A richiesta faceva da
secondo agli autotrenisti quando per legge erano obbligati a viaggiare con
accanto un altro autista fornito di patente omologa (“terzo e terzo” veniva
chiamata all’epoca).
Era amante dell’acqua e
difatti per questo suo vezzo qualcuno lo aveva eletto “ministro della sanità”
per “meriti” speciali. In estate, quando “lavorava” come autista di compagnia,
alla prima bbruratura che gli
capitava, faceva bloccare il mezzo e andava ad inzaccherarsi dentro l’acqua lippusa, vestito, così com’era. Appena
usciva grondante dal torbidume e con le scarpe sgrigliolanti, ciac, ciac, ciac, ritornava al suo posto
in cabina e, grazie alla buona stagione e al caldo del motore, scarpe e piedi
incominciavano ad asciugarsi, e davano inizio ad un processo di distillazione;
l’acqua caricata dalle scarpe e ingentilita dall’afrore irresistibile delle
estremità, diventava Eau Sauvage,
liberando all’interno della cabina voluttuose e impagabili zaffate di fragranza
esotica.
Era amante dell’acqua.
A tempo di bagni a mare, i quattro cagnulazzi
ra Vardia si imbarcavano sulla sua “millecento” strapuntinata (capace di
trasportare fino a 12 cagnoli) e don
‘Mmastianu, a pagamento, li
accompagnava a Fontanebianche non senza aver prima sistemato sul tetto della
vettura le due camere d’aria belle gonfiate: una grande (del Leoncino) e una
più piccola. A mare, dopo essersi infilata la cammiritaria grande all’altezza dell’ombelico e quella piccola al
collo (sembrava l’uomo della Michelin), anche lui si metteva a mollo,
lungamente. Prima di abbandonare la spiaggia per il ritorno, passava alla
doccia, come tutti gli altri bagnanti. Di solito si insaponava con l’Olà che
teneva sempre in macchina e che gli serviva per sgrassarsi le mani, visto che
faceva anche il gommista-biciclettaio, ma in mancanza usava na scagghidda ri sapuni. Quando usciva
dalla doccia, sgaddatu a sei e a
sette acque, non si riconosceva più, sembrava aver cambiato pelle, quasi
bianco, quasi cereo, quasi pulito.
Era sicuramente scuro
di pelle ma sembrava più nero di quanto in realtà non fosse, o per una sorta di
abbronzatura permanente o perché, con il mestiere che faceva era sempre a
contatto con grasso e untume che gli ombreggiavano la faccia, le braccia, le
mani, le dita nere e pelose, le unghie nere e lucenti (d’untume). A proposito
di unghie (nere), era solito raccontare fra tante mirabilie che in Africa (era
stato a Tripoli) gli indigeni erano così bravi, ma così bravi nell’uso della
cerbottana da essere capaci, alla distanza di cento metri, di colpire anche n-niuru ri ugna. Anche gli occhi aveva
neri, neri e mansueti come quelli di un agnello, i capelli neri, lisci e oleosi
di grasso, lo stesso di cui aveva sporche le mani, i denti bianchi. Era alto,
robusto, con una pancia aggettante e una bella pappagorgia sotto il mento
marcato da una accentuata fossetta nel bel mezzo; un po’ sciamannato nel
vestire: in estate una maglietta blu sempre corta che si fermava sopra
l’ombelico e con la punta della currìa
penzoloni; in inverno portava la tuta, sempre blu e sempre grassa e scurita
dall’untume.
