…sul ponte di Primosole… in
canottiera, con un cappello di paglia a larghe falde si sbracciava e
gesticolava come un ossesso con in mano grappoli di sacchetti di plastica pieni
di luppina….
PALAZZOLO
ACREIDE. Lupino deriva dal latino "lupus ". In origine il
termine indicava una pianta spontanea tipica di luoghi selvatici, frequentati
esclusivamente da lupi. Nel corso dei
secoli, grazie alla sua capacità di sfruttare i terreni più poveri e fornire alimento
a basso prezzo, il lupino fu oggetto di esperimenti e di cure da parte
dell'uomo che riuscì a selezionare diverse varietà a seconda dell’uso che si
intendeva farne.
Del
lupino si può utilizzare la pianta, il fiore e il seme.
La
pianta come erbaio da sovescio: la luppinata.
Era questa un’antica pratica che si effettuava nei vigneti dove si interrava,
prima che la pianta fruttificasse, per arricchire il terreno di sostanza
organica e di azoto, era l’equivalente della favata. Prima del sovescio le parti aeree più tenere venivano date
in pasto al bestiame come foraggio
Il
fiore come elemento decorativo per i bellissimi colori degli ibridi
ornamentali.
Il
seme come alimento per il bestiame (bovini, ovini) dopo macerazione in acqua e
per l’uomo.
I
lupini, previa deamarizzazione, in tempi remotissimi hanno costituito buoni
piatti di minestra per le popolazioni più povere, ricchi come sono di un
contenuto proteico più elevato di quello degli altri legumi. C’è anche la
credenza che questa pianta arrechi beneficio a chi
soffre di diabete: mangiando semi di lupini tostati o crudi o bevendo l’acqua
di cottura degli stessi, la sostanza amara di cui abbondano cioè l’alcaloide,
sostituisce l’insulina come elemento ipoglicemizzante.
Poiché
i semi delle vecchie varietà avevano un elevato contenuto di alcaloidi che
conferivano un sapore terribilmente amaro, oggi la specie coltivata e più nota
è il lupino bianco (lupino albus) anch’esso amaro ma in percentuale minore
rispetto alle altre specie.
A
LUPPINA
E
oggi, più che alimento a luppina è un passatempo, uno sfizio, che assieme alla calia, ai semi di zucca, alle castagne, alle nocciole, alle
arachidi, troviamo nelle sagre e nelle feste paesane dove viene venduta nelle
bancarelle (si trova anche nei supermercati in buste sigillate). Si gusta sgusciandola con una leggera pressione delle dita,
in modo da eliminarne la pellicola esterna. I semi prima di diventare luppina vengono sottoposti a un
processo di deamarizzazione che per gli addetti è un vero e proprio rito con
tempi e formule che si tramandano da una generazione all’altra.
Il
1° agosto del 1999 in
compagnia del mio povero fratello e attrezzato di Nikon andai a visitare il
laboratorio artigianale per la dolcificazione dei lupini in contrada Reitana,
vicino Acitrezza. Dopo gli scatti, uno dei lavoranti gentilmente mi fornì
notizie sulle vari fasi di lavorazione dei semi. Come prima cosa i semi vanno
tenuti ammollo in acqua fredda per 24 ore. Poi finiscono in un pentolone dove
cuociono immersi in acqua salata fino a quando il colore passa dal bianco al
giallo acceso. Successivamente si depositano in grandi cesti metallici dentro i
quali restano immersi in acqua corrente per almeno 5 giorni onde consentire il
dilavamento di una parte degli alcaloidi. Per ultimo si mettono a scolare in
panieri di vimini, aggiungendovi una debole salatura fino a quando stufano e
iniziano a sfarinare.
Proprio
da Acitrezza e con un carico di lupini salpò Padron ‘Ntoni dei Malavoglia con la sua Provvidenza: “Padron ‘Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con
lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a
credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che
c’era un bastimento di Trieste a pigliar carico…”.
L’acqua
corrente per il dilavamento può essere anche quella di un fiume. Proprio del
fiume si serviva il luppinaru di
Sortino Vincenzo Aliotta, in questo caso era il torrente Ciccio. Costui
sistemava i semi in sacchi di iuta e li affidava all’acqua del fiume per i
giorni necessari. Poi a casa procedeva come già detto. Non si sa come e perché
ma la sua luppina era veramente
rinomata, la patina biancastra, raddu,
di cui era vestita, la rendeva appetibile e dolcissima.
