“Siddu sordi vi truvati / ‘ntra li causi o la giacca /
sugnu certi c’accattati / storii e dischi di Busacca”.
Palazzolo Acreide. Cantimbanchi erano chiamati i cantastorie mestieranti
quando, fin dal XIV secolo, su una panca a mo’ di palcoscenico, cantavano e
narravano nelle piazze e per le vie storie dal contenuto prevalentemente
cavalleresco ma anche storie popolari, episodi della vita dei santi, ecc.
Con
il passare del tempo i cantori fedeli alla tradizione delle “Chansons de
geste”, cioè agli argomenti epico-cavallereschi, in Sicilia prendono il nome di
contastorie: lavorano in un posto
fisso e declamano solo in siciliano; i transfughi, i cantastorie veri e propri,
abbandonato Rinaldo e Orlando, si assunsero il compito di informatori del
popolo cantando e recitando in ottave (è il loro modo narrativo proprio)
vicende d’amanti, satire, azioni banditesche, avvenimenti e scene della vita di
tutti i giorni. Questi personaggi assolvevano ad una importante funzione
“culturale”, non solo come informatori ma anche vendendo le storie stampate su
fogli volanti o in libretti popolari. Girovaghi e con la chitarra a tracolla
sino a qualche decennio fa imperversavano in tutte le piazze siciliane e non
solo.
I contastorie
e i paladini di Francia
In
Sicilia, quello del contastorie era
un mestiere a tutti gli effetti, col quale, specie i ciechi, orbi, (a Palermo nel 1661 costituirono
una congregazione) trovavano modo di campare. All’aperto nei pomeriggi
d’estate, d’inverno in luoghi chiusi, narravano le imprese eroiche dei paladini
di Francia.
Con
voce altisonante per quasi due ore facevano intensamente rivivere le
leggendarie gesta dell’epoca cavalleresca. Il loro era un declamare concitato,
retorico, pieno di pause sapienti, di suspense; le braccia, le gambe, tutto il
corpo in una intensa mimica gestuale prendeva parte al racconto “…il contastorie coi movimenti degli occhi,
della bocca, delle braccia, de’ piedi, conduce i suoi personaggi, li presenta,
li fa parlare come ragione vuole… in tanta concitazione egli dà un passo
addietro, un altro in avanti… gli occhi si spalancano, le nari si dilatano…”
(Pitrè, 1888). Attorno, un cerchio di gente seduta, tutta assorta ad ascoltare,
incantata, con i brividi nelle ossa.
Nelle
città c’erano uno o più posti fissi dove il contastorie
si esibiva nel suo repertorio epico. A Siracusa il luogo di aggregazione era
vicino alla Marina, lo stesso a Catania, alla Marina, sotto il seminario
arcivescovile. Era questo il ritrovo per l’appuntamento quotidiano con i
fedelissimi uditori: “Allura Orlanto
palatino jsa cu li du’ mano la so’ trullintana!…” E’ l’incipit della storia
che Martoglio, nel suo Centona
(1938), mette in bocca al contastorie
del tempo che si esibisce nei pressi della piscaria.
Interessante la nota in calce dell’autore: “Fino a pochi anni fa in via Dusmet,
sotto il Seminario arcivescovile addossato alle vecchie mura della città di
Catania, i contastorie attorniati da un circolo di sedie, prese in fitto da
appassionati ascoltatori, declamavano enfaticamente le epiche gesta dei
paladini di Francia, alcuni accompagnando con passi smisurati ed un’azione
grottesca la calorosa narrazione…”. Gli eredi di questa generazione di contastorie “cambiato locale, si son
dati a leggere (!) all’uditorio assai più colto (!!) dei vecchi romanzi
criminali; adattandosi alle esigenze moderne”. A tal proposito, chi scrive
ricorda perfettamente di avere casualmente assistito negli anni ’50, presso la
villa Bellini, ad una di queste narrazioni medievali.
I cantastorie e i fatti successi
La tradizione dei
cantori girovaghi è invece andata avanti con alterna fortuna fin quasi alla
fine degli anni Sessanta. I cantastorie battevano tutte le contrade dell’isola.
