
Ai Palazzolesi era
nota come donna 'Nzulidda 'a Liuna,
per l'anagrafe era la signorina Vincenza Leone. Nubile per scelta, e per niente
inacidita, era abbastanza avanti negli anni e nondimeno il tempo per lei si era
fermato: era diventata vecchia tutta in una volta e però non continuava più ad
invecchiare. Gestiva un negozio-emporio al n. 6 di Corso Vittorio Emanuele, ma
quel posto più che altro era una specie di salotto, un salotto di casa
allargato a tutte le sue amiche-clienti.
La
vendita della roba e l’eventuale guadagno, ammesso che ne avesse, erano un
fatto marginale; per lei l'obiettivo primario, quando il “salotto” stava
aperto, era quello di incocciare le clienti giuste al momento giusto, e non per
vendicchiarle qualcosa, quanto piuttosto per discorrere “amabilmente” del più e
del meno. La conversazione, prima a fior di labbra, incominciava poi a divenire
fluida, sibillina, ammiccante, con ampi voli pindarici senza quartiere che
toccavano l’intera comunità palazzolese urbana ed extraurbana. E allora vedevi
un brulichio di comari nere con le labbra strette, a culo di gallina, che
ciaramellavano intozzate in crocchio, e lei, nel mezzo, come una papessa, con
la testa che cominciava a tremolarle più del solito, teneva banco agli ameni
conversari che si intrecciavano sempre più con una progressione da crescendo
rossiniano.
L'apertura e la
chiusura dell'esercizio non tenevano conto né di norme né di logiche da
marketing: alle volte apriva alle 11 oppure a mezzogiorno suonato, per chiudere
alle 13 o mezz'ora dopo; di pomeriggio, o meglio, la sera riapriva alle 7,30 o
alle 8 e un quarto o a qualsiasi altra ora, per chiudere alle 10, o alle 11 o
(d'estate) a mezzanotte e mezza.
Aveva delle mani grandi, sempre gonfie, paonazze e gronchie,
costellate di geloni sino a maggio inoltrato con le quali, senza nessuna
difficoltà, riusciva a fare girare nella toppa la gran chiave a naso, facendo
scorrere la mandate una dopo l'altra.
Due o tre gradini sotto la soglia immettevano nel tammusu adibito a negozio. L'arredamento era
costituito da tre banconi nocciola chiaro disposti ad U e da alcune traballanti
scaffalature che servivano pure da tramezzo per il retrobottega. Questo
era violabile soltanto dalle clienti
fidatissime con le quali donna 'Nzulidda
si appartava per discutere e sproloquiare sulle vicende più sconvolgenti
dell’ultima ora: tresche, corna, zitaggi, fuiutini,
nascite, liti parentali e non, anteprime di malati di cancro, morti nella
nottata, lutti, disgrazie, dissesti economici… Un taglia e cuci che nemmeno in
sartoria.
Gli articoli in vendita
appartenenti alle più disparate categorie merceologiche erano disposti alla
rinfusa: sui banconi, sulle mensole, a terra. Una confusione indescrivibile:
zucchero a pezzi, stacchi di tela, batterie da cucina, flanella per camicie e
mutande, caffè in grani crudo e tostato, estratti Bertolini per coloratissimi
rosòli caserecci, (doppio kummel, crema cacao, perfetto amore, strega di
Benevento, certosino) scampoli di percalle, percallino, matapollo, musulinu,
brillantina sfusa, petrolio sfuso, farina sfusa, zucchero semolato,
impalpabile, buatte di salsa, pasta,
pezzi di sapone di “casa” ecc. ecc.
Le affezionate clienti venivano servite secondo un
criterio inversamente proporzionale all'importanza delle notizie di cui erano
foriere. Vale a dire: le clienti portatrici di fatti nuovi e significativi
erano le "privilegiate" e difatti, tacimaci, finivano sempre in coda perchè dovevano immettere nuova
linfa alla conversazione già avviata e da prolungare; le clienti a corto di
argomenti, invece, anche se arrivate per ultime, venivano servite
immediatamente e così lasciavano libero il campo, oppure se volevano,
rimanevano ascoltatrici passive per un lungo lasso di tempo, e infine se ne
uscivano insalutate e, se possibile, senza aver comprato la merce per cui erano
entrate. Niente male, sarebbero ritornate l'indomani per comprare, ma
soprattutto per rifarsi con lo spifferare o con l’incamerare notizie rilevanti
e di prima mano.
Povera donna 'Nzulidda. La rivedo ancora, ciondolare,
con la grossa chiave tra le mani, pronta a girare l'angolo di via Monastero per
aprire il suo "salotto" sul Corso.
3 commenti:
Meraviglioso
Aspetto che scrivi del Prof. Carmelo Sisino. L'ho conosciuto di persona, un personaggio speciale, colto, dalle mille sfaccettature come tu ben sai raccontare. Complimenti per l'evidenza e l'attenzione alla storia della nostra cultura a qualsiasi livello. Grazie Nello. Un caro abbraccio Paolo Gallo
Thanks for writing tthis
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