«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Mestieri che scompaiono. Le nostre vecchie carcare

 

Il grassello di calce è l'elemento base nella preparazione delle malte impiegate per la stabilitura degli intonaci e degli stucchi. Si tratta di calce spenta, idrata, confezionata in sacchi da 24 kg: si presenta sotto forma di pasta bianchissima e morbida.

Oggi il grassello è largamente usato per la sua estrema praticità, però sino ad una ventina di anni fa, circa, i muratori usavano ancora la calce viva in zolle, da spegnere nelle calcinaie approntate in cantiere.

La calce si ottiene dalle rocce calcaree, cotte ad una temperatura di oltre 600°c in apposite fornaci chiamate calcare, una volta piuttosto rudimentali, oggi moderne e razionali, dotate di appropriate strumentazioni e attrezzate per la preparazione del grassello.

Le carcare più antiche erano quelle scavate nella roccia e ubicate vicino ai centri abitati, in aree ricche di pietra calcarea: la migliore era quella dura, forte, comunemente chiamata pietra rizza, dalla quale si otteneva una calce molto tenace. Quando il calcare incominciava a scarseggiare, oppure la fornace si ingrandiva troppo per il continuo sfaldamento delle pareti che, alle altissime temperature, tendevano a liquefarsi, si mollava tutto e si andava a scavarne una nuova in un’altra area, sempre di formazione calcarea.

Molti anni addietro, quando in campagna si dovevano edificare estesi caseggiati, era consuetudine per i muratori (perché conveniente) preparare, prima di ogni cosa e qualora ci fosse la pietra adatta, una piccola carcara per produrre la calcina necessaria al fabbisogno del cantiere.

Per risolvere il problema dello sgretolamento delle pareti, si pensò, in seguito di rivestire l'interno della fornace con materiale refrattario, in particolare costituito da pietra lavica. Ciò malgrado a partire dagli anni Cinquanta, le fornaci furono costruite direttamente con mattoni refrattari e in zone distanti dal centro abitato: incominciavano a diffondersi gli automezzi e le distanze non erano più in problema.

Quest’ultimo tipo di fornace di solito è di forma troncoconica; quelle tradizionali scavate nella roccia, invece, sono sempre cilindriche, con una pronunciata slargatura nella zona mediana. Funzionavano tutte a riscaldamento diretto e potevano essere alimentate da combustibili diversi: paglia, frasche, legna, sansa, carbone.

 

I combustibili e il caricamento

I sistemi di caricamento sono due: a tammusu o a carica mista, a seconda del combustibile. Il caricamento a tammusu si adotta per le fornaci alimentate con paglia, legna o sansa. Partendo dalla base, sotto la quale c'è un pozzetto per la raccolta della cenere e per il tiraggio, si murano le pietre posizionandole in modo da formare una cupola, al cui interno si introduce il combustibile. Il carico viene completato dall'alto, svuotando i cufini ri spitrari colmi di pietre.

La carica mista si adotta per le fornaci a carbone. Ad un metro e mezzo dalla base si predispongono dei ferri a guisa di griglia. Su questa si distribuisce uno strato di carbone e poi uno di calcare. A mano a mano che si sale, ad ogni sulata, si riduce la percentuale di carbone e si aumenta quella della pietra, fino a quando la parte terminale della fornace viene riempita esclusivamente di pietre.

A carico ultimato era devozione disporre due pietre a forma di croce, sulla parte sommitale, a scopo propiziatorio. È la conferma di un’esigenza di religiosità, un tempo oltremodo diffusa tra i ceti popolari; un bisogno che si manifestava attraverso gestualità e linguaggi carichi di attese e di fede. Era una presa d’atto dell proprio limite umano, e, allo stesso tempo un affidarsi alla Provvidenza.

Le calcare a paglia erano le più antiche ma anche le più faticose da gestire. Funzionavano solo durante la stagione estiva, alimentate dalla paglia delle fave nella prima mezza estate e da quella del frumento nella seconda. Occorrevano quindici, venti giorni per ammassare la paglia nella carcarata, e, una volta accesa bisognava alimentarla ininterrottamente per più di 48 ore.

Ben quattro erano gli iardituri che si alternavano notte e giorno, in turni di un'ora ciascuno, mentre altri erano addetti a liberare il pozzetto di raccolta, dalla cenere che si accumulava rapidissimamente. Se la stagione era prodiga di paglia, si riuscivano ad attivare anche ben cinque carcarate, con un buon guadagno per il proprietario, visto il basso costo del combustibile.

All'inizio degli anni Venti, con l'entrata in esercizio della ferrovia a scartamento ridotto Siracusa-Ragusa-Vizzini si incominciò ad utilizzare il carbon Coke non combusto dal focolare delle locomotive. Privata dalle scorie, la cacazzina era un ottimo combustibile a buon mercato.

