«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Dal latte (di capra) munto a vista, al “mungitoio municipale”, al latte in bottiglia, al tetrapak

Lu culu ‘nta la petra, la facci ‘nta lu culu, e li manu ‘ntra li vèrtuli            


Nell’immaginario collettivo il latte ha avuto da sempre un ruolo centrale come elemento primordiale e fonte di vita. È il primo alimento che si scopre appena si viene al mondo ed è anche il più completo e ricco tra quelli esistenti in natura. 

Latte materno a parte, era il latte di capra ad essere utilizzato nei tempi andati per l’alimentazione dei lattanti, grazie alla sua composizione assai simile al latte della mamma. Anche in famiglia il consumo diretto era alquanto apprezzato per il suo alto valore nutritivo, per l’ottimo equilibrio tra grasso e proteine, per la sua digeribilità: latti di crapa, ricotta di pecura e tumazzu di vacca [1].  

La capra

Fin dai tempi più antichi la capra domestica è stata tenuta in considerazione non solo per la sua capacità di adattamento e per la sua natura allegra, ma anche e soprattutto per la produzione del latte che è elevatissima. Quest’animale è in grado di fornire una produzione annua pari a dodici volte il suo peso (la mucca ne fornisce quantità pari a otto volte); tale vantaggio ha fatto meritare alla capra l’appellativo di “vacca dei poveri”.  

Oltre che per il latte si alleva anche per la carne, quella dei capretti però, a Pasqua: la carne della capra adulta rimane stuppagghiusa.                   

Come ovino può vivere in greggi, assieme alle pecore, oppure da sola. A differenza delle pecore, tranquille, timide e prive di iniziative, la capra è anarchica, libera, affettuosa e assetata di coccole, intelligente (checché ne dica Vittorio Sgarbi) e soprattutto le piace pascolare a suo piacimento. È capace di sfruttare anche i pascoli più impervi ed avari delle nostre campagne: con il suo spiccato senso dell’equilibrio si arrampica su qualsiasi muraglia a secco, su qualsiasi dirupo, saltando qualunque ostacolo in cerca dei germogli più teneri di cui è licca assai.

Il capraio ne asseconda i capricci, si assuefà e alla lunga tra i due si instaura un rapporto empatico [2]: la capra addirittura condiziona alcuni comportamenti del suo padrone influenzandolo con certi tratti della sua natura, primo fra tutti il non rispetto delle regole. Ancora oggi, del resto, se qualcuno compie un gesto sconsiderato si è soliti dire: “S’ha pinzau â crapara!”. Da qui la valenza dispregiativa che si dà alla voce craparu, ferme restando le dovute eccezioni.

Regolamenti e verbali comunali

A tal riguardo i verbali degli archivi comunali sono zeppi delle vibrate proteste dei contadini (ma anche dei cittadini) nei confronti dei caprai, malvisti e ritenuti responsabili della condotta delle loro capre vaganti e pascolanti in qualsiasi terreno, coltivato o meno che sia: rosicchiano e mangiano di tutto. Gli atti riportano, nello specifico, i provvedimenti dell’Amministrazione per disciplinare i gravi fenomeni di abusivismo.

Nel verbale del Decurionato di Palazzolo, datato 26 ottobre 1860, si legge fra l’altro:

 

“Sentite le lagnanze altre volte esposte da migliaia di cittadini sulle devastazioni operate dall'indomabile genìa dei caprari nelle campagne di questo territorio... il Decurionato all’unanimità delibera ...che i caprai non potessero mandriare nella comune e nei suoi allodi …e ne fossero espulsi a responsabilità del magistrato municipale con tutti i mezzi e le pene che sono in loro potere…” [3].

Nei Regolamenti Municipali del 1865, perdurando l’insostenibile situazione di cui sopra, sempre relativamente al pascolo vagantivo delle capre, si stabilisce che: “Nel comune e sue adiacenze non potranno stabilirsi mandre. L’Autorità Municipale potrà permetterle con le debite prescrizioni per gli animali che provvedono di latte al Comune, e per quelli di macello” [4].

A tal proposito giova ricordare che della toponomastica palazzolese fa parte il ronco Mandrazzi (Mannirazzi, grandi ovili cioè) che dà nome al quartiere popolare dove è ubicata la Casa-museo Antonino Uccello.   Questo a conferma che greggi di pecore (e di capre), in un tempo lontano, trovavano abitualmente riparo non solo negli ovili vicinali situati nell’immediata periferia (Fiume grande, Costa di san Corrado, Purbella ecc.), ma anche all’interno del perimetro urbano e in particolare in quel topos.

