Aveva il viso cereo e tondo come quello di un Gesù
bambino, ma l'offesa più grave che gli si potesse fare era quella di
apostrofarlo col nomignolo di Bamminu!
Nel sentirsi chiamare così usciva fuori da gangheri e incominciava a sfagliare
come un mulo.
Cieco dalla nascita, Pippinu, classe 1927, sin da piccolo si sforzò di vivere una vita
regolare, a dispetto della sua gravissima menomazione. Ancora c’è qualcuno che
se lo ricorda, ragazzino, fare i giri sul monopattino per le strade del suo
quartiere, ancora non intasate dalle auto.
Alto, ben piantato, con una fronte larga e la
faccia pallida e punteggiata da lentiggini rossicce come il colore dei pochi
capelli tenuti nascosti da una scuzzittula
blu. Gli occhi cerulei, senza sguardo, spenti dentro le palpebre semichiuse e
un sorriso dolente sulle labbra. Era un timido dal carattere forte, spigoloso,
a volte diffidente e fieramente aggressivo.
La chitarra gli fu amica fedele,
inseparabile; gli fece assaporare, insieme agli amici, momenti di gioia e di
relax, ma gli fu anche di grande aiuto nel fargli superare il fanciullesco
disarmo che portava nel cuore e i tanti momenti critici della sua tribolata
esistenza.
Fu il cappuccino padre Ruggero a dargli la
prime lezioni, poi imparò meglio sotto la paziente guida di don Paolino
Moscuzza, falegname, musicante e costruttore di violini. La bottega di questo
artigiano fu una delle "basi" (così le chiamava Pippinu) in cui trascorreva i tanti spezzoni della sua lunghissima
giornata. Le altre basi dislocate per ovvi motivi in posti vicini alla sua casa
di via Garibaldi, erano il salone di via Carceri, l'officina del biciclettaio
don Pippinu, il negozio autoricambi
di Bordieri, la falegnameria di don Pippinu
Amenta. Il "quartiere generale", per tacito assenso, era fissato
presso il salone dell'amico e compare di cresima Mariuzzu al n. 26 di via Roma contiguo alla abitazione di Pippinu sita al n. 22 della stessa via.
Dentro, in casa, stava incollato
alla radio, morbosamente, per ore. Questo mezzo era una finestra aperta che, in
modo puntuale, lo teneva informato sui fatti e gli eventi che accadevano in
Italia e nel mondo e lui, mangiapreti e comunista convinto e accanito com'era
(la bandiera rossa fu il grande amore della sua vita: “Vento, vento, portami a
sinistra” era solito dire nei suoi frequenti e sofferti momenti di riflessione
politica ed esistenziale) prediligeva soprattutto i fatti politici, dai quali
poi traeva spunto per alimentare i suoi pensieri e trarre le sue conclusioni.
L'altra finestra, un finestrone spalancato,
era il “quartiere generale”. Era lì che trascorreva la maggior parte del suo
tempo. La bottega del barbiere, tra una rasatura e una sforbiciata, era (e
ancora oggi è) il canale mass mediatico
privilegiato per la diffusione e la conoscenza, in anteprima, di
notizie, curiosità e pettegolezzi: una specie di cassa di risonanza di tutto
quello che accade in paese e anche fuori. Qui Pippinu, tenendo la bocca
aperta per meglio concentrarsi, meditava, si ispirava e creava muttetti e sturnelli. Seduto in un angolo, con la chitarra sulle gambe e il
mento sul petto, stava ad ascoltare le notizie di prima mano più scottanti ed
intriganti che venivano propalate a getto continuo dagli avventori sotto il
rasoio o in attesa o bivaccanti. Poi, prima iniziava a labbreggiare, a
biascicare, quindi prendeva la chitarra e abbozzava delle strofe in chiave
satirica sulla parodia di motivi di successo e poi, a richiesta, continuava con
un corposo pot-pourri del suo vastissimo repertorio d’annata.
Prima di esibirsi, però, con fare
guardingo e ammiccante, chiedeva agli amici: "Cu c'è? cu c'è?". Avuta assicurazione - a volte
deliberatamente mendace: “maria maria
maria, maria…” diceva tra sé e sé, a mezza voce, tra lo spaventato e il
pentito se subdorava presenze aliene
- che tra i presenti non c'erano i
bersagli delle sue pungenti frecciate incominciava a pizzicare la chitarra e a
canticchiare con la sua voce
un po’ stentorea, miagolante, di
consunto 78 giri:
"E a Palazzuolu c’è lu nuovu duci
ca vo’ continuari la dittatura
e guai a ccu nun mmota ppi la cruci
li fa pigghiari a tutti ri paura…
Nesci u rospu ogni cinc'anni
e sbara a ucca ranni ranni
e lu populu picuruni
vota sempri ppi Scagghiuni”.