La sansa, ancora oggi usata in qualche piccola fornace superstite, presenta il vantaggio, dopo la combustione, di essere recuperata e venduta come carbonella (nuzzuliddu) per alimentare bracieri e cunculini. Anche le traversine ferroviarie costituiscono un ottimo combustibile ad altissimo potere calorifico.

Il tempo occorrente per la calcinazione varia a seconda del combustibile. In media occorrono due giorni e due notti per la cottura e 24 ore di riposo per il raffreddamento: dopo si può prelevare la calce. Un carico completo della fornace è costituito da 32 cufina di calce, equivalente a 320 kg, cioè due sarme.

La giusta cottura della cuacina era affidata alla competenza e all’abilità del carcararu. Si trattava di saper dosare in maniera empirica - senza termometri - l'esatta temperatura del forno e sospendere poi il fuoco al momento propizio. Un lavoro, dunque, che non ammetteva   sbagli.

Agli inizi degli anni Cinquanta, la calce si vendeva ancora a sarma e il costo era di 800 lire a sarma. Da lì a qualche anno si usò il chilo come unità di misura e il prezzo fu stabilito in 8 lire al kg. Veniva trasportata e distribuita con i carretti; carretti e carrettieri, quando si dovevano recare fuori paese, si mettevano in strada alle 4 del mattino, prima che iniziasse ad albeggiare.

 

Le nostre vecchie carcare

Tantissime le vecchie carcare diffuse nell'area iblea, sommersa di calcareniti. Quasi tutte in disuso, ora sono destinate a scomparire perchè inutili e ingombranti, secondo un'ottica ruspaiola mirata a stravolgere armonie e forme del nostro paesaggio. Eppure, questi segni del passato (vera archeologia industriale), anche se privi di alcunché di artistico, hanno un prezioso valore testimoniale nei confronti di una stagione, anche recente, che merita di essere rivisitata e salvaguardata.

A Palazzolo, l'ultima fornace in attività ha chiuso i battenti nel 1968. Gestita dal signor Giovanni Benvenuto, in contrada Cozzo Pilato, aveva iniziato la sua attività esattamente cento anni or sono, quando su specifica autorizzazione "…chiesta da Quattropani Paolo e soci, del locale alla Costa, per uso fornace di calce, dice che per la sua distanza, per la topicità e perchè la pietra si presta all'uso cui intende destinarsi, la Giunta crede addivenire alla cessione".  

Oltre ai due signori già menzionati sono stati parecchi i palazzolesi che hanno speso la loro vita in questo faticosissimo lavoro. Ricordiamo tra gli altri: Giuseppe Pizzo (mastru Seppi) e i figli Paolo e Pippinu, Lombardo (socio del già citato Quattropani), don Angelo Ferla, alias Rita, Giuseppe Piccione. Anche i centri vicini a Palazzolo contavano la presenza di numerose carcare. A Canicattini erano abbastanza rinomate, per la qualità del calcare, le fornaci di Carbone, di Musco, di Cichedda. A Solarino era molto attiva la fornace di don Giovannino Teodoro; a Noto operavano la fornaci di Caruso (Menzacanna), di Macca, di Bellofiore (Frazzata).

Oggi, nelle nostre zone, anche le fornaci meno antiche, ma tuttavia antiquate, sono in buona parte chiuse, mentre quelle ancora attive, lavorano saltuariamente. È il caso della fornace situata in contrada Carancino, sul fiume Anapo.

Costruita una quarantina di anni fa, oggi, a causa della sua limitata capacità di produzione (circa 23 t di calcina) risulta antieconomica utilizzarla. Il proprietario, infatti, per confezionare il grassello si serve di calce in zolle prodotta industrialmente. È più conveniente e meno faticoso.

Tuttavia, quasi un anno fa, ed esattamente il 6 luglio 1991, questa vecchia carcara ha sfornato il suo bravo carico di calce, compiendo per intero il suo dovere.

Noi, però, non vorremmo che fosse stata l'ultima e conclusiva carcarata. Se così fosse, non ci resterebbe altro che registrare, ancora una volta per il nostro vecchio pianeta, il solito fenomeno della "dissolvenza incrociata": si dissolve il vecchio, emerge il nuovo (il sistema industriale). È ineluttabile!

 CAMMINO, settimanale di informazione, 21 giugno 1992


3 commenti:

Unknown ha detto...

Grazie tante,ora la mia conoscenza si è arricchita di un altro elemento

Unknown ha detto...

In questa esposizione ho rivisto tanti volti, tanti conoscenti. Grazie della ripubblicazione. Grazie Nello

muscolino giovanni ha detto...

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