Quando per una presunta questione di
corna sbudellarono in piazza del Popolo Turi Bacchiri, su
consiglio del medico fu necessario ricoverarlo d’urgenza al vecchio
ospedale civile di Siracusa.
Con la pancia tutta aperta tracimante
sangue e vino, fu caricato in tutta fretta sulla Fiat 1400 diesel
della ditta Infantino (don Paulieddu ra OM) & Infantino
(Cicciu a tiempu a tiempu) e subito, a tutta velocità, a
Siracusa. Da fonti niente affatto attendibili e in vena di imbastire
sornionamente leggende metropolitane, si racconta che sull’auto
salì pure, impiccione com’era, don Ciccinu Ieca, in
qualità, diciamo, di infermiere. Lui era sempre presente, in tutte
le occasioni, belle o brutte che fossero. La stessa fonte riferisce
che, davanti all’ospedale, appena gli infermieri videro che usciva
barellando dalla macchina, prima lo sorressero, poi lo presero di
peso (si fa per dire), lo scaraventarono nella portantina e lo
accompagnarono di corsa in sala rianimazione per intubarlo e
trasfusionarlo. Turi Bacchiri, l’accoltellato, rimasto in
macchina e sempre con le budella di fuori, intanto urlava come un
ossesso protestando che il paziente da ricoverare era lui e non don
Ciccinu.
Don Ciccinu pareva non avesse
sangue nelle vene, tanto era pallido, giallo, smunto. Magrissimo,
senza muscoli, con una testolina inteschiata su un collo esilissimo.
Aveva una faccia spiritata con una bocca piccola e crudele e un
sorriso che voleva essere un sorriso ma era una specie di ghigno.
Quando apriva la bocca con la sua vocina di zanzara filava agli
angoli esili grumetti di biascia. Portava un paio di occhiali
cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto di un fuanu:
era terribilmente miope e dietro le lenti fortissime non faceva altro
che strizzare le palpebre per vederci meglio mentre gli occhi gli si
strabuzzavano sempre di più. Qualcuno gli aveva affibbiato il
nomignolo di Iattaredda, oltre a quello del casato (Ieca),
perché sembrava proprio una gattina pelle e ossa, e lui, quando
aveva la luna giusta, ci sguazzava anche in questa sua gracilità
fisica. Quando camminava dava l’impressione che a tenerlo
all’impiedi e ben assemblato fosse il vestito che aveva indosso più
che u tilaru. Fin dal primo autunno indossava un
impermeabile color ghiaccio che teneva strettamente allacciato alla
vita e che smetteva a primavera inoltrata (la solita malalingua
insinuava il sospetto che dentro le tasche di questo indumento
tenesse dei piccoli mazzacani per evitare fenomeni di
“levitazione”, in caso di folate di vento).
Da ragazzo aveva fatto l’apprendista
calzolaio (il padre era un grande lavoratore, un mastro d’ascia
rinomato); poi si mise in proprio, sotto casa sua, in via G. Italia,
in un buco di un metro e mezzo per due; tanto era ristretto questo
“atelier” che quando capitava di tanto in tanto qualche cliente,
costui non entrava dentro ma si fermava davanti la porta a vetri,
sulla soglia, per mancanza di spazio. Poi preferì lavorare con le
carte e stare con le mani pulite: in primis con le carte da
gioco e poi a tempo perso con le pratiche che la gente gli affidava
per sbrogliarle: contributi non versati, infortuni, pensioni di
invalidità e vecchiaia, consulenza del lavoro; era anche il
referente locale del patronato della Uil, lui socialdemocratico
saragattiano e sostenitore sfegatato di Lupis e di Scalorino.
