Faceva
il fattorino telegrafico e portava a domicilio telegrammi e raccomandate, prima
servendosi di una bicicletta, poi di un Ciao rosso e dopo, infine, a piedi, e
sempre con la borsetta a tracolla sul davanti, anche quando era fuori servizio,
sempre nello stesso atteggiamento, come se continuasse a distribuire le urgenze
postali. Questa sua posa aveva finito con l’ingobbirgli un po’ le spalle,
listate da mattina a sera dalla cinghia della borsetta. Era gentilissimo con
chiunque, garbato, salutava sempre per primo: “i miei ossequi”, era la sua
frase ricorrente; parlava un italiano a modo suo ma accettabile e comprensibile
da chiunque. Era rispettoso e voluto bene da tutti.
Aveva
la faccia rotonda, leggermente scavata alle guance, con i pomelli rossi di
primo mattino e che nell’arco della giornata gli diventavano sempre più rossi.
Portava insellati, sul naso rosso dalle larghe narici, degli occhiali da vista,
da miope, con le aste di osso, dietro i quali guizzavano degli occhi piccoli e
scuri. Si fregiava di un paio di baffetti spinosi, appena brizzolati; un po’
stempiato, con i capelli anch’essi ingrigiti, fini e ondulati. Di bassa
statura, appena tarchiato, con una leggera pancetta nascosta dal solito doppiopetto, camminava
sbilanciato in avanti e sempre velocemente, con i suoi piccoli piedi
rientranti, a passettini stretti stretti e veloci veloci, un po’ curvo e a
testa bassa; sembrava che non alzasse i piedi da terra, anche perché a
riappoggiarli al suolo eran dolori, per via dei tanti calli che si erano
stabilizzati nelle sue estremità, assai preziose, fra l’altro, per il tipo di
lavoro che era obbligato a svolgere. I suoi piccoli piedi, tuttavia, erano
afflitti pure da una patologia ancora più grave dovuta ad una arterite di
natura diabetica. Il diabete gli consumava anche gli occhi e il vino e il fumo
lo consumavano tutto, giorno dopo giorno. Quando il suo medico gli raccomandava
di non fumare e soprattutto di bere solo acqua, lui aveva sempre pronta la
classica risposta: “Dutturi, l’acqua va nte spaddi!”. Di prima
mattina, tuttavia, beveva un bel bicchiere di latte; ma era una goccia nel
mare.
Fumava
molto: prima “Trestelle”, (tri, tri, tri,
chiedeva a don Mmastianu Capitanu, tabaccaio, con 33 lire nelle mani: Tre Trestelle uguali a 33 lire), poi
Diana col filtro ed era prodigo, non solo di sigarette. Il caffè lo prendeva
stretto, strettissimo: ‘na stizza!
Al
momento del recapito, nell’attesa della firma per ricevuta, Turiddu usciva il fazzoletto e si
asciugava il sudore della larga fronte, anche quando essa era asciutta come un
osso: questa sua posizione in stand bay era un rituale immancabile nell’attesa
della mancia che mai chiedeva ma che mai disdegnava e il cui destino era
inesorabilmente segnato: una ricca lampa
di vino. I telegrammi di auguri e di congratulazioni agli sposini di giornata,
se li coccolava in modo particolare e con perfetto tempismo li consegnava nel
bel mezzo del trattenimento. Dopo qualche cerimoniosa schermaglia iniziale, i
bicchierini di rosolio incominciavano ad andare e a venire come se niente
fosse. Si dispiaceva sinceramente, come cosa sua, quando doveva consegnare
telegrammi con notizie poco liete. Nel lavoro era irreprensibile, puntuale, (cogghi, cogghi, cogghi, cogghi…: era questo il suo grido di battaglia
che gli dava la carica e lo esaltava), affidabile, sapeva mantenere il segreto
che gli imponeva l’ufficio. Era capace di consegnare tutto ciò che aveva lo
stimma dell’urgenza anche con il diluvio universale, era altruista, pronto ad
andare al di là del suo dovere.
