L’occasione fa l’uomo ladro. Avendo la
disposizione per la lettura e la materia prima a iosa e a portata di mano,
Masciarò, agente prima della U.T.E.T. poi della Einaudi, di libri ne ha letti
tanti, tantissimi, e continua a leggerne ancora anche se ha smesso di fare il venditore.
Gli piace leggere, parlare e discutere instancabilmente di tutto: di filosofia,
di poesia, di politica, di religione, di Columella, di tradizioni, di arte,
eccetera. Ma, oltre che leggere, conversare e respirare l’aria fine della sua
residenza di campagna in contrada Serravitrano, e tutto il resto, gli piace
pure scolpire facci ri ‘ntagghiu.
E,
anche in questo caso, ha una naturale inclinazione e la materia prima a iosa e
a portata di mano, perché, come si sa, la campagna palazzolese, grazie a Dio, abbonda
più di pietraie che di terra.
A suo tempo, Nostro Signore forse non azzeccò la giusta percentuale di
elementi da assegnare ai colli Iblei e abbondò troppo in puntali; ma, non ha importanza, comunque; ci guadagna sicuramente
il paesaggio assai vario e affascinante, e ci guadagna pure Rosario Masciarò
che a ogni piè sospinto ha solo l’imbarazzo della scelta nel fare sua una
pietra anziché un’altra. E poi, la pietra calcarea della “Formazione Palazzolo”
è duttile, tenera, bianca, con tonalità leggermente dorate, cedevole allo
scalpello per qualsiasi operazione o maquillage.
Il Nostro mette in ginocchio la carriola che si porta dietro nel vano
“canile” della sua Mondeo SW, vi carica la prescelta, e per mezzo di una tavola ri ponti fa riscivolare la carriola
dentro la vettura con il prezioso minerale, patinato e punteggiato di licheni
violacei o giallognoli, a volte litoclasato: quando arriverà il momento lo
sottoporrà a chirurgia facciale presso il suo laboratorio in aperta campagna o
in quello di via San Sebastiano a Palazzolo.
Più che un artista Masciarò si professa un creativo, dotato di fantasia e
di immaginazione; capace di “vedere” di primo acchito nell’apparenza informe di
un pezzo di calcare, un Giano, una Cibele, un viso a lui conosciuto. La sua
dice che non è “arte”, o, se la è, la ritiene un’arte anomala e lui stesso un
“artista” anomalo, naif in senso lato.
Il “mal di petra” Masciarò l’ha
avuto fin da piccolo, quando, affacciandosi dalla finestra della sua casa di
Gagliano Castelferrato, si trovava di fronte la montagna con in cima la rocca e
una miriade di pinnacoli e creste che visti con i suoi occhi diventavano dei
Polifemi, dei Mangiafuoco, dei Garibaldi a cavallo, streghe, uccelli: una sorta
di “Castello incantato” simile a quello
realmente scolpito nelle rocce del monte Kronos dal contadino - artista
Bentivegna. Si arrovellava e si affannava il piccolo Rosario nel mostrare
quello che lui “vedeva” e che gli altri non “vedevano” e intanto con la sua
fervida immaginazione collaborava la natura-artista che nel tempo aveva
plasmato surreali figurazioni alla stregua di ingannevoli morgane.
Passati gli anni, poi, e passata molta acqua per calanchi e per ponti, la
sua collaborazione con l’aria, l’acqua, e il vento si è materializzata: armato
di scalpello, mazzuolo e inventiva, ha continuato il lavorìo degli elementi
cavando maschere e volti dalle pietre.
Masciarò è felicemente autodidatta, non vanta nessuna scuola di arti visive
alle spalle; questo suo status artistico è poi diventato una scelta definitiva,
allorché, frequentando a motivo del suo lavoro i fratelli Brancato, uno pittore
e l’altro scultore di gran fama presso l’Accademia di Belle Arti di Catania,
costoro gli suggerirono di non “imbastardire” la sua vena soggiogandola a
canoni e regole che avrebbero impastoiato il suo estro. Dove gli mancava la
scuola, gli fu detto, avrebbe sopperito la sua teoria “masciaròiana” basata sul
principio di entropia applicata all’arte.
Il pensiero che sottende
e che supporta l’istinto “artistico” di Masciarò è informato a questo principio
di fisica che lui ha sposato integralmente e mette in atto ogni qualvolta deve
dare alla luce uno dei suoi volti: “Se ad una pietra amorfa, quindi in uno
stato di entropia (disordine), a poco a poco si immette l’energia delle mani e
quella pensante, la pietra assume una certa forma; tale forma naturalmente
varia a seconda della sensibilità del soggetto che le trasfonde energia: il
risultato finale è così un unicum irripetibile che riflette gli intendimenti
dell’artista che l’ha tolta dallo stato di caos.
Nel momento in cui io
scelgo una pietra” continua Masciarò “la scelgo perché già in nuce ‘vedo’
l’embrione della figura che intendo realizzare. Partendo da questo canovaccio
naturale e dando fondo ad alcune mie recondite cognizioni di disegno, con la
matita vi tratteggio sommariamente
l’architettura del viso, mettendo in evidenza le parti anatomiche più
significative: gli occhi, il naso, la bocca, la mascella soprattutto. Una volta
abbozzato il soggetto, poi sono io che decido, nei particolari, quello che
intendo cavare fuori, ciò dipende anche dai miei stati d’animo. Finito il
lavoro, per un po’ di tempo lascio il manufatto in quarantena sorvegliata: lo
osservo quasi distrattamente poi lo studio con attenzione e alla fine se
ritengo di apportare delle modifiche intervengo senza indugio.
