«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Mestieri che scompaiono - Il conciabrocche (U conzapiatti)

La civiltà del benessere, fra tutte le altre cose, ci ha portato anche l’usa e getta. Tutto sigillato: si ha garanzia dal punto di vista igienico e si risparmia tempo. Nei supermercati e quindi nelle nostre case ormai non mancano scorte di piatti, di bicchieri, di forchettine, di cucchiaini, di tovaglioli e poi bottiglie, siringhe, radi e getta, ecc. da usare e da recuperare per la raccolta differenziata destinata al riciclaggio, con un sensibile risparmio di materia prima e di energia.

Fino alla metà del secolo scorso, il risparmio di tempo era un problema quasi irrilevante, mentre l’altro, il recupero dei materiali usati consisteva non nella raccolta differenziata ma nel bisogno di salvaguardare i vari oggetti d'uso usandoli sfruttandoli fino alla consunzione. Si rivoltavano le giacche (il taschino da sinistra passava a destra), si mettevano le toppe nei pantaloni e nelle scarpe, si applicavano i punti nelle stoviglie e nelle terrecotte incrinate, grazie alla sapiente operazione di sutura del conciabrocche. Il piatto ciaccatu, dalla cui fessura con un leggera pressione usciva una specie di liquido indefinibile e datato, era solo un dettaglio ovviabile; il vero problema era quello di trovare qualcosa da mettervi dentro e sotto i denti, visto che in Italia a causa della guerra, per un lungo periodo di tempo, furono in molti ad avere come principale occupazione l'affannosa ricerca del cibo.

Mestiere antico ma povero quello del conzalemmi, da ascrivere alla categoria degli ceti più umili del cosiddetto sottoproletariato urbano. 

Con la cassetta degli attrezzi a tracolla girava di paese in paese e di strada in strada per risprangare le terraglie incrinate o ridotte in cocci, per riparare ombrelli e affilare forbici e coltelli: "I piatti rutti cunzamu, ammola forbici e coltelli, c'è u cuonza umbrelli...". Al sentire questa vanniata, che era quasi familiare a quei tempi, le donne soprattutto, si facevano vive portando al conzapiatti il coccio da riparare o altro, non senza accese schermaglie sulla riuscita del lavoro e sul prezzo.

Tutto veniva sanato e recuperato all'uso: piatti, bacinelle, bacili  (bajni) brocche (quartari), fiaschi (ciaschi) fiancuotti, (i grandi piatti di Caltagirone usati per fare asciugare al sole l'estratto di pomodoro), boccali (cannate) per il vino, vasi (sbrunìe) per i capperi, giare per l'olio, orinali di terracotta (cantri) ecc.

Di solito questi ambulanti provenivano dai paesi della sciara, vale a dire dai paesi dell’Etna, ma potevano essere anche degli artigiani locali che lavoravano in pianta stabile nel proprio paese di residenza.

A Palazzolo, don Cuncettu u vastasi, oltre a fare l'uomo di fatica, si arrangiava con altri lavoretti: bandezzava e vendeva il pesce (sotto i portici di via C. Alberto), dirigeva l'asta per il convito di S. Giuseppe, e faceva anche il conciabrocche, prima girando per le strade, e poi, quando le gambe incominciarono a tradirlo, in via Pietro Messina, davanti alla propria abitazione, attivamente collaborato da donna Ciccia, la sua amata consorte.

Il conciabrocche si sedeva su uno scalino che faceva al suo comodo e con il trapano a filo praticava dei fori a coppia nei due lembi da suturare. Poi, dentro ogni coppia di buchi, introduceva un pezzetto di fil di ferro o di rame e infine con una piccola tenaglia, dopo aver ricongiunto le due estremità le ritorceva. La parte esterna della giuntura ed eventuali vuoti venivano riempiti e ripianati con pasta di calce spenta o con dei composti a base di mastice.

E lo Zi' Dima Licasi della nota novella La giara di Pirandello, aveva scoperto, appunto, un mastice miracoloso che da solo (senza punti!) riusciva a sanare perfettamente qualsiasi coccio. Ma, don Lollò Zirafa non aveva fiducia nel mastice miracoloso del conciabrocche e quando pretese che oltre al mastice, nella giara, si applicassero anche i punti, lo Zi' Dima sbottò: "...-Me ne vado... Don Lollò lo acchiappò per un braccio: -Dove? Messere e porco, così trattate?... Scannato miserabile e pezzo d'asino, Ci devo mettere olio, io, là dentro, e l'olio trasuda, bestione! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci vogliono i punti! Mastice e punti. Comando io... Zi' Dima si mise all'opera gonfio d'ira e di dispetto. E l'ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo attaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza…"  

Questo mestiere, scomparso definitivamente oltre una quarantina di anni fa, apparteneva all'universo dei poveri e dei mal pagati. Ma resta sempre un frammento di storia: è la testimonianza di un tempo e di un mondo afflitti dalla miseria e dalla fame, quella nera! 

 

CAMMINO, settimanale di informazione, 26 aprile1992

4 commenti:

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