"Annata r'aulivi si mangia e si vivi".
Dopo il frumento, erano le olive il bene più prezioso che i colli
Iblei offrivano ai contadini, occupati da novembre a dicembre, nelle semine e
nella raccolta delle olive da portare al frantoio.
Questo antico proverbio evidenzia
chiaramente la precarietà economica e quindi esistenziale della gente di
campagna, intimamente condizionata dalle buone o dalle cattive annate, dal sole
dall'acqua, da gelo, ecc. Una malannata... ed era miseria.
E, quando l'annata si prospettava
ricca, ripagava sì, della fatica già compita, delle ansie e delle attese,
sovraccaricava, però il contadino di tanto altro lavoro occorrente per la
raccolta e per l'eventuale trasformazione del prodotto.
Ma, se le olive erano preziose, scarsamente razionale,
era il sistema per l'estrazione dell'olio.
In Sicilia, l'elaiotecnica, nel periodo precedente il
secondo conflitto mondiale, era ancora affidata ad un gran numero di piccoli
trappeti, dotati di mezzi tecnici primitivi e a forza umana e animale.
A Palazzolo, per esempio, bisognerà attendere
l'immediato dopoguerra, per vedere in funzione il primo frantoio meccanico ad
energia elettrica. Si tratta del frantoio Sardo in ronco Giardina, alimentato
da un grosso generatore diesel che forniva energia anche all'omonimo cinema.
Negli antichi frantoi si possono
individuare sommariamente quattro aree: le celle, caminu, usate come deposito per le olive da macinare; il settore
dove sta la pila con sopra la macina, a trazione animale; l'area dove è
piazzato il torchio, u cuonzu, a
forza umana; a morti, una vasca in
muratura per fare decantare l'acqua di vegetazione (morchia).
I torchi più antichi erano in
legno a due viti. A cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, furono
introdotti gli strettoi in ferro a una vite, sempre a forza umana, ma dotati di
argano e in seguito con pompa idraulica, azionata, però, sempre a mano. Dopo la
guerra, come già detto, si ebbero i primi frantoi moderni alimentati ad
elettricità (a machina).
Anticamente erano molti i frantoi
in attività dentro i centri urbani, e altrettanto si può dire per quelli
diffusi nelle campagne, impiantati nelle grandi masserie, autosufficienti e
attrezzate per soddisfare le molteplici esigenze lavorative del mondo agricolo.
Ancora oggi questi frantoi, semi smantellati, con la
loro esistenza, sembra che vogliano rappresentare la memoria storica della
civiltà contadina, quando si viveva di stenti e di tribolazioni.
Andiamo ora un po' a ritroso nel
tempo ed entriamo, metaforicamente, in un antico trappitu per seguire le varie fasi di estrazione dell'olio, assai
laboriose e fortemente pervase di fatiche e di veglie.
Il frantoio, propriamente detto, è costituito da un
basamento alto circa un metro, leggermente concavo, con un diametro oltre i due
metri e mezzo: al centro una grossa mola disposta orizzontalmente. Su questa è
situata un'altra mola verticale, larga 120 cm circa, che girando su sé stessa, sfiora
la base. Queste enormi macine, sbozzate da grosse cianche (blocchi) di pietra lavica, provengono da Monte Lauro,
antico vulcano spento e cuspide più alta
degli Iblei.
Alla mola verticale è fissato un lungo braccio in
legno, minciazzu, a forma di arco, al
quale si aggioga il mulo (o l'asino).
Gli addetti al trappeto, tutti
assieme, prendono il nome di cumpagnìa,
che, quando è al completo, è formata da sette persone: u mastru ri pala, u mastru ri maidda, u mastru ri cuonzu e quattro nfanti
destinati alla sdanca (stanga) del cuonzu .
Nella realtà, la compagnia, quasi sempre, per i motivi
più diversi, è in formazione ridotta e allora ci si arrangia come meglio si
può: gli stessi produttori delle olive, nell'attesa, diventavano 'nfanti o altro, disponibili ad aiutarsi
a vicenda e a seconda delle necessità.
U mastru ri pala
U mastru ri pala è il responsabile che presiede ai lavori di
frangitura e di gramolatura delle olive, inoltre ha il governo della bestia e
il compito di raccogliere l'olio dal fuossu.
Versate le olive sulla fonta, il mulo
(con gli occhi bendati da occhiali di curina,
per evitare sbandamenti) incomincia a girare facendo ruotare la mola. Gira
sempre nello stesso verso.