Era
amico di tutti, ma il suo amico più caro era “Bacco”. Gli voleva bene più di un
fratello, molto di più, molto di più, e tutti giorni, gli rendeva doveroso
omaggio, magnificandolo nei vari “santuari” esistenti in paese: Marcello,
Mazza, Sattirana, Zazà, eccetera. Si metteva il dorso della mano sinistra sotto
il mento a mo’ di bavaglino, socchiudeva gli occhi, dilatava ancora di più le
già larghe narici e, dopo il solito “san
Brasi, u primu ca trasi” liturgico, senza prendere fiato, in un solo colpo,
si tummava un’intera lampa di vino, quella canonica, da un
quarto. E se qualcuno, scherzosamente, gli domandava: “Turiddu, Turiddu, quantu ti ni vivi?”. “N quartu n quartu, n quartu…n
quartu ri utti” rispondeva altrettanto scherzosamente. E ancora: “Turiddu, si può bere il vino sulle
castagne?” “Il vino si può bere macari
supra u scrusciu ri carrettu”
ribatteva pronto. E sempre in gloria a Bacco gli piaceva tanto la carne di
capra, uno degli animali sacri a questo dio, arrostita e sempre abbondantemente
innaffiata con “sangue di Cristo”.
La
taverna era la sua seconda casa, il vino il suo viatico. Gli piaceva stare con
gli amici, mangiare, bicchiriddiari, condividere
il suo vivere in allegria, divertirsi e dopo aver mangiato bene e bevuto
meglio, quando il vino diventava tenero e fluido, si attaccava: “Cosa facevano
i nostri avi? bevevano, bevevano!. Cosa facevano i nostri nonni:? bevevano
bevevano! Cosa facevano i nostri padri? bevevano, bevevano! e noi che figli
siamo beviamo beviamo! e noi che figli siamo beviamo beviamo…!”. E Turiddu rideva nella bazza, applaudiva
anche con la testa, ammiccava, infilava il naso nel bicchiere e mandava i baffi
in immersione: “Cogghi, cogghi, cogghi,
cogghi…”.
Il
31 marzo, giorno del suo compleanno, era festa grande. Tutti i suoi amici e
compagni di crapula si davano appuntamento da Marcello, il suo oste di fiducia,
e lì dopo il rituale e riverente “A nnomu
ri di Ddiu” oppure “Prima Ddiu e poi
ìu”, si dava di piglio ad un gozzovigliamento generale fatto di bollito,
patate, polpette, uova sode e vino tosto. Chi ne voleva ne prendeva. Turiddu pagava e, Bacco, annuiva
compiaciuto.
Oltre
che di Bacco e della crapula era devoto anche di Venere (“si lavora e si
fatica” - soleva dire - per la panza
e …”) e molto spesso andava in visita,
come tutti i giovani del suo tempo, presso il casino, non quello di
conversazione, ma di Villarosa: “Da lì sono nato, e sopra ci voglio morire”,
diceva sibillinamente quando aveva un improvviso rimescolamento di sangue. Poi,
più tardi, scoprì che gli piaceva andare al cinema, non aveva preferenze
particolari, qualsiasi genere di film andava bene. La domenica quando il locale
era affollato e di solito molti spettatori rimanevano all’impiedi, Turiddu, strizzava gli occhi, alluzzava, concupiscente, la sua vittima sacrificale e, lesto e
felpato come un gatto in cucina, le si piazzava dietro… con una certa
nonchalance, ma fermo come una roccia.
Le
piaceva sentire il profumo, il profumo di donna, l’odore dei capelli che gli
solleticavano la punta del naso, il tepore del gluteo. Si ringalluzziva. Gli si
infocavano gli orecchi, i pumidda, si
invermigliava tutto, gli si imbambolavano gli occhi dal vino di prima, dal
sonno, per il rimescolamento ormonale. Ma lui, imperterrito, insaccato nelle
spalle, con gli occhi a pampinedda
dietro gli occhiali, fermo e duro come una roccia.
Il diabete e il vino continuarono a consumarlo giorno per giorno. Si
mise in pensione concludendo il suo servizio dignitosamente come lo aveva
sempre svolto. Poi cadde ammalato; alla fine il fegato l’aveva sfatto. Negli
ultimi tempi oltre che dalla sorella, fu accudito da una donna pietosa e forte
che non lo lasciò più, anche dopo che le ombre funebri avevano già iniziato a
lambirlo.
2 commenti:
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