«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Il pane di casa nella tradizione contadina e popolare

…quindi si chiude lo sportello e col pollice si traccia una crocetta innanzi alla bocca del forno…




Il forno a legna nell’antica casa ri massaria e nelle classi popolari rappresentava lo strumento indispensabile per la sussistenza stessa della famiglia: era simbolo dell’ancestrale autosufficienza contadina e centro di gravità nei ceti meno abbienti.
All’interno del nucleo familiare delle comunità agropastorali  la donna svolgeva una interminabile varietà di lavori che andava dal bucato, alla pulizia della casa e a quella dei figli; dalla confezione, al rattoppo di camice e pantaloni (si mettevano toppe sui gomiti, urazzola, sulle chiappe, culati, sui ginocchi, rinucciala), dalla filatura, alla tessitura con il telaio o a mano; dalla manipolazione delle lasagne, tagghiaelassa, alla confezione del pane.
Ancora oggi, le donne dei superstiti contadini rimasti abbarbicati alle pietrose  campagne dell’area iblea seguitano a panificare settimanalmente, il sabato, proprio come una volta, ma con una differenza: utilizzano la farina comprata direttamente al mulino. Nei tempi andati, così non era: ognuno mangiava il pane ottenuto dalla farina del proprio raccolto. Si prelevava dal cannizzu il grano necessario al fabbisogno, si versava nella madia e con le mani si mondava dalle ulteriori scorie sfuggite al vaglio. Si passava quindi alla “rusciatina”; un litro di acqua per ogni tumulo di frumento e i chicchi diventavano subito turgidi e grondanti. Il giorno dopo si insaccava, e, a barda della mula o della giumenta, si portava a macinare.
Anche nei centri urbani le vecchie case terranee una volta erano provviste del forno a pietra, in mancanza si ricorreva ai forni pubblici - sempre a pietra -  dove si vendeva il pane bell’e pronto, o si consentiva il baratto farina - pane, oppure si pagava il costo della cottura: le clienti, in questo caso, preparavano il pane in casa e poi, sistematolo sullo scaniaturi , lo portavano al forno per farselo infornare. Con la comparsa dei primi forni elettrici, a partire dal secondo dopoguerra, dalle cucine domestiche incominciarono a scomparire i forni a legna, diventati all’improvviso ruderi ingombranti. Passato qualche decennio, oggi si avverte un ritorno all’antico: in alcuni centri, i più legati alla tradizione, si riscontra la presenza di forni pubblici a legna (costruiti ex novo), mentre nella seconde case a mare o in campagna, sono stati costruiti o riattati questi intramontabili forni familiari per riappropriarsi di quelle fragranze e di quei sapori genuini che stavano andando perduti.
Per la nostra civiltà contadina, cerealicola per eccellenza, il pane e la pasta costituiscono la base per l’alimentazione giornaliera. Il pane è il simbolo stesso della vita e anche per i meno fortunati è una delle poche certezze (si pensi per contro ai bambini dei paesi sottosviluppati cui, oltre a questa, mancano tutte le altre certezze per vivere: acqua, casa, medicinali, pulizia, vestiti, ecc.) che si contrappone alla insicurezza e alla precarietà esistenziale.
Fare il pane in casa, secondo il canone tradizionale, bianco, fitto, saporito, è un rito sabatico che ancora oggi si rinnova puntualmente: la reiterazione dei gesti, dei segni, dei simboli, sempre gli stessi, si è connotata di un alone di sacralità che dura dalla notte dei tempi.
Il giorno prima si rinnova u cruscenti. E’ una grossa noce di pasta spiccata dal pastone del sabato precedente, incisa con una crocetta, unta con olio d’oliva per non indurirsi, e messa a fermentare dentro una nappa di terracotta coperta da un piattino, per tutta la settimana. La sera prima, a questa essenza originaria (mamma) si aggiunge un pastoncino di circa 1 kg. L’indomani, grazie agli enzimi che si svilupperanno diventerà lievito e si avrà la quantità di massa fermentata necessaria alla panificazione.
La scoperta del lievito, del tutto casuale, viene attribuita agli Egiziani. Si racconta che un giorno una donna dimenticò un pezzetto di pasta di pane da qualche parte, e l’indomani, non si sa come, sia andato a finire gonfio e pieno di bollicine in mezzo all’intriso pronto per le focacce. Dal forno quella volta non uscì la solita focaccia azzima, ma una sostanza profumata e soffice. Quella disattenzione da allora in poi permise di ottenere un prodotto migliore e più leggero: il pane lievitato.  
Per preparare il pane in casa bisogna essere almeno in due. Con il fazzoletto in testa e le cocche annodate dietro la nuca, le donne si allacciano il grembiule, si tirano su le maniche fino al gomito e sono pronte per il rito settimanale. Dopo avere sciolto il cruscenti assieme ad un pizzico di sale nell’acqua calda, ràzzia, si versa un po’ di farina nella madia, si prepara la fonta e dopo avere simbolicamente tracciato all’interno dell’area il segno della croce, si versa la ràzzia e a poco a poco si intride la farina lavorando energicamente di pugni. 

