Prima ri Natali nè friddu nè ffami /
Doppu Natali friddu e ffami.
Sulla
scia di dicembre, a gennaio si riusciva bene o male ad andare avanti dando
fondo alle scarse provviste rimaste. Era questa la società povera, contadina, delle
classi subalterne, ancora sul finire degli anni ’40 del secolo scorso, rigidamente
divisa in classi: contadini, jurnatari,
braccianti, umili artigiani, industriosi,
ecc.
Gli
industriosi, così venivano
etichettati nei verbali dei consigli comunali, erano quei poveri cristi che si
industriavano a fare qualsiasi mestiere per vivere: “Dirriti: comu campi?... A la stasciuni / fazzu cumèrii ppi li picciriddi;
/ Ppi li sdirri facceri ri cartuni, / A primavera caggi ri cardiddi… / Veni
natali, e fazzu bamminedda, / Tuppett’ a la quaresima e ccirrìa,…/ Ma chissi
prufissìi nu nfannu panza, / E lu panuzzu ‘n zempri si cci accanza…” (S. A.
Guastella, Vestru, nella parlata di
Chiaramonte).
È Vestru (Silvestro), che si lamenta, l’archetipo
dell’industrioso che muore di fame: “Vestru è lu nomu miu, vera simenza ri nanni
e rritinanni affamatizzi”.
Era
la società che apparteneva alla cosiddetta “cultura della povertà” teorizzata
da Oscar Lewis: povero non solo perché non ricco, indigente, ma anche per
mentalità, atteggiamenti, condotte e linguaggi che alla fine portano alla
rassegnazione e al fatalismo.
Dopo
gennaio incominciavano le vere difficoltà per la sussistenza. Famiglie numerose,
scorta di provviste al lumicino, mancanza di lavoro, o mal pagato, per i capi
famiglia. Si partiva all’alba per la fatica dei campi e poi “...tornano a sera gli uomini, morti di lunga
strada e fame” (Uccello, 1965).
Stessa
miseria, stessi inverni senza scarpe per i bambini, stessi stenti e malattie,
stesse tecniche di lavoro da secoli. Freddo e fame. Fame e freddo. Le fave, il
frumento, non si possono comprare per il prezzo eccessivo.
E
la “cucina dei poveri”, anche quella, rimane spenta.
Pani
e sputazza
Febbraio,
marzo aprile, erano i mesi “grandi”, lunghi perchè non passavano mai. Si mangiava
pane e coltello e a volte quando non c’era nemmeno il coltello, pane e sputazza. Pani schittu o pane e
na ciappitedda ri ficu o di pomodoro, o una cipolla o qualche oliva: A matina, pani e sputazza. A-mminzionnu,
pani e cipudda. A sira, pani e sputazza.
A
tempo di mietere, a giugno, invece: “a
matina pani’e-ppira, a-mminzionnu pir’e-ppani, a-mmirenna cuòtila pira, a sira
pasta che favi addumati” (Uccello 1959).
L’uovo,
il brodo di piccione, si somministravano quando si era ammalati, ché le uova,
per chi le aveva, erano risorsa e
baratto per la dote delle figlie femmine. I figli maschi, bambini, erano
costretti a diventare subito uomini. A cinque anni, a sei, erano già nei campi
a badare agli animali o con altre incombenze.
A lu riccu cci mori la mugghieri, a lu
poviru lu sceccu. La morte dell’asino
era una vera tragedia. Il povero arrivava ad invidiare il ricco quando a questi
moriva la moglie e a lui l’asino. Di moglie se ne poteva prendere un’altra,
magari con un po’ di dote, ma l’asino no, bisognava comprarlo e con i soldi! L’asino
era più importante della moglie!
Poi,
i primi tepori, la primavera incipiente. E allora la famiglia si sguinzagliava
per la campagna, in cerca di verdure selvatiche da portare a casa o anche da
venderle e guadagnare qualcosa: asparagi, mafalufi,
cicorie, finocchietti, sinaccioli, amareddi, pisciacani ecc.
Poi
a maggio le fave novelle, i primi frutti e allora si incominciava a respirare
un’aria nuova un po’ anche per via del bel tempo che dava lavoro (sempre mal
pagato); quindi arrivava giugno mese in
cui incominciava il lavoro a pieno regime nelle campagne, e pure gli artigiani
ne beneficiavano. E allora tra i braccianti e il calzolaio, il sarto, il barbiere, si stabilivano accordi e promesse di pagamento a fine raccolta, a fine agosto, quando
circolava il frumento che era denaro liquido per tutti.
Giugno,
luglio agosto erano i misi ruossi
(mesi grossi), impegnativi. Si lavorava a pieno ritmo nella trepidante attesa del pane e del vino, per dirla con Ernesto
De Martino: la mietitura, la trebbiatura, il grano nei cannizzi.
A
Palazzolo, ad esempio, la festa di san Sebastiano fu trasferita al 10 agosto sì
per il bel tempo ma anche perché era il periodo più redditizio per la questua
nelle campagne.
Oggi
si sta incredibilmente tornando ai “mesi grandi” e non già i tre o quattro di
una volta, ma tutt’e dodici. Le classi sociali più deboli non riescono ad arrivare alla fine del mese,
a prescindere dalla stagione. Certo non sono le stesse condizioni di vita della
fine degli anni ’40, è cambiata la cultura ed è arrivata la tecnologia che ha trasformato
tutto.
Invece
quella che non è cambiata, grossomodo è
la percentuale dei detentori della ricchezza. Ancora oggi da un’infima
maggioranza della popolazione dipendono le condizioni di vita di una vastissima
maggioranza. In Italia Il 10 % delle
famiglie più ricche detiene oltre il 50 % della ricchezza totale.
Mesi “grandi”, misi ranni, per
i poveri e per i nuovi poveri. Come sempre!
1 commento:
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