Aveva iniziato curando le bestie,
finì con il curare le persone; nel giro di qualche anno, don Paolo, da semplice
contadino divenne un guaritore assai apprezzato e conosciuto nella nostra zona
e oltre. Lo chiamavano u Prizzaturi
per il mestiere esercitato dal bisnonno il quale, oltre che a fare il contadino
anche lui, aveva fatto pure lo stimatore, prizzaturi,
di terreni, case e animali.
Fin da giovane, don Paolo aveva avuto il pallino di
curarsi da solo gli animali della sua masseria di contrada Saraceni, a pochi
chilometri da Palazzolo: cataplasmi di pale di fico d’India per gli ematomi;
impiastri di radici di asfodelo, purrazza,
per le piaghe verminose; salassi e applicazioni di rariciedda al petto dell’animale sofferente di polmonite; u pilurrussiedu (erba con forte potere
emostatico), per le ferite, e così via.
In seguito, l'amicizia e la
frequentazione con la Quararàra - la
fattucchiera-cartomante che operava
nella stessa contrada - furono certamente decisive. Generosa com'era, forse la
signora Angelina gli mise nelle mani qualche vecchio trattato di erbe e di
medicina popolare, oppure lo mise a parte di qualche segreto del mestiere,
fatto sta che don Paolo, ben presto, si fece un nome come miericu degli animali, con buona pace dei veterinari con tanto di
laurea in cornice. Inoltre, il “fluido” di cui sentiva di essere dotato, era
medicamentosa panacea per le povere bestie infettate.
"Eravamo quattro fratelli - raccontava
il fratello Vincenzo (buonanima anche lui), per chiarire a modo suo
l’ereditarietà del “fluido”, inteso come energia capace di trasmettere ad altri
la propria volontà - e tutti e quattro, nascendo, siamo stati dotati di una
specie di fluido "elettrico", che, mettendolo a contatto per mezzo
delle mani con la parte malata, fa prendere la "scossa" al
"veleno" e lo fa ritirare. Mio fratello Paolo - assicurava don
Vincenzo - questo potere lo aveva sviluppato al massimo grado".
Sul finire degli anni '60, u massà' Paulu - così era chiamato e
conosciuto - decise di fare il salto di qualità: abbandonò gli animali per
dedicarsi alle persone malate ma fiduciose nella potenza della medicina
alternativa, fatta di erbe e di imposizioni delle mani. Sparsasi la voce, la
contrada fu presa d'assalto. Sino ad una ventina di anni fa, infatti,
percorrendo la Mare-Monti
per Siracusa lungo la trazzera che conduceva al caseggiato di don Paolo, a
circa quattro chilometri da Palazzolo, si poteva notare una interminabile
teoria di macchine in sosta. Pazienti e congiunti, fin dalle prime luci
dell’alba, bivaccavano pazientemente in zona speranzosi di essere ricevuti e
visitati. E lui era capace di diagnosticare anche dando un solo colpo d'occhio
al paziente, gli bastava, s’era fatto l'occhio clinico.
Quando qualche mamma in pena, gli
portava la figlia affetta da ostinati mal di pancia e sensi di nausea egli
scrutava con la coda dell'occhio la “malata” in ambasce, e, sornione com’era,
rivolto alla madre pendente dalle sue labbra, dava il suo inappellabile responso:
"Niente di grave, tra qualche mese passerà tutto... ‘a picciuttiedda è solo incinta!". E non si sbagliava mai!
Aveva grande competenza su una
vasta sfera della patologia umana (ed animale, come si è detto). Imponendo le
mani e la saliva (quando era necessario) e pronunciando a mezza voce la formula
di rito, u Prizzaturi, ciarmava e faceva passare i colpi di
sole, u scantu, l'elmintiasi, l'ucciatura, il fuoco di S.
Antonio, i morsi di animali velenosi, (scorpioni, vipere), i mal di pancia
veri, ecc.; e quando l'affezione era particolarmente grave, erano obbligatorie
diverse sedute. Rimetteva a posto gli arti slogati, diagnosticava ernie,
calcoli, prolassi, ulcere, ingrossamenti della prostata, ecc.
Aveva conoscenza di un numero pressoché illimitato di
erbe officinali che lui stesso andava a cercare e a cogliere nella sua e nelle
campagne vicine, vere e proprie “farmacie del Signore” come tutta la flora
collinare dell’altipiano ibleo. In base alla malattia (reumatismi, micosi,
emorroidi, palpitazioni, allergie, sciatiche, dolori ai testicoli, affezioni
renali, debolezza nervosa, disturbi al fegato, eczemi, ecc. ecc.) prescriveva l'erba adatta da assumere o da
applicare, a seconda dei casi, sotto forma di pozioni, di decotti messi a
macerare coi vapori di vino rosso, di inalazioni, di infusi e di cataplasmi e
impiastri vari accompagnati dalla relativa posologia. E per trarre il massimo
profitto terapeutico bisognava rispettare alla lettera modalità di
preparazione, tempi e quantità delle dosi da assumere.