U mastru ri pala, appunto, con la stessa rimette continuamente sotto la macina le olive che
tendono ad uscire e controlla che vengano frante uniformemente.
U maiddieri,
con l'apposita madia (un piccolo contenitore trapezoidale in legno), insacca la
pasta e la incoffa, cioè riempie le
coffe, recipienti simili a delle bugnole, rotonde e piatte, confezionate con
ampelodesmo (liama, tagliamani)
intrecciata (molti anni fa, le coffe in disuso venivano utilizzate come
stoini).
Le olive passano sotto la mola e
poi sotto lo strettoio per ben quattro volte. la prima infrantoiata viene dette
a pizzicatina, la seconda a sciddicatina,
la terza a macinatina, la quarta a 'ssiccatina.
Da quanto detto traspare già la laboriosità del
processo estrattivo e la grande fatica richiesta per ottenere il prodotto
finito.
A mano a mano che le olive
vengono ingabbiate, i 'nfanti, sotto
le direttive e il controllo del mastru ri
cuonzu, li incastellano sul torchio.
Nel frattempo u mastru ri pala provvede a far mangiare
la bestia: vicino alla pila c'è sempre una piccola mangiatoia con relativa staccia per legarvi l'animale.
Se c'è la possibilità u mastro ne approfitta per
schiacciare un breve pisolino.
Gli addetti al trappeto quasi sempre lavorano
ventiquattro ore su ventiquattro. Mangiano e dormono a turno dentro il frantoio
stesso, sfruttando momentanee pause.
Molte volte, quando sono vinti dalla stanchezza, dormicchiano
all'impiedi, senza accorgersene.
Sono pagati a macina (o pilata) che è l'equivalente di dodici tumoli tummuna, (kg 180 di olive), quindi sono direttamente interessati a far
funzionare il rudimentale trappitu alla
stregua di una catena di montaggio: per spremere una macina di olive occorrono
mediamente sei ore.
Lavoro pesantissimo dunque, che,
per i due, tre mesi di attività, esige vigorìa, forza di volontà e salute.
Murate le coffe (dieci, dodici), si piazza u taulieri (una specie di coperchio) sull'ultima, e, sopra u taulieri, si dispongono dei cunei.
Direttamente su questi ultimi poggia a
cianca suprana, una poderosa trave di quercia secolare, che, adagio adagio,
pressata da due madreviti a tre punte, scufini,
avvitate alle rispettive viti, pilera o virrini, sempre in legno, si abbassa sulle coffe.
U mastru ri
cuonzu
I cuonzi in legno sono dei manufatti costruiti da mastri d'ascia
locali, particolarmente esperti. Con grande maestrìa sono capaci di scolpire a
mano i filetti della vite e i corrispondenti controfiletti della madrevite a
tre punte, sbozzano le cianche e approntano tutto il necessario
per l'impianto del frantoio.
I scufìni vengono lentamente avvitati sulla trave orizzontale per
mezzo della sdanca, una lunga sbarra
di legno, che, con incalcolabili sforzi, viene fatta girare dai quattro 'nfanti, disposti a due a due, l'uno di
fronte all'altro: due spingono a forza di petto e due tirano a forza di
braccia.
U mastru ri cuonzu provvede a spostare a cuddura
(un robusto collare di corda di canapa che collega a sdanca alla scufìna), alternativamente, da una
madrevite all'altra, e, nel frattempo, controlla o ripristina la stabilità del
precario castello di gabbie, che, sotto il peso della cianca suprana, tende a inclinarsi o a crollare.
Lentamente, il caldo e benefico
umore incomincia a gemere e a lacrimare andando a finire nella lumera, un raccoglitore circolare,
scanalato, di pietra lavica, posto sotto il torchio.
L'olio, attraverso una
imboccatura, pisciaturi ri l'uogghiu,
va a finire dentro un recipiente circostante, ricavato sotto il livello del
pavimento e chiamato fuossu o stagnuni.
Contiguo ad esso si trova u stagnunieddu, un latro vano sempre
cilindrico, ma un po' più stretto: qui si infila u mastru ri pala per raccogliere l'olio dopo la quarta pressata
(ultima stritta).
L'olio, separandosi dall'acqua,
sale in superficie e viene raccolto con un boccale, cannata, e poi con la lumera,
una lucerna che funge da piatto.