In via Nazionale 16,
c’era e c’è ancora un piccolo locale di tre metri per cinque. Quella era la sua
suite-officina, lì don ‘Mmastianu c’abitava e ci lavorava: sotto, la bottega,
dove “s’ammazzava la vita” di fatica e un cesso nascosto da uno straccio di
tendina quasi inesistente; sopra, il sularu,
al quale si accedeva per una scala fissa in
legno: letto (prima che si convertisse ai trispiti e alle tavole il materasso era adagiato su vecchi
copertoni), fornello a gas, due sedie, un filo da una parete all’altra per
posare gli indumenti o stenderli ad asciugare quando gli capitava di lavarli,
una pilozza in legno. Tutto qui. Era
single ed autosufficiente: sopra dormiva, mangiava e faceva all’amore quando si
fidanzava “in casa”; e gli capitava spesso; anzi quando si sentiva
ringalluzzito intraprendeva maratone amorose anche di una settimana: si
chiudeva con la sua fiamma di turno dentro il suo nido d’amore e non dava conto
a nessuno, per nessun motivo. Nel periodo in cui era “fidanzato”, i ragazzi che
bivaccavano dentro l’officina si facevano più numerosi: prima o poi la
“fidanzata” di turno doveva uscire dalla “stanza da letto”, e nello scendere la
scala tra un piolo e l’altro, volente o nolente, era costretta a mostrare il
“panorama” ai ragazzi che stavano sotto e con il naso all’insù.
L’officina, il più
delle volte rimaneva chiusa per i numerosi “impegni” di don ‘Mmastianu il quale oltre a fare il
mestiere di autista di compagnia, di gommista, di biciclettaru,
teneva (senza licenza, naturalmente) auto noleggio con e senza autista, moto
noleggio, affittava mosquiti e
biciclette, aggiustava moto, ma soprattutto le sue stesse sgangherate
automobili di quarta e quinta mano (Ardea, Balilla, 504, millecento
strapuntinata). Molto ambita dai giovani, era la sua 175 Bianchi con forcella
telescopica. Per un certo periodo fece anche l’autista di piazza con un
side-car Guzzi, con il quale, si era specializzato nel trasportare fidanzati in
vena di fuiutini: la donna dentro la
navetta, il fidanzato dietro, sul sellino, assieme a don ‘Mmastianu.
L’officina era piena
delle cose più inutili, lasciate alla rinfusa: ruote, copertoni, biciclette
appese al muro, a terra, capovolte con le gomme sbudellate, pinze (la pinza era
il suo attrezzo magico, aggiustava tutto con la pinza), tenaglie, cacciaviti, a
terra, sul bancone, una tanica tagliata a metà per immergere le camere d’aria scoppie nell’acqua fetida di
sentina.
Don ‘Mmastianu non si dava eccessivo
pensiero per il futuro: mangiava, beveva, gli piaceva stare con i giovani, e
con gli amici, tra questi, don Turiddu
Leone, Boncuragghiu, con il quale la
sera andava per taverne.
Era anche un tipo
distratto, don ‘Mmastianu. Una volta
si imbarcò delle “ragazze” nella “seicento” e si recò a Floridia per vedere un
kolossal. All’uscita dal cinema la comitiva salì sulla “seicento” per fare
ritorno a Palazzolo. L’auto però non era quella di don ‘Mmastiano, era uguale sputata alla sua, ma non era la sua. Fu una
nottata da tregenda per il legittimo proprietario e anche per lui: carabinieri,
telefonate, contro telefonate, parole grosse.
Un’altra volta, era il
giorno in cui doveva convolare a giuste nozze il padre dello scinziatu, don Pippinu Guglielmino buonanima. Il poveretto era appena uscito dal
barbiere tutto sbarbato e allicchittiatu:
taglio, shampoo, frizione, lacca… e dalla via Nazionale si stava recando a casa
per indossare l’abito da sposo. All’improvviso all’altezza del civico 16 si
aprirono le cateratte e fu infradiciato dalla testa ai piedi da un violento
getto di acqua con scorce di cipolle: “Ma iù m’avia affacciatu e nun c’era
nessunu” fu la serafica risposta di don ‘Mmastianu alle vibrate proteste del malcapitato promesso sposo. Don
‘Mmastianu, aveva svuotato
distrattamente la sua pilozza in legno dal balconcino del solaio.
Ma era anche “geniale”
don ‘Mmastianu; come quella volta
quando verso Bibbinello gli si ruppe il cambio della millecento strapuntinata.
Ma lui non si perse d’animo, innestò l’unica marcia funzionante, la marcia
indietro, e arrivò a Palazzolo, con un feroce torcicollo e con gli occhi fuori
dalle orbite, ma arrivò.
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