***
“...Tutta a gghienti ni parra a tuoccu.
e chista è la storia di patri Zoccu
E si purtau i soddi ra festa.
Fussi cosa i scippàrici a testa...”
***
“…Cu
canusci a Turuzzu Lamparina,
ca fa allustru sira e matina.
E
nta la testa è senza capiddi
Si ppassa ri notti, pari ca cci su’ i
stiddi…”.
***
“…U
massaru Turi Zuonica dutturi ‘n ciarmaria
unni viri culuorivi ci manna u fuogghiu i via.
S’a mmisu ‘n currispunnenza cco ciaraulu i
Buccheri,
ca
chiddu è cciù sapienti ri stu gran mistieri…
Nun
mmoli ca ‘nto curtigghiu ci vanu li iaddini,
masinnò
cu lu prullazzu c’infettunu i miricini.
Sapiti
unni si cucca? Supra ‘n saccu ri pagghia.
la
visazza ro frummeri la usa ppi tuvagghia…”.
***
“…Cci
nne ca c’anu i gghiucchi pi’n siri canusciuti
ccussì
poi nun si sapi cu su’ tutti i curnuti…
C’è
cu ci teni a cannila, c’è cu ci teni a lanterna,
sti
cosi sunu ammessi all’epuca muderna…
Cu
abballa ‘nta li sali, cu abballa a lu Cumuni
Cu
l’aria ca puzza ri tuttu lu biccumi...”.
***
“…Siccau,
siccau, siccau la pampinedda…
e
fici a fiura ri pulicinedda…”.
***
“Don
Pippinu… travagghia ‘nfretta, ‘nfretta
ma
mmentri so’ viriti è sempri ‘n bulletta.
E’
veru ca a matina si susi e siei e menza
ma
poi pi fari a spisa accatta tuttu a crirenza.
Iddu fa puorti e muarri
E così di questo passo, per ore, per mezze giornate. La sera, quando si smetteva di lavorare presto, la barbieria diventava anche ritrovo per gli amici e “scuola di ballo” per i più giovani. Fatto spazio al centro della stanza, si dava corda alla "macchinetta parlante" e si ballava, tra maschi. Se per caso era già rincasato e qualcuno lo chiamava con le nocche sulla porta: “Toc, toc!”, Pippinu entrava subito in agitazione ed in preda ad un incipiente furore rispondeva: “Nun mi fanu sciri… nun mi fanu sciri…” (la sorella, una volta rincasato non voleva che uscisse). Al secondo o al terzo tentativo l’amico gli lanciava la parola d’ordine: “Asse asse!”, (in riferimento all'intesa Roma-Berlino). Al sentire queste parole, Pippinu rispondeva pronto e veloce: “Resistenza… resistenza… resistenza!” e schizzava subito fuori, dopo essersi ferocemente scontrato con la sorella, risoluto a cantare, a suonare e a divertirsi assieme agli amici. Suonava pure il banjo e l'armonica a bocca che teneva gelosamente custoditi dentro una cascittina di compensato nascosta sotto il letto.
E così di questo passo, per ore, per mezze giornate. La sera, quando si smetteva di lavorare presto, la barbieria diventava anche ritrovo per gli amici e “scuola di ballo” per i più giovani. Fatto spazio al centro della stanza, si dava corda alla "macchinetta parlante" e si ballava, tra maschi. Se per caso era già rincasato e qualcuno lo chiamava con le nocche sulla porta: “Toc, toc!”, Pippinu entrava subito in agitazione ed in preda ad un incipiente furore rispondeva: “Nun mi fanu sciri… nun mi fanu sciri…” (la sorella, una volta rincasato non voleva che uscisse). Al secondo o al terzo tentativo l’amico gli lanciava la parola d’ordine: “Asse asse!”, (in riferimento all'intesa Roma-Berlino). Al sentire queste parole, Pippinu rispondeva pronto e veloce: “Resistenza… resistenza… resistenza!” e schizzava subito fuori, dopo essersi ferocemente scontrato con la sorella, risoluto a cantare, a suonare e a divertirsi assieme agli amici. Suonava pure il banjo e l'armonica a bocca che teneva gelosamente custoditi dentro una cascittina di compensato nascosta sotto il letto.
ma mai ‘na vota si viri o bar…”.
Poi rivolto al compare Mario: “ Cumpari macari pi bbui cci nn’è”:
“Mariuzzu
s’ha fattu a cascittina nova
ca
pari c’a gghiri a ccattari ova…”.
