Nelle lunghe mattinate di primavera la voce bassa e
stentorea di don Mmastianu penetrava fin recessi più intimi delle case ed era come
un annuncio ufficiale della buona stagione.
Don ‘Mmastianu u
Sangiuvannaru faceva l'ortolano e nel contempo vendeva le primizie (quelle
vere, al tempo giusto, maturate al sole) e i prodotti freschi dell'orto girando
per il paese. La sua vanniata animava
le strade di Palazzolo e faceva parte integrante di quell'atmosfera familiare
che caratterizzava il modus vivendi dei piccoli centri dove tutto diventa
consueto: le persone, i segni, i suoni, le voci.
Il collaboratore più prezioso di
don ‘Mmastianu era l'asino; anzi le asine erano due: la sua e quella del fratello. Una settimana girava con la sua e l'altra
settimana con la scecca grande del fratello Salvatore, essendo con quest'ultimo in società al cinquanta per
cento. Entrambi erano gelosissimi ognuno della propria cavalcatura ed entrambi coltivavano l’orto di loro
proprietà in contrada S. Giovanni. Da questo toponimo gli derivava il
soprannome di Sangiuvannari, a cui
più tardi fu aggiunto l'altro appellativo di circa ri monucu,
per distinguerli dai Sangiuvannari barbaini, e da quelli di contrada Purbella. Questo soprannome di rinforzo, circa ri muonucu (cresta di monaco), gli
derivava dal fatto che in una delle grotte ricadenti nei suddetti orti c’è un
graffito raffigurante un monaco, sulla cui testa campeggia una vistosa aureola,
somigliante, più che altro, ad una cresta di gallo, da cui: circa ri muonucu.
L’orto era nu diliziu. L’abbondanza dell’acqua
proveniente dal fiumiciattolo di san Giovanni permetteva l’adacquamento degli
ortaggi e favoriva la crescita degli alberi e la produzione dei frutti: gelsi
neri, bianchi, nocciole, melagrane, nespole, ciliegie, uva, fichi, fichi
d’India, noci, loti. Poi, il prezioso
organico delle due asine, diligentemente assumatu
e sapientemente distribuito, completava l’opera: tutto cresceva rigoglioso
e al naturale.
Don Mmastianu
iniziava il suo giro
quotidiano sempre dal quartiere Palazzo.
Ai fianchi dell'asina erano legati due grandi corbelli, alti quanto un uomo. Da questi, tirava fuori - come da
un cilindro magico - ogni sorta di verdura fresca e qualche volta, a turno,
anche qualcuno dei suoi marmocchi quando si ostinavano a volergli andare
appresso. Durante il giro, raramente scendeva dalla bestia; stando in groppa,
era capace di compiere qualsiasi operazione: pescare la verdura richiesta,
riscuotere il denaro, tirare fuori dai taschini del gilè gli spiccioli per il
resto.
L'umido degli orti gli era
entrato fin nell'essenza delle ossa. L’artrite reumatoide, partita dal piede e
diagnosticatagli a quei tempi da un rinomato aggiustaossa di Canicattini come mancatura, gli mangiava la
mani e le gambe compromettendogli senza rimedio la funzionalità articolare. E
allora, il fratello si occupava dei lavori più pesanti, piantava, zappava, scirbava, irrigava, e lui, invece, aveva
cura del confezionamento degli ortaggi appena colti: ammazzolava i broccoli, i trunza, l'indivia, la lattuga, le foglie
di tenerume; confezionava i fagiolini in cartocci fatti con foglie di fico o di
cavolo; impilava la merce dentro la
cruvedda. Andavano d’amore e d’accordo, e il fratello, non si risparmiava
di certo.
Dopo mangiato, nei pomeriggi
d’estate, tutti e due si mettevano e a riposare per un’oretta nella grotta del
“monaco” e lì schiacciavano un pisolino ristorati dalla frescura del San
Giovanni e dalla roccia pregna di umidità. La sera poi, al termine di una
giornata di lavoro, si sedevano sui due ccippi
sotto il fico davanti la grotta, e lì avveniva la spartizione. Don Mmastianu tirava fuori i soldi dalla bbunaca, li scaraventava sulla
bbuffittina e incominciava: “50 lire a te, 50 lire a me; 10 lire a te, 10
lire a me, 5 lire a te, 5 lire a me…”.
Era alto, magro, un po' contratto
e incurvito dai dolori e dal mestiere. Aveva degli occhi neri e mansueti e una
faccia lunga e incavata, scarna, dall’espressione bonaria ma dai tratti decisi,
incorniciata da folte sopracciglia e da una barba nera e ispida
ammazza-Gillette, una barba che sembrava una siepe bruciata di fresco, dentro
la quale di tanto in tanto si spegneva un sorriso malinconico, appena
abbozzato. Portava di solito una coppola che, per la
vecchiezza e per l'umidità, anch'essa era diventata curva tale e quale una
tegola e le poche volte che se la toglieva metteva in mostra una testa seminuda
bianca lattea, in contrasto con il viso e il collo color mogano bruciati dal
sole e dal lavoro.
Nonostante la malattia
progressiva e fortemente debilitante, don ‘Mmastianu
era un lavoratore infaticabile e da buon padre riusciva a mantenere la moglie e
i quattro figli maschi con grande dignità e con grandi sacrifici viste le sue
precarie condizioni di salute.
La vanniata di don ‘Mmastianu u
Sangiuvannaru circa ri monucu - era assolutamente
inconfondibile, sia per la difficile comprensione di alcune parole e sia per la
particolare modulazione, che, nel finale, assumeva una tonalità quasi sommessa.
Ricordo che da ragazzo ho avuto un lampo di soddisfazione, quando, finalmente
sono riuscito a decifrare le parole che per tanto tempo mi erano state
assolutamente incomprensibili. Ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, mi
fanno eco dentro gli orecchi: ‘a
fasuliedda tennira (il fagiolino), ‘a
'nsalata (la lattuga), ‘a tinniriumi
(i tenerumi di zucca, le cime), i
trunzidda tienniri, (i cavoli), ‘u cicuriuni (la cicoria a foglie
larghe).
Oggi la sua voce non riecheggia
più per le strade di Palazzolo, e, assieme alla sua, si avverte pure la
mancanza delle vanniate degli altri
ambulanti locali che davano una intima nota di folklore e di costume alle
nostre strade e alle nostre piazze.
2 commenti:
Meraviglioso, nulla e niente potrà riprodurre tale tratto della vita comune dei nostri tempi, tratteggi della natura, tutto vero ed autentico, essenziale, umano, semplice, bello, gioioso, pur nelle condizioni di apparente e vera povertà, ma di una ricchezza sociale immensa. Eravano noi! Grazie all'autore.
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