La clientela era vasta,
eterogenea e cosmopolita. Si dice che tra i suoi clienti u massà’ Paulu annoverasse molti professionisti di grido e medici,
delusi della medicina ufficiale e fiduciosi nelle miracolose virtù della
fitoterapia. E così, continuando a montare il flusso delle persone, fu
costretto a smettere di fare il contadino e smise pure di andare a raccogliere
personalmente le erbe per mancanza di tempo.
"Visitava" di notte,
per dodici, quattordici ore ininterrotte, seduto in un angolo, quello più buio,
a destra della porta: si intravedeva appena. Lo "studio" consisteva
in una piccola stanza imbiancata a calce viva senza finestre, con il tetto di
tavole e intanfata di fumo; poche suppellettili: un lettino, un tavolo
rettangolare al centro, qualche sedia impagliata da lui stesso, una trizza di spighe col fiocco rosso, delle
vecchie fotografie ingiallite e dei santini doviziosamente “ricamati” da
diverse generazioni di mosche; al suo fianco un grande portaombrelli metallico
sempre stracolmo di cicche: era capace di fumarsi tre, quattro pacchetti di
sigarette, nelle ventiquattro ore.
La figura e lo sguardo grifagno, ambiguamente
sinistro, di don Paolo, mettevano sicuramente in soggezione. E poi quella mano
destra, mutilata, con le due dita lasciate al fronte, assomigliava più a una
forca che a una mano, sembrava una chiave stringitubi! Era scuro di pelle,
magro, alto, il naso affilato, con degli occhi neri, nerissimi, intensi, e una
coppola nera; il viso allungato, olivigno, scavato da profonde rughe alle guance,
era adorno di un paio di baffetti che aumentavano l'alone di mistero e di
deferenza che lo circondava. Durante le sedute, infatti, diversamente dal
carattere allegro e mordace che mostrava quando era in compagnia, assumeva un
aspetto grave, quasi solenne; poche parole, dette lentamente, con delle pause
quasi calcolate, alla fine ti spiattellava la diagnosi in faccia come una
frustata, senza repliche, anche se si trattava di situazioni disperate, nel
qual caso aveva l'onestà di ammettere la sua impotenza.
A poco a poco, quasi senza
accorgersene, rimase avviluppato da questo ritmo di vita insostenibile e si può
dire che ne fu sopraffatto lui stesso. Mangiava una volta al giorno, molta
carne innanzi tutto, accompagnata da abbondanti bicchieri di vino; a volte
saltava perfino quest'unico pasto per concedersi una breve licenza, per andare
a caccia (era accanitissimo cacciatore), o per imboscarsi, quando a giorno
ormai inoltrato, continuava ad arrivare gente.
Rare volte veniva a Palazzolo e quando lo faceva era
principalmente per fare scorta di MS, da Corsino, quattro cinque stecche per
volta. Beveva molto caffè e fumava molto, fumava in continuazione, senza tregua
e alla fine si ritrovò "bruciato" dalle sigarette e stressato dal
lavoro, un “lavoro” diventato più faticoso del maneggiare la zappa e del
mungere le vacche.
La gente, per riconoscenza, anche
se u massà' Paulu protestava di non
pretendere alcunché (ed era sincero) gli regalava il ben di Dio: carne, vino,
olio, pasta, sigarette, caffè, bottiglie di liquore. Una volta un
"miracolato" rimasto sconosciuto gli fece trovare, in segno di
devozione, una grande statua della Madonna Immacolata, a pochi passi dalla
porta.
Un brutto giorno gli si incendiò
la casa e il terreno e don Paolo prese un grosso spavento, rimase scioccato.
Dopo qualche tempo incominciò a stare male e cadde gravemente ammalato. A
Palazzolo, nella sua casa di via Savoia n. 20 dove si era ritirato a causa
della malattia, la gente continuava a cercarlo, e lui, sebbene a letto e
tormentato da atroci dolori, non si negò mai, seguitò ad essere generoso di
consigli e di erbe. Poi non parlò più.
Si spense in una calda giornata estiva di una
ventina di anni fa; portandosi dietro i segreti dei suoi intrugli
fitoterapeutici e quell’alone di carisma e di mistero che per tanto tempo
l’aveva circondato e di cui aveva goduto.
1 commento:
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