Pippinu esigeva di essere trattato come gli altri,
rispettato e compreso, senza pietismi e senza infingimenti. E tale lo
trattavano gli amici anche quando, col sangue che gli frizzava per le vene,
mostrava il desiderio ardente di fare una passeggiatina distensiva e
terapeutica dalle parti di Villarosa e dintorni. Gli amici lo accompagnavano
ben volentieri, altrimenti, e a buon diritto, il poveretto si spazientiva e
smaniava incominciando a rugliare e a muoversi come una mosca senza testa.
Partito in Venezuela Mariuzzu, il compare barbiere, Pippinu
si aggregò ad un compagnia di giovani, fatta tutta di sciuscialuori (o vardioli che
dir si voglia, i residenti cioè del quartiere Guardia) come lui, che
incominciarono a scarrozzarlo a destra e a manca facendogli rivivere una
seconda giovinezza. Si andava a mangiare nei locali, nelle taverne grasse dove
veniva magnificata la carne, succulenta di intingoli e di salse piccanti. E
lui, pur sconoscendo la pasta, a tavola si difendeva ottimamente con tutto il
resto.
Diventò perfino appassionato di
calcio e tifoso del Palazzolo, andando dietro agli amici della nuova comitiva: Cesare, Faccibedda, Pilurussu, Masciddazza, u Tauru ra Furbedda, Manulurdi,
Para para, Zampa, ecc,. Seguiva l’andamento della partita eccitandosi
all’eccitazione dei tifosi e facendo puntualmente il controcanto a tutte le
male parole contro l’arbitro.
Anche al cinema se lo portavano i
giovani amici, e lui tutto assorto, col mento appoggiato al bastone, attraverso
il sonoro riusciva a seguire il film sino in fondo. Quando in alcune scene
d’amore si raggiungeva l’acme e al parlato si inframmezzavano eloquenti
silenzi, sull’istante Pippinu
chiedeva ansiosamente: “Chi stanu faciennu?… chi stanu faciennu?…”. “Si stanu vasannu!” rispondeva
l’interlocutore preso anche lui, e Pippinu
sempre più eccitato e incalzante: “E comu
si stanu vasannu?…comu si stanu vasannu?…Comu? Comu?”.
Ma, l'acqua era l'elemento che lo faceva
effettivamente sentire uguale agli altri. Quando i
quattru cagnulazzi ra Vardia se lo
portavano a Fontane Bianche, in acqua Pippinu
si sentiva libero, leggero, sicuro finalmente. Ogni volta prima di mettersi
ammollo, però chiedeva all’amico che gli stava accanto: “Com’è u mari?… com’è u mari?”.
“Raaanni… raaanni…” gli rispondeva
l’altro. “Ri sti cosi mi scantu…ri sti
cosi mi scantu…” replicava Pippinu,
piagnucoloso, con la esse strisciante, a mezza lingua. Poi una volta in acqua,
bello atticciato, con la pelle eburnea costellata da una miriade di lentiggini,
superata la prima fase di irresolutezza che gli imponeva la sua condizione di
cieco, iniziava a muoversi senza impaccio e senza paura, si esaltava anzi;
l’acqua gli dava un senso di felicità, lo rigenerava, gli procurava una
contentezza tutta fanciullesca.
Poi il poveretto fu colpito da paralisi e non
poté più suonare la chitarra, né muoversi come prima: entrò in grave
depressione. Nei primi anni ‘80, fu ricoverato presso la “Casa del cieco” di
Civate, sul lago di Como, ma non si riprese più né dall’emiplegia né dalla
depressione, anzi invecchiò di colpo, tormentato anche da uno struggimento
indicibile per non potere tornare al suo paese, a Palazzolo, con i vecchi
compagni: “A Palazzuolu, a Palazzuolu!” ripeteva
a quegli amici palazzolesi che ebbero l’occasione di andarlo a trovare presso
la “Casa”, e li braccava con tutta la forza che gli era rimasta, non li
mollava, si avvinghiava disperatamente singhiozzando. Si spense in una fredda
giornata di dicembre di una decina di anni fa con questo cocente desiderio che
gli moriva sulle labbra: “A Palazzuolu… a
Palazzuolu…”.
Al suo amico Cesare, Pippinu, prima di partire per Civate,
regalò la chitarra, il suo bene più prezioso; nel frattempo era riuscito ad
insegnargliela come l'avevano insegnata a lui, da non vedente.
1 commento:
A causa del COVID-19 ho perso tutto e grazie a dio ho ritrovato il mio sorriso ed è stato grazie al signore Pierre Michel, che ho ricevuto un prestito di 65000 EURO e due miei colleghi hanno anche ricevuto prestiti da quest'uomo senza alcuna difficoltà. È con il signore Pierre Michel, che la vita mi sorride di nuovo: è un uomo semplice e comprensivo.
Ecco la sua E-mail : combaluzierp443@gmail.com
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