Arrivavano nelle piazze e, sistemato il cartellone con le sequenze logiche
della storia da cantare sulla loro automobile, incominciavano a pizzicare la
chitarra. Ai primi accordi la gente incominciava ad avvicinarsi e via via si
formava un vera a propria folla di ascoltatori-spettatori: “Cari amici stati attenti / c’è Busacca pi cantari / mentri tutti li
prisenti / lu cartellu a tà vardari. / Nntra un paisi picciriddu / ca si chiama
Boncuzigghiu/ c’abbitava don Turiddu / ccu so mogghi e ccu so figghiu…”. Il
cantastorie, accompagnandosi con la chitarra, evocava e cantava il fatto e
nello stesso tempo con una bacchetta indicava la scena illustrata nel
cartellone.
Il pubblico, di
varia estrazione sociale, ascoltava tutto assorto e suggestionato e lasciava
gli occhi al cantastorie. Costui diventava il protagonista della storia che
raccontava, un vero affabulatore. La riuscita della rappresentazione oltre che
alla voce e alla mimica era affidata ad una intensa carica espressiva capace di
suscitare pathos e immedesimazione nei presenti. Un reality show recitato da
una sola persona dalle cento voci e dai mille gesti. Fatti successi dunque, e
miti e leggende. Storie di fanciulle sedotte e abbandonate, di sopraffazioni
dei potenti, fatti di sangue, di gelosia, di tradimenti. Storie del duro lavoro
dei campi, delle fabbriche, della religiosità. Storie di santi e briganti. Ecco
alcuni titoli a scopo esemplificativo: Pintimentu
di na matri, La mala maritata, Li du cumpari sciampagnusi, Lu bastardu, Siti
d’amuri, La Storia di Turi Giulianu, San Giorgiu, ecc.
La strofa di
chiusura era quasi sempre in chiave commerciale: “Siddu sordi vi truvati / ‘ntra li causi o la giacca / sugnu certi
c’accattati / storii e dischi di Busacca”. Lo stesso cantastorie, quindi, o
la moglie o il collaboratore subito dopo l’esibizione passava tra il pubblico
per raccogliere le offerte e per vendere i fogli volanti del dramma o il disco.
Il cantastorie citato, a Palazzolo, si piazzava all’inizio di via S. Sebastiano
a sinistra. “La storia di Turi Giulianu” da lui scritta e cantata ebbe un
enorme successo; altrettanto dicasi per la vendita dei dischi (ne occorsero ben
otto per incidere tutta la storia) al prezzo di £ 500 cadauno.
I più conosciuti
Tantissimi sono i
cantastorie siciliani che hanno conosciuto una meritata fama e che sono stati
ascoltati nelle piazze di tutta la Sicilia. Alcuni sono stati solo poeti,
autori dei versi che affidavano ai cantastorie più famosi e più bravi: è il
caso, fra gli altri, di Ignazio Buttitta che comunque non disdegnava di recitare
in prima persona e di Turiddu Bella che affidava i suoi testi soprattutto ad
Orazio Strano. Altri erano autosufficienti: scrivevano il testo, componevano la
musica, e giravano in lungo e in largo con un’auto sgangherata.
Detto subito che
Paternò e Riposto sono i due centri del catanese che vantavano un nutrito
numero di cantastorie, oltre a quelli già menzionati ne citiamo ancora qualcun
altro: Pietro Parisi, Paolo Garofalo, Vito Santangelo, Gaetano Grasso, Michele
Calabrò, Ciccio Rinzinu Pietro Raciti, Gioacchino Tomaselli, Andrea Reale, Nonò
Salamone, Franco Tringale. Quest’ultimo, negli anni ’60, si esibiva anche in
piazza Duomo a Milano cantando fatti di cronaca, denunce, satire, parodie,
storie, ballate.
I cantastorie oggi, cambiati costumi e abitudini, non sono scomparsi ma
si sono rarefatti: tentano di stare al passo con i tempi, cercando nuovi
sbocchi e provando nuovi stili e nuovi testi. A posto dei foglietti volanti e
dei dischi dopo, oggi dopo l’esibizione dal vivo, affidano il loro repertorio e
la loro immagine ai mezzi audiovisivi.
IL CORRIERE
DEGLI IBLEI, novembre 2007
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