Appena il pastone, a forza di braccia e di sudore, risulta sufficientemente amalgamato, si passa alla seconda fase che è quella dell’assodamento. Per questa operazione, faticosa anch’essa, si usa la sbria una speciale gramola in legno dai vaghi lineamenti femminili: proprio sul petto è incavicchiata una delle due estremità dello sbriuni, il robusto asse che, impugnato dalla parte opposta, viene alzato e abbassato di continuo sulla pasta, pigiandola, mentre la compagna, seduta alla fimminina sulla testa della gramola, la gira, la rigira, la solleva. Dopo una buona mezz’ora di fatica,  la pasta è già bell’e scaniata, e allora si inizia ad appanare   
Dal pastone vengono staccate pezzature di circa 1 kg che prenderanno subito la forma di pane. A queste, nel forno di solito si accompagnano pezzi più piccoli (i cosi minuti): si tratta di pastoncini di mezzo kg circa a forma di mezza luna (ialuna), o a forma di S o di ciambelle (cudduri).Vengono quindi plasmati gli immancabili pupi, appannaggio dei bambini: u iadduzzu , a cudduredda, a pupa vera e propria (probabilmente questi pani dalle forme particolari sono retaggio di carattere propiziatorio risalente alle antiche feste pagane). Infine, secondo la consuetudine, si preparano altre due tipologie di pane: u scacciuni e u cudduruni. Questi possono assumere caratteristiche e nomi diversi a seconda delle zone. A Palazzolo u scacciuni corrisponde a una pagnotta schiacciata (a Sortino si chiama pizzolu), e non è altro che la stessa pasta del pane sottratta alla sbria, quindi abbastanza molle, e per questo detta pasta muddiata. Si inforna assieme al pane e come si sa è l’ideale per essere condito, ancora caldo, con olio di oliva, origano, pepe rosso, sale. Con l’appellativo di cudduruni nel palazzolese e dintorni, si intende uno stacco di pasta scaniata di forma rotonda e piatta, con la faccia segnata da colpi di forchetta e frizionata con olio d’oliva nostrano. Si può cuocere al forno ma si può anche friggere in padella. Se rimane un ultimo pezzetto di pasta si fa nu lollu, un panetto informe che si mette ad arrostire sempre nel forno. Il pane si dispone a lievitare nel canzu;  è, di solito, il letto o un tavolo sul quale viene stirato un telo bianco (u pagghiazzu ro pani) tessuto al telaio tradizionale (immancabile negli atti dotali sino alla fine del secolo scorso) e messo precauzionalmente a riscaldare per non bloccare il processo di lievitazione. Sistemato il pane, si ripiega il telo e si aggiungono un paio di coperte. Intanto che il pane lievita, si incomincia ad ardere il forno utilizzando le frasche ricavate dalle periodiche potature degli ulivi, dei mandorli, dei peri  e di altro. Il forno raggiunge il giusto grado di temperatura quando l’interno incomincia ad imbiancare, non troppo però, altrimenti diventa “allegro” e il pane viene fuori bruciato.
Intanto tra una fascina e l’altra si controlla la lievitazione, tastandolo: si mette il pane in una mano e con l’altra si danno dei sapienti colpetti per percepirne la tonalità. La pasta è perfettamente lievita quando il suo tono (secondo la pratica popolare), risulta analogo alla reazione che dà la pancia di un lattante, quando viene toccheggiata e auscultata dal medico.  Se è già lievita si “passa”: con una forchetta si incide longitudinalmente. Questo solco dentro il forno incandescente, diventerà una enorme voragine che, dilatandosi sempre di più, farà cuocere meglio il cuore del pane.
Col rastrello si tira la brace che si ammonticchia davanti alla bocca, e con l’apposito scopino si scupulìa, si spazza cioè il piano del forno per liberarlo dai residui di cenere e di carboni. Di solito prima di infornare si recitano dei versetti di affidamento rivolti alla Vergine: “Ora finìu l’opira mia: faciti vui, Vergini Maria”. Con la pala, quindi, si incomincia ad infornare, un pane per volta, da sinistra a destra e in modo circolare. Per ogni pane che si inforna si recitano dei versi propiziatori che variano a seconda della devozione e dei luoghi:
“Pattri, Figghiu e Spiridussantu, / pozza crisciri n’auttru tantu;
Santa Rrusulìa, / iancu e rrussu ccomu a-ttia;
Santu Ramuni, / ogni ppani quantu m’pastuni;
Né lisu, né passatu; Ggesù-mmiu sacramintatu;”
San Micheli, / mittitici ‘a jamma cu tuttu lu peri…
 (Padre figlio e Spirito Santo, / possa crescere ancora tanto;
 Santa Rosolia, / bianco e rosso come te sia;
Santo Raimondo, / ogni pane quanto un pastone; 
Né afflitto né passato, / Gesù mio sacramentato;
San Michele, / mettete la gamba con tutto il piede…)
Finito il giro si ricomincia nuovamente, avendo cura di non fare “baciare” i pani tra di loro. Le cose minute, i pupi e u lollu vengono infornati per ultimi; quindi si chiude lo sportello e col pollice si traccia una crocetta innanzi alla bocca del forno.
Durante i primi dieci minuti di cottura, sulla faccia del pane cala a-rrosa, cioè incomincia a gonfiare e ad indorarsi ed è segno che tutto procede bene. Se invece il pane è afflitto, lisu, dalla crosta si sollevano delle bolle nere, mpuddi, che ne compromettono soprattutto l’estetica.
Dopo un’ora abbondante di cottura, si sforna, si sciunna, ed ecco il pane, elemento basale per il sostentamento di una intera settimana: dorato, pieno di sostanza, bello a vedersi, tanto che quando si parla di una persona specchiata e pulita e gli si vuole fare un complimento, si pronuncia il seguente aforisma: “E’ comu u pani ri casa! Beddu ri rintra e beddu ri fora!” (E’ come il pane di casa! Bello di dentro e bello di fuori!).