Lo stesso concetto di
entropia” prosegue “lo sfrutto a livello psicoterapeutico con alcuni ragazzi
affetti da disturbi mentali del C.T.A. di Siracusa, diretto dal dott. Cappello.
Come membro dell’ “Associazione operatori psichiatrici”, di cui è presidente il
dott. Parisi, una o due volte la settimana mi reco a Siracusa presso questa
comunità e concretamente dimostro ai ragazzi ospiti come si fa a trasformare
una pietra senza forma e senza significato, in una che rappresenti qualcosa.
Più si fornisce energia alla pietra a colpi di mazzuolo e scalpello, tanto più
diminuisce l’entropia e la pietra assume una certo aspetto. I ragazzi mi
seguono con la massima attenzione e la fanno a gara nel cimentarsi in questo
proficuo esercizio di sculturo-terapia. Debbo dire che i “miei allievi” sono
riusciti a realizzare alcune ‘opere’ che li hanno assai gratificati. Sono
contento, e io, per la verità, mi sento più gratificato di loro.”
Un tipo vulcanico questo Masciarò, eclettico, dall’aspetto un po’ bohémien:
capelli lunghi, velati d’argento, ventosi, barba anch’essa grigia, alla
garibaldina, occhi azzurri, pronto al sorriso, gioviale e dotato di una buona
dialettica; parla, parla e intanto umetta e arrotola la cartina con dentro il
trinciato forte, lo stesso che fumava suo nonno. Si accende con calma lo
sgorbio di sigaretta e alla prima boccata incomincia a sprigionare,
soddisfatto, nuvolette di fumo azzurrognolo.
Le sculture e i volti di pietra realizzati da Masciarò sono centinaia e
rigorosamente diversi l’uno dall’altro: è la fantasia a presiedere alle sue
creazioni, in osmosi con le pulsioni, l’umore, le emozioni che
contraddistinguono ogni individuo. Il suo è un figurativo primordiale, “mostruoso”, che richiama parvenze antropomorfe dalle
fisionomie inquietanti ed enigmatiche. Un universo onirico, popolato da
sorprendenti figure e volti che mescolano al profano un alcunché di magico, di
sacrale: divinità agresti, dee modiate o con crocchi piramidali, santi barbuti,
pelati, monaci cappuccini, erme apotropaiche, figure androgine, luciferine,
dei, semidei, mascheroni beffeggianti,
volti muliebri, facce imbronciate, ridenti, felici.
“A differenza dell’artista di professione” riprende Masciarò “ il quale
progetta l’opera in tutti i particolari, io invece assecondo la pietra, mi
faccio condizionare spesse volte dalla sua “forma” amorfa. Un esempio lampante,
è il mio “urlo di Munch”. Trovandomi nelle mani una pietra bucata, osservando
il foro ho pensato subito al capolavoro di Munch e ho intagliato tutto il resto
intorno al foro-bocca: gli occhi, il naso…”.
E’ una narrazione fitta e frammentata quella di queste pietre, un
inesauribile caleidoscopio che racconta e disvela il mito, le teofanie, i riti
arcaici, l’homo sapiens, le civiltà ancestrali, la storia, la metastoria, la
religiosità.
“Le è capitato qualcosa di particolare? Una singolare richiesta da parte di
qualcuno?”. “Mi è successo un fatto veramente insolito. Avevo scolpito una
pietra dalla forma concava e asessuata. All’interno di questa cavità-grembo,
avevo però dato vita ad una figura maschile. Un giorno è venuto un signore di
Torino il quale mi ha chiesto una pietra che simboleggiasse la maternità. Io,
dispiaciuto di non poterlo accontentare, gli ho mostrato la pietra concava,
così, solo per fargliela vedere. Inaspettatamente il signore ha cambiato idea e
ha portato via la pietra mostratagli, che, in certo qual modo rappresentava la
“paternità”. Sposato, erano sette anni che tentava inutilmente di avere un
figlio. Si pensava che la causa fosse la moglie e invece l’intoppo era proprio
lui. Risolto il problema grazie ad una appropriata terapia, la moglie era
rimasta incinta e da lì a qualche settimana avrebbe dato alla luce un figlio”.
Pochi semplici attrezzi, alcuni dei quali costruiti ad hoc dal suo ferraio
di fiducia, gli servono per il suo lavoro: martello, mazzuolo, scalpello a
taglio martellina taglio e punta, martellina accetta e punta, martellina a tre
punte, subbia, lima grossa, lima fina, spazzola metallica.
Masciarò oltre che dello scalpello, per mettere in risalto tratti ed
espressioni particolari delle sue maschere, si serve anche del colore naturale
delle pietre, sfruttando gli effetti cromatici della litoclasi e della patina
con le sue delicate sfumature cangianti, chiaroscurali, grigiastre, rossastre.
Per favorire il processo di ossidazione delle sculture fresche di
scalpello, specie nel periodo invernale, il maestro mette in pratica un
consiglio datogli da un vecchio campagnolo della contrada: fa delle
spennellature con latte di mucca appena munto. Secondo questa teoria,
scientificamente non provata ma sperimentata dalla sapienza contadina, la
patina vaccina impedirebbe le incrinature della pietra appena lavorata dovute ai
repentini sbalzi di temperatura. Anche in questo caso Masciarò conferma il suo
codice improntato alla spontaneità e alla autenticità: niente sostanze
chimiche, niente mordenti sul modellato, solo latte fresco prodotto
nell’Altipiano ibleo.
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