A questo punto, ipotizziamo un immaginario ritorno a quel tempo ancestrale, e, alla casa ri stari, alla casa ri massaria, al maiazzè, alla stalla e agli altri ambienti contadini della Casa-museo “ricostruiti e vivificati” [5] da Uccello, aggiungiamo idealmente anche gli antichi ovili preesistenti nel quartiere. Come per magia, vedremo allora un branco di capre in attesa, davanti u varìli [6], e il loro pastore che “[cu] lu culu ‘nta la petra, la facci ‘nta lu culu, e li manu ‘ntra li vèrtuli” [7] e con la cisca tra le gambe, procede, una per volta, alla loro mungitura, mentre due caldi fiotti di latte vanno a perdersi nel candido mare di soffice schiuma. Se mettiamo la mano a ventolina vicino all’orecchio potremo ascoltare: “Tocca a ttia Pupidda, trasi tu Minniruossi, forza Pippina aiutiti, arrizziettiti Sautafossi, stai manza Ianculidda”.      

Le chiama ad una ad una le sue bestie, il capraio, per nome, le sprona e le rassicura; è un monologo, anzi è un tacito dialogo fatto di monosillabi e di segni a cui la capra, in questa fase, si assoggetta senza nessuna fuga in avanti. 



Il “Regolamento Municipale” dell’11 aprile 1906, ancora più vincolante, precisa che

I proprietari di capre che introdurranno in città i loro animali per la vendita del latte, sono tenuti a presentare domanda al municipio dichiarando che il gregge sarà guidato da loro o affidato all’altrui custodia… non si potranno condurre capre a pascolare di notte tempo… gli animali trovati senza custodia o custoditi da persone non aventi i requisiti voluti dal presente Regolamento nelle pubbliche vie o nelle trazzere vicinali saranno sequestrati” [8].

 

Permanendo il clima di disordine e di anarchia dovuto ai tanti branchi di capre in giro per le vie dell’abitato e protraendosi, inoltre, i problemi di igiene e anche di frode relativi alla vendita del latte munto a vista, il Comune, con delibera podestarile, il 1° aprile 1934, prende in affitto un locale per la mungitura e la raccolta del latte alimentare. Ciò fatto lo attrezza con apparecchi e dispositivi per un corretto funzionamento: strumentario per l’analisi (butirrometri Gerber, termometro a +100° completo di bagnomaria e lampada, acido per analisi del latte, alcol amìlico, pipette e provette di vetro, ecc.), punzoni e astucci per suggellare le bottiglie contenenti il latte da distribuire. Nomina allo stesso tempo, in via provvisoria, due sorveglianti dedicati esclusivamente alla raccolta e al trasporto del latte e al controllo de visu [9].

 

Una latteria nel convento

Risultata poco funzionale allo scopo la sede in affitto, con delibera podestarile del marzo 1935 [10], si decide di riadattare a latteria i locali dell’ex caserma dei Carabinieri insediatasi fin dal 17 luglio 1873 in un’ala del vecchio convento di piazza Biblioteca e già trasferitasi in altra sede.

Il 1° giugno 1936 inizia ufficialmente a funzionare la nuova “Casa del Latte” gestita, per incarico del cessato Podestà, dal comandante delle Guardie Municipali sig. Giuseppe Volucello. In via provvisoria viene pure assunto un dipendente comunale addetto alla “filtrazione ed imbottigliamento del latte alimentare e per la pulizia dei locali interni”.

Nel frattempo, Il complesso viene attrezzato di impianto elettrico [11].



Nel dicembre 1942 viene approvato il nuovo Regolamento per la gestione della “Casa del Latte” allo scopo di migliorare la vigilanza igienica del latte destinato al consumo diretto e razionalizzare la distribuzione.                 Tale Regolamento composto da 15 articoli prevede fra l’altro: la vendita del latte esclusivamente in bottiglie o in bidoni conformi alle norme e muniti di chiusura con piombino o capsula; la visita preventiva degli animali lattiferi da parte del veterinario comunale e riconoscimento di idoneità; la mungitura del latte a cura dei proprietari degli animali avendo cura di rispettare le norme igieniche fondamentali; l’imbottigliamento e l’imbidonamento del latte subito dopo la mungitura e così via. Il nuovo “mungitoio municipale” è diretto dal veterinario comunale. [12]

Poi l’immane tragedia: la guerra. Palazzolo il 9 e il 10 luglio del 1943 subì violenti e ripetuti bombardamenti da parte degli inglesi. Si registrarono circa 130 vittime tra i civili, furono distrutti o gravemente danneggiati molti edifici. La “Casa del Latte”, ubicata in alcuni locali dell’ex convento dei Cappuccini, subì gravissimi danni e non fu più ricostruita.

 

Ancora la mungitura a vista

Così stando le cose, i caprai tornarono all’antico e di primo mattino ripresero a processionare per le strade cittadine continuando a mungere le capre a vista e porta a porta. Ogni capraio aveva il suo quartiere e la sua clientela fissa: le donne, avvisate dal tintinnìo delle campanelle, si facevano trovare già davanti la porta con nappiteddi, camillini [13] e capute varie in mano. C’era un capraio che, addirittura, serviva una cliente fin sul pianerottolo di casa al primo piano: si portava dietro solo a Rrusina con le sue mammelle gonfie di latte e lasciava il resto delle capre in stand by sulla strada. In via Gabriele Iudica abitava invece un capraio stanziale: la sera alloggiava le capre nella carretteria attigua all’abitazione; la mattina presto le lasciava libere davanti la porta di casa, e, capre e capraio stavano in attesa dei clienti.  