L'acqua di risulta, rimasta in
fondo al tino, si travasa nell'apposita vasca di decantazione. Dopo qualche
giorno, sale in superficie l'ultimo olio, di qualità assai scadente, chiamato uogghiu ruossu (olio grosso): Allora si sagna (alla lettera: si salassa) 'a morti, cioè si fa uscire una certa
quantità di acqua dal fondo e si raccoglie l'olio salito in superficie.
Quest'olio verrà poi utilizzato per preparare dell'ottimo sapone di casa.
La sansa, sottoposta ad un
ulteriore trattamento in frantoi adeguatamente attrezzati, darà ancora altro
olio: quello di sansa, appunto.
Infine, la stessa, cotta a secco
in apposite fornaci, viene trasformata in un eccellente combustibile chiamato nuzzuliddu, ancora oggi usato, dalle
signore di una certa età, per alimentare i vecchi bracieri.
Il frantoio, oltre ad essere
luogo di lavoro è anche luogo di incontri, conciliaboli e discorsi i più
disparati, approssimativi, enfatici, banali.
Ecco cosa scrive Fortunato
Pasqualino in occasione della
"Inaugurazione del frantoio" nella Casa-museo di Palazzolo : " …il
trappeto ... era luogo denso di incontri, tanto che si usavano chiamare
'discursa di trappitu e di parmientu' certe discussioni a ruota libera, che si
pensavano là, dovuti all'euforia del luogo, dove lucerne e fantasie potevano
consumare olio a volontà, nelle attese della macina...".
In nome di Dio e di Maria
La tradizione orale delle classi
subalterne è ricchissima di canti o formule rituali propiziatorie, in uso
durante i lavori. Nel trappeto, ma non solo in questo, era consuetudine
iniziare a lavorare con la seguente invocazione: "In nome di Dio e di Maria, salute a tutta la compagnia...",
si continuava poi aggiungendo parole e versi adatti alla circostanza e al
luogo.
Sotto Natale, quando ancora i
frantoi degli Alti Iblei erano straripanti di olio e di olive, si cantava la
seguente ottava, metricamente poco ortodossa: "Menzanotti ri natali, / l'ancunìa re trappitari! / U mastru a pala ci
ricia: / -Mienzu cafisi n'am'a
pigghiari-. / U mastru ri cuonzu arrispunnia: / -Mienzu cafisu chi n-am-a fari?
/ Nuiautri cu l'uogghiu re massari / i
crispeddi n'am'a mangiari!". In verità bisogna dire che non sempre gli uomini del
trappeto trovavano il tempo e il fiato per cantare, impegnati com'erano, in un
lavoro che frenava ardori e velleità, anche canore!
In chiusura, desideriamo citare i trappeti che operavano dentro l'abitato di
Palazzolo. Non è un elenco esaustivo, come non sono esaustive le informazioni
riportate nel presente lavoro. Per una più facile individuazione dei frantoi,
oltre alla via, riporteremo, quando è possibile, non il nome del proprietario o
gestore del frantoio, ma il soprannome. Così erano conosciuti questi trappeti e
così vogliamo ricordarli. In primo luogo è da segnalare il già citato frantoio,
sito in via Machiavelli 11 (sede della Casa-museo), prima brutalmente
smantellato da mani ignote, ma poi sapientemente ricostruito da Antonino
Uccello, collaborato da maestranze buccheresi e palazzolesi.
Altri frantoi erano dislocati, a
macchia di leopardo, nei punti più disparati del paese: in via Tasso (Scaura-fimmini), in via Bando (u banniaturi), sul prolungamento di via
Maddalena, oggi via L. Sturzo (i
Murtiddari), al ronco Copernico (i
Sauri e Scattapaci), in via Fontanasecca (Ieca), in via Roma (Pinnintula),
in via Domenico Curcio (don Luigi Pera e Mirabella), a Fiume grande (Tuppu ruossu), nei pressi del largo
Villarosa (Ieca, proveniente da via
Fontanasecca).
Nel dopoguerra, dopo il frantoio
meccanico Sardo, furono impiantati altri frantoi moderni (per quell'epoca): a
Palazzo (Mauceri e poi Lopresti), in via G. Italia (Mascilarenzi), al viale Dante (i
Viddani).
Infine il frantoio Di Grano (Suffiziu), impiantato prima in via Roma e poi rimodernato e
installato nell'area del largo Villarosa.
Oggi è l'unico frantoio in attività a Palazzolo, semiautomatico e dotato
di due moderni separatori con centrifuga.
CAMMINO, settimanale di informazione e di opinione,16.2.1992
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