«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Non craunìunu più i carbonai degli Iblei



Un tempo il carbone di legna era l'elemento base per la cottura dei cibi e per il riscaldamento domestico. Usato dalle classi più agiate divenne poi di uso comune anche nelle classi popolari fino a quando, con il progresso e con l'avvento della tecnologia, cambiarono i sistemi di riscaldamento e di cottura  (nei primissimi anni ’50 arrivò il Pibigas) e di conseguenza anche il tipo di combustibile. Il suo uso oggi è limitato quasi esclusivamente alla cottura dei cibi alla brace, ma ancora fino agli anni sessanta la produzione di carbone era assai attiva là dove esistevano boschi ed alberi da abbattere.

 Boschi e alberi degli Iblei

Gli Iblei erano ricchissimi di materia prima da trasformare. Le aree boschive di Mandredonne, Giambra, Santolio, Bibbìa, Cardinale, Bauly, Gaetanì, Ranieri, Castelluccio, Ciurca, Bosco Rotondo, Filiporto, e le nostre campagne sono ricche soprattutto di  querce e di lecci, il legno migliore per la produzione di carbone, ma anche di listincu (lentisco), ulivi, oleastri, mandorli, carrubi, scornabecchi (Pistacia terebinthus), favaragghi (bagolari), ecc.
Di conseguenza i boschi pullulavano di centinaia di carbonai intenti ad assicurare la produzione di una delle fonti energetiche più importanti dell’umanità. La “giambra” di Cassaro, ad esempio, era una fonte inesauribile di legna, tanto che un tempo l’attività principale di questo piccolo comune ibleo era costituita dal commercio di ghiande (alimento eccellente per i maiali)  e dalla produzione di carbone. A motivo di quest’ultima occupazione che li vedeva sempre a contatto con il fuoco delle loro carbonaie i Cassaresi si meritarono l’azzeccato appellativo di culu rrussu.
Quando nel 1941, aumentata la necessità di carbone, lo Stato requisì in tutta Italia migliaia di ettari di boschi, le contrade di Bauly e Cardinale, diventarono dei veri e propri cantieri per la produzione di questo combustibile e per il reperimento del legname di “servizio”. In questi lussureggianti territori arrivarono ad essere impegnate per un paio d’anni più di mille persone specializzate in questo particolare e difficile mestiere; oltre a quelli locali, furono ingaggiati carbonai  provenienti dai territori limitrofi ma anche dalla zona etnea e dalla Calabria. Decine di famiglie abitarono per svariati mesi nei pagghiari, ripari rudimentali di legni e frasche, da loro stessi approntati vicino ai fussuni.
Proprio a Bauly, nel periodo in cui si crauniava a pieno regime, si arrivò a governare contemporaneamente anche 150 carbonaie. Una volta, sempre nella stessa contrada, fu murata una gigantesca carbonaia con una base di oltre 100 metri di diametro che produsse ben 350 quintali di carbone. Si scarbonò per undici notti di seguito e furono riempiti 700 sacchi. 

