«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

ERAN VENTUNO: Don Pinu (Giuseppe Pino)


I Palazzolesi lo chiamavano don Pinu pensando che fosse il diminutivo di Giuseppe. In realtà Pino era il cognome e Giuseppe il nome, in famiglia e dagli intimi era chiamato Pippinu.

Era stato carabiniere: alto, tutto d’un pezzo, di corporatura robusta, dal portamento deciso e un po’ imponente, autoritario ed autorevole nello stesso tempo, aveva le gambe ad arco, da cavallerizzo. Una bella faccia rassicurante, dalle folte sopracciglia e con un naso grosso e dei pelini proprio sulla punta, e un sorriso, con un diastèma agli incisivi che aggiungeva fascino al carisma. Pochissimi capelli, quasi calvo, con una accentuata canizie sulle tempie e una sfumatura bassa tutta intorno che dalla nuca continuava con dei batuffolini sale e pepe sotto la camicia fino alle spalle. Portava bretelle (e cinto erniario) sia d’estate che d’inverno. Nativo di Francofonte, nel 1927 rilevò il bar “Bordieri” al n. 41 del Corso Vittorio Emanuele. Più tardi, nel 1935 si trasferì al civico 69 utilizzando i due vani sul Corso per il bar e il resto per abitarci. Due anni dopo si trasferì al n. 17, sempre al Corso e sempre sullo stesso lato. 
Lo stanzone con la volta a botte era diviso in due da un tramezzo vetrato e ingiallito dal fumo: davanti il bar, appresso la sala da gioco. Dietro c’era un ammezzatino e quindi il laboratorio. Superata la porta a molle tipo saloon,  all’entrata a sinistra si trovava l’insormontabile bancone frigorifero azzurro marca “Verbano” con sopra l’ancora più insormontabile e fumigante macchina da caffè “San Marco”, su cui svettava una Nike alata. Il caffè si comprava crudo, si tostava con l’atturraturi a mano, si macinava a mano e a mano si pompava l’acqua (prima che entrasse in esercizio l’acquedotto comunale) per la caldaia della macchina espressa.
Dietro il banco della mescita, tre scaffali bicolori, beige e verde pisello divisi per settori. Nel primo erano allineate le bottiglie dei liquori, dei punch, dei vermouth, con relativi bicchieri e bicchierini. Lo scaffale di centro conteneva pacchetti di cacao in polvere, di biscotti Oswego (gallette) e wafer. Appresso c’era il terzo scaffale alle spalle della cassa e contiguo al tramezzo: era occupato da bocce piene di confetti, caramelle e cioccolatini e da boccettine di essenze per rosoli. Sulla cassa l’immancabile boccia con le caramelline “San Giacomo” a lire una cadauna e il Resoldor (“Ah, come respiro!”); accanto, sul bancone, il vassoio con le paste secche, alla crema, i cannoli e il motorino cacciamosche.  Davanti alla cassa una vetrina strettissima e lunga fragrante di totò (specialità della casa), savoiardi, amaretti e dolci di mandorla: tutta produzione locale confezionata da don Pinu collaborato dalla moglie Lucietta e dalla cognata Paolina, diventata moglie di secondo letto dopo la scomparsa della prima. 
La sala bar era arredata con due divani in ràmino appoggiati alla parete lunga e quattro tavoli in ferro con piano in marmo grigio, di cui uno sempre occupato già di prima mattina, da accaniti giocatori di dama, quindi le sedie coordinate con i divani. Alle pareti due grandi specchi con sbiadite vetrofanie: Espresso Bonomelli, Ferro China Bisleri, Baci Perugina.
Al centro un lampadario tardo liberty con cinque teste di grifoni a bocca aperta da cui pendevano cinque lampadine. Accanto il Petromax e, sempre pendenti dal soffitto, tre, quattro carte moschicida, mielate e aperte come un rullino fotografico, con grappoli di mosche d’annata che sembrava che dormissero. 
Nel 1955 con l’avvento della tv, il tramezzo color nicotina divenne girevole per formare un’unica grande sala con le sedie schierate come al cinema. Il giovedì (Lascia o raddoppia?) e il sabato (Il Musichiere), verso le h. 20 incominciavano ad arrivare i primi spettatori, che si accaparravano anche i posti per amici e parenti. La consumazione, obbligatoria, veniva maggiorata del 20 % .
Malgrado la conduzione del bar-pasticceria fosse assai impegnativa, don Pinu era pure occupato su un altro fronte: assieme a Rizza (don Mmastianu Capitanu), e a Gentile, mandava avanti  una fabbrica di gassose (quelle con la pallina) in via Nicolò Zocco. Ma il suo chiodo fisso però era la campagna, tanto che a Palazzolo circolava il seguente detto: “u Bossu - era il gestore dell’altro bar (“Italia”) sotto la chiesa di San Sebastiano - accatta segghi e Pinu accatta tirrinu”, per significare che don Pinu, che non aveva figli, tutti i suoi soldi li spendeva (meglio, li sprecava) per la campagna.
Venuto in possesso di un vasto terreno in contrada “Sambuco” sulla piana di Buccheri lui, originario di Francofonte, si era intestardito ad impiantare un giardino di aranci e pretendeva di trasformare quella pietraia sciarosa e fredda in un eden biblico. Una scommessa con sè stesso. Spianamenti, opere di irrigazione, ghiebbia, muri, recinzioni, strade, insomma tutto quello che occorreva. Ogni anno gli aranci si ammantavano di zagara ma subito dopo, a quella altitudine, il freddo e gli aquilonari bruciavano tutto e impedivano l’allegagione. Ma lui don Pinu, irremovibile: cambiava il cultivar, ripiantava, innestava, potava, pumpiava, concimava, irrigava. All’epoca della fioritura fiori a bizzeffe come la nebbia, che lì in quella zona è anche di casa, e frutti pochi, pochi, piccoli, rachitici e acri come limoni. 
