«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

C’era una volta… A naca a-bbuòlu

 


L’immagine della casa ri stari con il letto matrimoniale, la naca a-bbuòlo, il cannizzu, per tanti anni è stata icona e ambasciatrice della Casa-museo di Palazzolo e della civiltà contadina iblea. Quando fu pubblicata, nel novembre del 1972 (era la sovraccoperta del volume di A. Uccello, Folklore Siciliano…), rappresentava ancora un passato abbastanza recente e se possibile ancora rintracciabile in certe zone dell’isola. Oggi a distanza di quarant’anni è passata un’eternità e quel passato è scivolato via definitivamente. 

L'immagine della naca a-bbuòlu (o naca a-vientu), oltre a richiamare alla mente la meravigliosa avventura della venuta al mondo di una nuova vita con tutto quello che le gira attorno, gioia, amore, tenerezze, emozioni, nella fattispecie ci riporta anche ad un mondo fatto di stenti, di sacrifici, e anche di privazioni. Oggi nelle vecchie case contadine non sono rimaste nemmeno le boccole di ferro a cui veniva legata quella naca, anzi, sono sparite anche le vecchie case, abbattute e sostituite da case o villette, grandi, funzionali e confortevoli. 

 

A naca a-bbuòlu è una sorta di amaca di stoffa recuperata da vecchi materassi, oppure realizzata con mussola o tela tessuta in casa. Viene sospesa sul letto tramite due cordicelle, legate a due boccole di ferro fissate in alto su due pareti contigue: "...le cacate di mosche raschiate dalle corde che reggono le culle dei bambini, mischiate col latte di donna, si usano contro il mal di stomaco dei bambini. Si squagliano le cacatelle delle mosche dentro un cucchiaio di latte della mamma... " (Dolci, 1963). In un indovinello a naca è così descritta: “Haiu la navi mia fatta di tila / o vientu o senza vientu sempri vola. / Chidda ca cci sta dintra cianci e riri / e chidda ch’è di fora canta e sona”.

 

La cattiva abitudine di far dormire i neonati nel letto della madre era, a buona ragione, condannata dalla Chiesa. In alcuni Sinodi siciliani, come quelli di Siracusa del 1553 e del 1651, l’autorità clericale minacciava addirittura la scomunica alle madri che durante la notte facevano dormire i neonati, fin ad un anno dalla nascita, nel letto dei genitori (cfr. Pitrè, 1887-88). Il monito era   chiaro e aveva lo scopo di evitare il soffocamento della creatura.

Tuttavia, nelle famiglie in cui i neonati venivano sfornati a getto continuo, e quindi la naca a-bbuòlu risultava sempre occupata, chi arrivava dopo o era allogato nel lettone con i genitori malgrado il rischio sopra accennato, altrimenti si disponeva un’altra naca supplementare sotto il tavolo, legando le quattro cordelle ai piedi dello stesso. In questo caso però i neonati erano soggetti alle aggressioni degli animali di bassa corte che di solito razzolavano per la casa.

Per questo motivo (che non era il solo) il talamo della coppia era sempre alto, molto alto. Lo spazio sotto il letto era utilizzato per mettervi il cantru cioè il vaso da notte (uno per tutti, tutti per uno) ma anche, all’occorrenza, come giaciglio per il maiale e ricovero per le galline.

 

Fa’ la vò

La mamma per mezzo di una cordicella che penzolava a portata di mano, quando di notte il bambino strillava, poteva dondolarlo tirando la corda e stando comodamente coricata senza bisogno di alzarsi al letto.

Il dondolio della naca era immancabilmente accompagnato dal canto della ninna-nanna per conciliare il sonno del bambino:

 

“E alavò, e alavò, / stu figghiu beddu rummiri num-mò; / e-sse iḍḍ̣u m-moli rummìri, / naticateddi sa-cquantu n’âviri; / e-sse iḍ̣ḍu m-moli stari, / nta lu culiddu cci l’am’a-ddari;

ancora: Figghiu miu, rommi e riposa, / lu ciàuru mi fai ri na rosa;

ancora: Avò, avò, la figghia bedda, / to mattri ti vo-ffari munachedda, / munachedda ri la batìa: / avò avò la figghia mia;

e poi: E alavò e alavò, / viri ca veni lu papà to / e-tti porta la simintina, / la rrosamarina e lu bbasiriccò…

altro: E-ccomu fazzu can nun-ni puozzu cciùi? / viniti Gghièsu e la nacati ‘ui; / la figghia mia s’à a-ccuitari / comu si queta l’unna rô mari: / ruòmmimi, figghia, ca iàiu chiffari”.

 

E così via. Quando il moccioso non ne voleva sentire di riappisolarsi e si metteva a piangere, partiva, a quel punto, un dondolamento in crescendo accompagnato da un cambio di tono e di dolcezza nell’intonare la ninna nanna: le mamme si spazientivano, perché era tempo che sottraevano alle quotidiane faccende di casa ivi compresi i lavori extra. Per quel modo nervoso di dondolare, poteva capitare allora che si staccasse la boccola dal muro, o, la corda, già logora, poteva cedere per lo sforzo: il pargolo, allora, abbulava a terra assieme alla naca, a volte con serie conseguenze. Da qui il modo di dire: Chi ccaristi râ naca? o peggio ancora: Chi ccaristi râ naca a-bbuòlu? a mo’ di sfottò a persona che si comporta in modo stravagante.

Nun annacari a naca, cà la criatura nun cc’è curcata. Così veniva avvertito chi dondolava a vuoto la naca. La credulità popolare ritiene che, se si dondola la culla a vuoto, quando il bebè la occuperà, non solo andrà incontro a terribili mal di pancia, ma potrebbe anche morire. Un’altra raccomandazione: quando il bambino dorme dentro la culla bisogna evitare che il gatto gli si avvicini soffiando perché, in tal modo, gli tira u ciatu e lo predispone all’asma.

CAMMINO, settimanale di informazione e di opinione, 22 marzo 2012.

Iblon, giornale online, 10 giugno 2013.

3 commenti:

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