U fussuni

          Gli alberi migliori per la produzione del carbone sono quelli adulti e latini (il carbone del legno sarbagghiu si scanigghia). Il primato tocca al leccio e alla quercia (a ‘gghiastru spara, fa faiddi; il mandorlo rende poco in caloria; l’ulivo in durata; il carrubo non è compatto, il noce, u durbu ‘platano’, il pino sono frauli, leggeri; l’olmo è il peggiore). La stagione propizia per l’abbattimento degli alberi andava da settembre a febbraio mentre u crauniari durava fino a maggio; poi si sospendeva per evitare incendi alle messi già gonfie di grano. Prima dell’avvento della motosega si lavorava con l’accetta e con il sirruni ‘miricanu; i pezzi si trasportavano all’antu, precedentemente fissato, addosso sulle spalle (tenendo sempre presente che cu fa ligna a mala bbanna, ncuoddu a-sciri) o a barda dei viestii.
          La grandezza delle carbonaie dipende dal luogo dove si impiantano e dall’abilità del carbonaio Quelle di medie dimensioni producono circa 20 quintali di carbone a fronte di 80 quintali di legna, e ci vogliono cinque giorni di governo continuo, 24 ore su 24, fino a quando tutta la legna non diventa carbone.
          Una volta predisposta l’aia carbonile (cianu ra fossa o antu), si accatastano più giri di legna in ordine di grandezza inversa alla collocazione, attorno all’area del costruendo fussuni: sotto, la legna più minuta, sopra, i ceppi più grandi e quelli ri catasta. Piazzati questi ultimi al centro e avendo cura di lasciare all’interno un canale di comunicazione (caminu), si inizia a murari u fussuni: la legna più grossa e regolare viene appoggiata in posizione leggermente inclinata verso il centro con la parte sottile rivolta verso l’alto;  poi a poco a poco si continua ad involgere aggiungendo altri strati e stringendo verso il centro e verso l’alto, posizionando pezzi sempre più piccoli e sottili (braccami) sino ad ottenere una specie di semi cupola a base molto larga. Finito di murari si continua con un giro di grosse pietre, a mo’ di ghirlanda (cirranna), attorno alla base della catasta. Poi si copre con puddari e foglie secche e successivamente si ricopre con uno spesso strato di terra (circa 10 cm) che servirà a proteggere la legna, mentre lentamente, fuori dal contatto dell’aria, compie la sua palingenesi trasformandosi in carbone organico. Alla base si lascia un’apertura, ucca, che comunica con il caminu, il quale alla sommità ha un’altra bocca che viene aperta solo per l’alimentazione.
          Caricato il caminu con legna secca (la prima carica deve essere facilmente infiammabile e di piccola pezzatura) si chiude l’imboccatura superiore e si dà fuoco da quella inferiore. Questa operazione si effettua sempre all’alba per potere controllare meglio durante la giornata l’andamento del fuoco. Il camino (la panza della carbonaia) viene alimentato due volte nelle 24 ore: la sera e la mattina. La carbonaia incomincia a “cuocere” dall’alto: il fuoco, sotto il manto terroso, inizia un girotondo invisibile e silenzioso fino a quando arriverà a bruciare i piedi della carbonaia. A mano a mano si mazzia u fussuni, si pressa cioè la terra con una pesante cianca (mazza) di ilici per evitare che possa prendere aria. Se in qualche punto fa u budduni, a causa di un lieve cedimento, si deve subito ‘ntivare con un legno grosso e ricoprire di terra, altrimenti “parte” la fiamma e si incendia u fussuni.
          Ultimato il processo di essiccazione e iniziato quello della combustione vera e propria, con una pertica (u pirciaturi), di tanto in tanto si praticano dei piccoli fori per regolare l’afflusso dell’aria. L’abilità del carbonaio consiste proprio nel sapere governare e correggere u fussuni, poiché questo è come una creatura durante i primi mesi di vita: si deve controllare giorno e notte e affrontare tutti gli imprevisti del caso.

La scarbonatura

                Il fumo della carbonaia è la spia infallibile del grado di combustione raggiunto. Se è ancora intenso e scuro vuol dire che la combustione non è completa; quando diventa chiaro e azzurrognolo, è segno che la combustione è avvenuta: si sente l’odore del carbone. Il manto di copertura incomincia a cedere e, scricchiolando, si abbassano i fianchi della carbonaia.
           A questo punto si chiudono gli sfiatatoi, col rastieddu ri lignu si toglie la terra carbonizzata (gghinisi) e si ricopre con terra fresca, quindi si tolgono le pietre della cirranna, così il carbone accupa e raffredda. Se occorre si versa anche dell’acqua attraverso il focolare o nei punti ancora accesi (senza esagerare però, per evitare di avere u crauni vagnatu, in senso concreto, non metaforico). E’ l’acqua dunque a chiudere il ciclo: assieme alla terra, al fuoco e all’aria è l’ultimo dei quattro elementi empedoclidei che nel governo di questa difficile arte del fare il carbone, sapientemente dosati interagiscono in modo che “dalla loro mescolanza e separazione si formano le cose”.  
           Dopo uno o due giorni, di mattina presto, ancora col buio, si inizia a scarbonare. Se c’è vento si rimanda. Si toglie un pezzo per volta e il carbone deve avere la stessa pezzatura di quando era legno, deve essere adamantino e sonante. E’ il segnale che è cotto al punto giusto ed è carbone di qualità.
           Oggi di “uomini neri” ne sono rimasti pochi; sono questi gli ultimi custodi di un’arte ultra millenaria che alcuni studiosi fanno risalire all’età del bronzo e ancora prima. In Sicilia sono localizzati soprattutto in alcune zone dei Nebrodi (monte Soro, Caronia) e delle Madonie (Castelbuono, Geraci), ma anche negli Iblei c’è ancora qualche “vecchio lupo solitario” intento alla carbonizzazione del legno nel rispetto delle tecniche ancestrali. La richiesta di carbone da legna tuttavia è minima rispetto al passato e in ogni caso il legno oggi viene distillato e carbonizzato in forni metallici che recuperano e riciclano le varie sostanze che emanano dalla combustione. Il sistema tradizionale delle carbonaie all’aperto, quindi, a poco a poco è destinato a scomparire del tutto, sopraffatto anche da leggi, divieti, e costi che lo rendono sempre più antieconomico per chi fa il mestiere e di conseguenza per il mercato a cui è destinato il prodotto.  

I SIRACUSANI, bimestrale di storia arte e tradizioni, luglio-agosto 2003  

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