Essendo il pane la “grazia di Dio” per eccellenza, il suo uso e consumo, è ancora legato ad una serie di rituali conformi alla valenza sacrale di cui è tenuto in conto. Il pane nuovo, quello ottenuto dal grano novello, un tempo era considerato primizia, e come tale, al primo morso era riservato un rito esorcizzante: si imboccava passando il braccio destro dietro la nuca, cercando di arrivare alla bocca dalla parte opposta. Di questa antica usanza, del tutto scomparsa, ne fa menzione P. Giacinto Farina nella sua “Selva”, datata 1869, a p 40: “…Facendo il pane nuovo si mangiano il primo pezzetto con la mano che passano dietro l’occipite sin alla bocca, se non giunge dicon già per celia, che quel tale non giungerà per l’anno venturo a sopravvivere”. Ma sono tanti, ancora oggi, i gesti e le consuetudini messi in atto da tutte quelle persone (senza distinzione di ceto) sensibili e paghe per un dono così grande come quello del pane quotidiano. Ad esempio, il pane a tavola non si mette mai sottosopra, non si taglia dalla parte del suolo, non si infilza inutilmente col coltello ma si taglia, e i vecchi contadini prima di tagliare il pane e di mangiarlo fanno su di esso il segno della croce col coltello. Se cade un pezzetto di pane per terra nel raccoglierlo lo si soffia o si strofina col tovagliolo o con la mano e nel baciarlo si pronuncia la frase rituale: “è grazia di Dio”.
Il pane, infine, per mantenersi fresco e morbido per un’intera settimana veniva conservato nto ziruni: un contenitore cilindrico, alto e senza manico, intrecciato, manco a dirlo, dallo stesso contadino con canne e virgulti di oleastro e foderato all’interno con un sacco di canapaccio.

I SIRACUSANI, bimestrale di storia arte e tradizioni, gennaio-febbraio  2004 n.47

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