Prima però era stato monarchico e
sostenitore del principe Alliata, diventato poi senatore. Quando
durante la campagna elettorale il principe venne a Palazzolo per
presentarsi e fare un comizio presso la sede del partito, don Ciccinu
per una battuta pesante di uno dei presenti, nei suoi riguardi,
scatenò il finimondo. Avvenne che, proprio quando il candidato
comiziava e sviscerava tutti i dettagli del suo nutritissimo
programma politico, bla… bla… bla… bla…, il
Nostro, con la sua vocina sottile, chiacchierava imperterrito con
questo e con quello. Ad un certo punto l’oratore, infastidito,
sbottò: “Ma insomma, chi è che disturba?”. “E’ lui, Cicciu
Iattaredda, lo scheletro della monarchia” rispose strafottente
uno dell’uditorio e segnò a dito il disturbatore. Apriti cielo.
Successe un parapiglia. Don Ciccinu si incazzò in malo modo.
Schiumava di rabbia, dovettero trattenerlo (per sua fortuna) per
evitare che facesse sfracelli.
Era anche megalomane quando minacciava.
Una volta in un altro alterco (ma ne aveva sempre, a ogni piè
sospinto) al rivale, un omone grosso e robusto, gli mostrò il suo
pugno spolpato e glielo avvicinò alla carotide destra: “U viri
‘stu pugno?” - gli disse - “Ti trasi ri ccà e ti niesci
ri ddà!”. Era fatto così, rispettava gli altri ma
prima voleva essere rispettato lui, altrimenti diventava vendicativo
in modo esagerato. Un’altra volta minacciò addirittura di fare
saltare in aria il locale in cui aveva avuto un diverbio alle carte
con un socio.
Era veramente assai liccu del
gioco delle carte: ramino, scala quaranta, baccarat, chemin. Stava
intere giornate a giocare presso il “Circolo degli universitari”
o al bar del Bossu, in piazza. Seduto, con la immancabile
sigaretta in bocca, accompagnata da colpi di tosse che gli facevano
uscire gli occhi dalle orbite, spiegava le carte e ventaglio nella
mano sinistra esangue e con l’altra, altrettanto esangue, ad una ad
una incominciava a sfagliarle. Era fortunato ma aveva anche abilità
e furbizia. Con le sue gambette magre magre e striminzite quando si
sedeva poteva permettersi il lusso di assumere una postura da
contorsionista da circo equestre: si attorcigliava le gambe su se
stesse, due tre giri… In quella posizione, con le calze slabbrate e
ricadenti che lasciavano scoperte le caviglie spelacchiate, grosse
quanto quelle delle sedie, stava ore ed ore intento al gioco. Se poi
c’era qualche pollo da spennare, e lui micragnoso com’era aveva
fiuto in certe occasioni, restava imbalsamato, con le ossa del culo
incollate alla sedia, per intere mezze giornate.
Era sicuramente dotato di una certa
intelligenza, però il più delle volte la utilizzava in modo
diabolico, perverso, tanto che qualcuno gli appioppò l’epiteto di
“genio del male”. C’era della ruggine con il cassiere del Banco
di Sicilia. Nel momento in cui capitò che don Ciccinu doveva
incassare una certa somma, pretese, ben sapendo che il cassiere non
poteva rifiutarsi, di essere pagato in assegni da 100 lire. Per
quella mattina la Banca (c’era solo quella a quei tempi a
Palazzolo) lavorò solo con lui e il povero cassiere dopo aver
firmato cento, duecento assegni da 100 lire, rimase per tutto il
giorno con la mano destra anchilosata. C’era della ruggine con i
carabinieri. Era tempo di elezioni. E Lui come esponente locale del
P.S.D.I., per creare problemi al maresciallo sapendo che era a corto
di personale, per l’ultimo giorno di propaganda elettorale chiese
l’autorizzazione di potere comiziare in piazza Umberto all’ora di
punta, in contemporanea quindi con uno dei tanti dei comizi che si
tenevano nella centrale piazza del Popolo. All’ora stabilita
erano presenti solo cinque persone, compreso l’oratore e i due
militari di servizio, ma don Ciccinu imperterrito e tutto
soddisfatto tenne duro fino all’ultimo!
C’era della ruggine con…
1 commento:
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