Carnagghi, sangunazzu, a zuccata ri natali, a cucciaredda
"A
nuvena, a nuvena … a nuvena, a nuvena …". Alle cinque del mattino, al
primo rintocco, i ragazzi balzavano giù dal letto, assonnati e affreddati, e giravano di porta in porta per annunciare la novena che precedeva la messa dell'alba. Le chiese, all'alba, si gremivano trent'anni fa.
Molte sono le
tradizioni natalizie che ancora resistono e trovano larga diffusione in Sicilia
e che, pur diverse da luogo a luogo, danno un aspetto, un "sapore"
caratteristico alla festività. Le più solide e radicate sono quelle
gastronomiche, e non solo per una esigenza di godimento materiale, ma anche per
il ,desiderio di incontro con gli altri, per cui, il banchetto acquista un
significato di affratellamento e di amicizia.
I carnagghi e
il porco
Con l'approssimarsi
del Natale, nei centri agricoli c'era la consuetudine da parte dei fittavoli di
portare i carnagghi al padrone. Era questo, un uso molto antico
esteso a tutta la Sicilia che si rispettava puntualmente anche per le feste di
Carnevale e di Pasqua e a chiusura della stagione agricola. Le appendizie
dovute al padrone, erano previste nei contratti agrari stipulati con i
gabelloti; in genere erano costituite da capretti, polli, formaggi priminticci
, ricottelle, uova, retoni di paglia frumentina, cofini di fichi d'India, e così via.
Altra tradizione
natalizia, peraltro ancora in uso sia nelle famiglie contadine e sia in quelle
borghesi, era quella del porco, del porco nero: lo si ammazzava e lo si
magnificava! Per evitare spiate e per non pagare il dazio, l'olocausto si
compiva clandestinamente e con la complicità delle tenebre.
Si legava l'animale
per le zampe e si cercava di immobilizzarlo su una specie di tavolo sacrificale
approntato con dei trespoli e una porta vecchia. Trafitto alla gola l'animale
iniziava a mugghiare e a sgriddare a
più non posso; tutt'intorno c'era il ballo di S. Vito: chi lo teneva, chi
raccoglieva il sangue zampillante, chi attizzava la brace, chi lo scaurava e chi lo "spilava" dando a raschiare
la cotenna con il coltello.
Sventrato, veniva
fuori, ancora fumante, tanta grazia di Dio da far confondere. Poi si squartava
e si dividdeva in "minzini",
due o quattro.
U sangunazzu
Il sangue,
insaporito con latte, un po' di zucchero, prezzemolo, noci pestate e pepe nero,
e insaccato dentro il cularinu, si
metteva a bollire e diventava squisito mallegato (sangunazzu). Le interiora, arrostite alla brace, si trasformavano
in prelibati bocconcini da consumare subito, oppure, sposate a tenere
cipolline, si trasformavano in succulente padellate, delle quali in breve tempo
non rimaneva nessuna traccia.
I minzini, a seconda della parte anatomica di provenienza,
diventavano salsiccia pepata rossa e impastata con vino e finocchietto, lardo
salato pepato nero, pancetta, gelatina, strutto, insomma tutto ciò che è
possibile rimediare dal maiale.
A zuccata ri
natali
Un'altra tradizione
popolare diffusa nell'isola, era quella di bruciare il ceppo (u zuccu), nella notte della vigilia, sul
piazzale delle chiese. A Palazzolo, nelle case contadine all'imbrunire dello
stesso giorno, si preparava a zuccata ri
Natali. Dentro il braciere, all'aperto, si accendeva una bella cuncata ri luci, poi, quando le vampe
incominciavano ad acquietarsi, si portava dentro. Attorno a quel turibolo
ardente, si riunivano la famiglia e i parenti più stretti in attesa della
Natività: era un rito "sacrale" che si rinnovava immancabilmente ogni
anno.
A cucciaredda
Si cenava di prima
sera con pietanze a base di baccalà e con 'mpanate
a base di broccoli e aìti (bietole
selvatiche) arricchite con pezzetti di salsiccia piccante, e poi, mentre le
donne erano intente a friggere le crispelle
da consumare calde calde con lo zucchero o intinte nel miele (caldo
anch'esso), si stava attorno alla zuccata:
si spiluccavano lupini, si mangiucchiavano patate e pere succiarduna cotte nella cenere, si
giocava a carte, si beveva, si chiacchierava. La brace doveva durare sino
all'alba. Con questo si voleva significare, secondo l'antica simbologia
popolare, che il cristiano intendeva riscaldare il Santo Bambino appena nato.
Era un atto di amore e di fede.
"La gente volgare dà un panuccio bislungo
spaccato nelle estremità nelle feste del bambino… detto volgarmente cucciaredda
…", questo annotava nella sua
Selva, verso la fine del secolo scorso, P. Giacinto Farina da Palazzolo. E pure
questa era una tradizione natalizia assai diffusa nell'area iblea e in tante
altre zone dell'isola. Ne ha ampiamente scritto anche Antonino Uccello.
Si tratta di un pane
figurato, simbolico, risultante dalla congiunzione di due mazzi pani e guarnito
in superficie con nocciole intere. Veniva regalato ai bambini, e alle suocere
se ne destinava una forma più grande. Tale tradizione non è scomparsa del
tutto, anzi da un paio di anni, a Palazzolo un forno pubblico s'è messo a
panificare e a sfornare cucciareddi per
tutti coloro che hanno voglia di fare un tuffo nel passato
CAMMINO, settimanale diocesano, 25 dicembre 1994
N.B. La
salsiccia tradizionale di suino nero di Palazzolo, dal mese di novembre 2016, è
diventata Presidio Slow Food.
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