I LUPPINARI
Ricordo di un giovane luppinaru
solitario sul ponte di Primosole, al bivio per Lentini. In canottiera, con un
cappello di paglia a larghe falde si sbracciava e gesticolava come un ossesso
con in mano grappoli di sacchetti di plastica pieni di luppina.
A luppina oltre che
essere venduta nelle bancarelle, fino a qualche decennio fa era venduta da
umili ambulanti per le strade del paese: u
luppinaru… u luppinaru… C’era chi
girava a piedi, c’era chi passava con l’asino fornito di capaci bisacce. E’ il
caso del citato Aliotta che assieme al suo paziente asino faceva il porta a
porta tutti i giorni e nel frattempo aveva modo di scambiare opinioni e notizie
con avventori e avventrici (soprattutto con queste ultime). Senza saperlo, né
lui né il suo asino, davano corda ad un vecchio modo di dire che suona così: “fari
comu lu sceccu di lu luppinaru”, cioè, fermarsi a chiacchierare con
chiunque s’incontri.
A
Palazzolo sino alla metà degli anni ’40 girava ancora un luppinaru che vedeva
anche petrolio: in un braccio il paniere con i lupini, nell’altra mano una
latta con il petrolio l’imbuto e la misura: “a luppinedda aruuuci… pitrooooliu”.
A
sera inoltrata u luppinaru usciva per
vendere la sua minuta mercanzia e restava fino a notte alta, visitando le osterie
dove aveva i clienti migliori. I lupini, dal caratteristico gusto amarognolo
ben si accompagnano con il vino quindi i devoti di Bacco aspettavano proprio u luppinaru per incrementare le loro
bevute. Anzi, c’era chi, per timore che u
luppinaru potesse non passare, usciva già di casa con i lupini in saccoccia
pronto ad innaffiarli in osteria.
Anche
i ragazzi quando ancora nei bar non c’erano tartine e salatini e nemmeno
l’“obbligo” dell’aperitivo, uscivano di casa con le tasche piene di luppina e camminando e mangiando
lasciavano una scia di bucce per terra.
LEGGENDA DI NATALE
I
lupini addolciti erano passatempo durante le serate estive e nelle rigide sere
d’inverno quando la famiglia stava raccolta attorno al braciere. La sera di
Natale poi erano di rito e all’occasione venivano anche barattate con fagioli o
fave.
Esiste
una leggenda collegata ai lupini e relativa al Natale, anzi alla fuga in Egitto
della Sacra Famiglia per eludere la caccia di Erode.
Saputo
in sogno delle intenzioni di Erode, Giuseppe prima di tutto fece ferrare l’asino al rovescio, in modo che nessuno
potesse conoscere dalle orme lasciate dell’animale la via che avrebbe fatto, quindi
si mise in viaggio con la Famiglia. Viaggiavano di notte e sul far del
giorno riposavano. In una di queste soste Giuseppe, Gesù, Maria e l’asinello
trovarono rifugio in un campo di lupini che a quel tempo erano dolci come le
fave. Poiché i lupini di quel campo erano secchi e avevano i baccelli maturi
quando i fuggitivi li attraversarono i baccelli cominciarono ad accartocciarsi
e a scoppiettare per espellere i semi. Il Patriarca,
allora, temendo che tale fracasso potesse far scoprire il loro nascondiglio,
rigirò l'asino e riparò sotto altre coperture vegetali. La Madonna , assai turbata,
prima di lasciare l’ingrata pianta di lupino, la maledisse imponendole di
diventare quella che è al giorno d'oggi: un’erba bassa e coi semi amarissimi.
A mia Madre
A mia Madre
IL CORRIERE DEGLI IBLEI, dicembre 2008
1 commento:
Grazie,preziosissimo il suo contributo!
Avrei una domanda se puo' aiutarmi...da COSA e' composta la patina che sembra zucchero a velo che non si trova piu'?E' DIFFICILE FARLA?
grazie
Annamaria
Posta un commento