Il retro del bancone proseguiva con un corridoio nascosto alla vista che introduceva negli locali retrostanti. In questo corridoio era piazzato il grosso motore del frigorifero, il cui incessante rollio nei pomeriggi d’estate, nella contròra, metteva una dolce sonnolenza. A sinistra, dieci scalini a salire portavano in un ammezzato che fungeva da deposito e da contingente stanza da letto per il riposo pomeridiano o per le emergenze. Poco avanti, si scendevano quattro scalini e si entrava nel laboratorio comunicante all’esterno con il ronco Miano. Lo spazio di questo cortile era provvidenziale per tutte quelle operazioni che non si potevano svolgere dentro, anzi, con la bella stagione diventava un vero laboratorio a cielo aperto: la frantumazione delle lastre di ghiaccio per le stufe fredde di araba memoria, la sgusciatura delle mandorle, l’asciugatura al sole delle palummeddi di pastaforte, le operazioni di carico e scarico con la lapa, che prima di comprare una fiammante “600” bianca gli serviva anche per andare ‘o Sambucu e per i lunedì di Pasqua.
All’interno, alla sinistra della porta che dava sul cortile, c’era un grande frigorifero da laboratorio con quattro grandi pozzi e attrezzato di gelatiera “cattabriga”. Quando questi attrezzi non esistevano o erano poco diffusi, la preparazione del gelato e delle granite era una impresa che richiedeva molto tempo e fatica. Preparata la stufa, un mezzo tino con un contenitore cilindrico (pozzo) circondato da una cortina di ghiaccio e sale, si introduceva a poco a poco la dose del gelato e quindi si afferrava con le mani il bordo del pozzo e si incominciava a farlo ruotare (in mezzo al ghiaccio) di circa 180°: mezzo giro a destra, mezzo giro a sinistra, scrostando di continuo la miscela che si rapprendeva sulle pareti e aggiungendone altra fino a quando agghiacciava tutta. Me lo ricordo ancora lo zio Pippinu, zio acquisito di chi scrive, a partire da San Giuseppe con i suoi robusti avambracci pelosi immersi dentro il pozzo, a quagliare gelati di primo mattino. Di quel frigorifero, tre pozzi erano pieni di pezzi duri, di cassate gelato, di pinguini in formelle ecc., il quarto pozzetto, era tassativamente riservato alla cacciagione del cav. Puglisi, il padrone di casa: lepri, pernici, tortore, conigli, il ben di Dio.
Alla destra degli scalini c’erano un paio di armadi stipati di frutta candita, macedonia, “diavolina”, cannelle, essenze, barattoli, aromi, stampi, bottiglioni di bagna, il mastello con lo strutto, la boccia con l’ammoniaca, i sacchetti con l’amido e appresso u bìlicu. Quasi al centro della stanza un grande biliardo dismesso il cui piano di ardesia fungeva da tavolo. A sinistra un vecchio canterano pieno di carta stampata, merletti per cassate, “pirottini” per dolci, stecchini per i pinguini, carta per i gelati da sformare; sopra il piano un mortaio di marmo, un altro di rame, calchi di terracotta, di gesso, di zolfo, il grande macinacaffè verde a ruota; appresso, superato lo spigolo, un lavabo di “scaglietta” con rubinetto al muro, il cesso (ricavato nel sottoscala del mezzanino) e quindi il forno elettrico con a terra i sacchi di zucchero e di farina.
La grande vasca di eternit piena d’acqua, stava tra il forno e il wc. In questa, ogni giorno, l’acqualuoru di fiducia versava un carico completo di acqua, composto da 20 quartare di zinco. Questa benedetta acqua però, in rapporto al consumo effettivo, finiva sempre troppo presto. Don Pinu, sbirru, fu assalito dal sospetto. Un bel giorno, prima che arrivasse l’acqualuoru si nascose nel cesso, al buio, e dietro lo spioncino della porticina si mise ad origliare: l’acqualuoru versava due brocche d’acqua per volta dentro l’eternit però in una delle due l’acqua era solo virtuale perché il galantuomo, strada facendo, si vendeva metà dell’acqua commissionata alle clienti occasionali. Cambiato acqualuoru, da quel giorno l’acqua bastò.
Sempre a proposito di acqua, ogni anno prima della festa di san Sebastiano, lo zio faceva inalbare con la calce le pareti del laboratorio. Don Paulieddu uocci rossi, una volta, completato il lavoro, ebbe la felice idea di sciacquare la scupitta, senza dire niente a nessuno,  nella bacinella collocata sotto il rubinetto della vasca per raccogliere il gocciolio e che conteneva acqua pulita. La stessa acqua fu poi utilizzata inconsapevolmente proprio il giorno della festa per cuocervi gli spaghetti al sugo. A tavola grande imbarazzo. L’interrogativo che arrovellava i commensali era: “Se il sugo è stato fatto con la carne di vaccina chi glieli porta i ‘nziti del porco in mezzo agli spaghetti?”.

3 commenti:

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