Era questo un andazzo generalizzato in tutti i centri, piccoli e grandi e non solo in quelli ad economia agricola e pastorale. Una testimonianza che vale per tutte è quella di Danilo Dolci. Nel suo “Racconti Siciliani” ha messo insieme diverse storie di quotidianità che vanno dal 1952 al 1960. La narrazione che segue, nella fattispecie, riguarda la città di Palermo: “...Verso le sei nella periferia incomincia qualche venditore ambulante, chi vende scope, chi verdura, scende qualche paniere con la corda dai balconi, i vaccari girano con le vacche a vendere il latte…” [14].

E di solito, i vaccari assieme alle mucche si portavano dietro il vitellino lattante (rinnituri) e, tra una mungitura e l’altra, lo facevano ncapicciari alla mamma: alla mucca così ci calava più latte e quindi rendeva di più [15].  



Nel 1954, l’Amministrazione del tempo, visto che capre e caprai erano ritornati sui loro passi e con loro i soliti problemi di disordine e di igiene, presenta al Ministero dei LL. PP. un progetto denominato “Costruzione di un complesso di raccolta, pastorizzazione, distribuzione del latte” [16]. L’obiettivo era quello di ottenere un contributo dallo Stato nonché la concessione di un mutuo dalla CDP per la realizzazione di tale opera. L’iniziativa però si inceppò negli ingranaggi della burocrazia e il tutto finì nel dimenticatoio.

 

Dal latte in bottiglia al Tetra Pak

Sul finire degli anni Cinquanta scomparve a poco a poco il porta a porta    di capre e caprai e rimase solo quello dei caprai e dei lattai in genere: costoro si portavano dietro non più le capre ma un bidone d’alluminio pieno di latte fresco (di capra o anche vaccino) che vendevano a misura: un quarto, mezzo litro, un litro.



In molti centri esistevano pure le latterie private, autorizzate a vendere il latte al dettaglio. Come è facile immaginare, i sospetti sulla genuinità del latte e sulla precisione dei misurini (un quarto, mezzo litro…), il più delle volte erano anche fondati.  

Nello stesso tempo anche in Sicilia nascevano le prime centrali del latte e anche dalle nostre parti presero a circolare le bottiglie di vetro a bocca larga, con dentro il latte pastorizzato (trattato termicamente), da un quarto, mezzo litro, un litro, sigillate con la stagnola azzurra.  



Poi a metà degli anni Sessanta arrivò il Tetra Pak con il latte sterilizzato UHT e a lunga conservazione: intero, parzialmente scremato, scremato e via discorrendo.

Qualche capraio-lattaio resistette ancora per forza d’inedia, per abitudine, ma, alla fine, l’UHT spazzò via e per sempre le ultime note di “folklore”.

Dalla terra dei Santoni, Marzo 2022 (inedito)

 

NOTE

[1] A detta di don Pippinu (Calleri) il latte di capra è il più saporevole!

[2] “Â notti… iù me suonnu ancora!” mi confessa con struggente malinconia il simpatico don Pippinu, ora che, in pensione, non ha più né pecore, né capre.

[3] Archivio Storico del Comune di Palazzolo (d’ora in poi ASCPA), deliberazioni Decurionato, 1860-1863.

[4] Regolamenti Municipali di Palazzolo Acreide,1865, p.74.

[5] A. Uccello, Folklore siciliano nella Casa museo di Palazzolo Acreide, Siracusa, Zangara stampa, 1972, p. 5.

[6] Apertura stretta e bassa, che immette nel recinto dove si ritrovano gli ovini già munti).  

[7] A. Uccello, Bovari, pecorai, curàtuli. Cultura casearia in Sicilia, Palazzolo, Associazione amici della Casa Museo di Palazzolo, 1980, p. 35.

[8] ASCPA, deliberazioni Consiglio comunale, 1902-1906.

[9] ASCPA, deliberazioni Podestarili, 1931-1935.

[10] ASCPA, deliberazioni Podestarili, 1931-1935.

[11] Cfr. ASCPA, deliberazioni Podestarili, 1935-1938.

[12] Cfr. ASCPA, deliberazioni Podestarili, 1942-1945.

[13] Il camillino (variante della gamella o gavetta) fornito di coperchio a pressione e manico snodabile a semicerchio, era un’«arma letale» in mano ai bambini. Lo si faceva roteare vorticosamente pieno o vuoto che fosse, ma soprattutto serviva per sbatterlo contro i muri strada facendo. 

[14] D. Dolci, Racconti siciliani, Palermo, Sellerio, 2010, p.350.

[15] Cfr. A. Uccello, Bovari, pecorai, curàtuli. Cultura casearia in Sicilia, op. cit. p. 24.

[16] Cfr. ASCPA, deliberazioni Giunta municipale, 1953 -1954.  

4 commenti:

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