Se l'ascia ha occupato da sempre un posto di primo
piano tra gli strumenti usati dall'uomo, il legno è stato certamente il
principale materiale d'uso per tutti quegli oggetti di immediata utilità o strumentali
impiegati nel quotidiano dalla civiltà contadina e dalle classi subalterne.
Oggi, la campagna, diventata anch'essa tecnologica, ha
quasi abbandonato il legno, e allora, i mastri d'ascia, che, oltre ai carri,
producevano manufatti e attrezzi per
tutti quei contadini non in grado di costruirseli da soli, si sono arresi alla
ineluttabilità dei tempi e hanno chiuso bottega, oppure, si sono messi a
costruire porte e finestre. Qualcuno però non se l’era sentita di abbandonare
un mestiere di così biblica memoria ed era rimasto ancora fedele al vecchio
lavoro anche in tempi di magra.
A Palazzolo, l'ultimo epigono di
questa categoria di irriducibili artigiani, mastri
r’ascia, è stato don Giuvanninu
Rizza, forse meglio conosciuto come don Giuvanninu
Sussuni, soprannome ereditato dal nonno assieme al mestiere.
Era un uomo schivo, umbratile, di poche parole e di
pochissimi capelli; alto magro, leggermente curvo, con le mani grandi e forti
di chi ha passato la vita sempre a
lavorare e con una faccia ossuta, scavata nelle guance, dall’espressione
un po’ malinconica. Aveva il labbro inferiore prolassato e riusciva a parlare e
a fumare senza mai togliere la sigaretta dalla bocca, al cui interno si facevano compagnia gli ultimi
tre o quattro denti in precaria stabilità. Portava inforcate un paio di lenti
fortissime, da miope, che gli ingigantivano gli occhi, sempre umidi, acquosi.
Don Giuvanninu fu iniziato a tale mestiere sin da piccolo. Nella
vecchia bottega di via Scalilli 49, sotto l'attenta guida del padre (don
Paolo), apprese la mastrìa dell’uso e
del controllo dell'ascia, importante banco di prova per potere svolgere bene
questa attività lavorativa.
Iniziò l'apprendistato (come
tutti in questo mestiere) preparando manici di zappe e cantèri (listelli per i tetti di tavola delle case contadine),
quindi passò a sbozzare aratri e semplici manufatti per arrivare infine a
modellare i raggi delle ruote di carretto e poi, a mano a mano che acquistava
padronanza sull’uso dei ferri, passò alle fiancate, ai tavolati, ai portelli,
alle stanghe.
Don Giuvanninu, nella stagione adatta per il
taglio, si procurava il legno per costruire i suoi manufatti andando ad
abbattere personalmente gli alberi. Assieme al fratello Arturo partiva all’alba
in bicicletta per boschi e cave della campagna palazzolese. Col sirruni venivano tagliate querce, lecci,
noci, frassini, favaragghi, pioppi,
faggi, a seconda delle zone e della necessità. Poi, sempre sul posto, con una
grande serra intelaiata chiamata particulu
si segavano i tronchi in tavoloni che, accatastati, venivano lasciati ed
asciugare per una quindicina di giorni. Quindi, usciti a spalla, si caricavano
sui muli per essere trasportati in paese.
Nel 1967 trasferì la sua bottega
in via Savoia al n. 12, quando già, fin dagli inizi del decennio era scarsa la
domanda per certi manufatti, e non solo per la crisi dell’agricoltura e per la
inarrestabile meccanizzazione delle campagne, ma anche per le mutate condizioni
sociali ed economiche. Lui non volle arrendersi e continuò a costruire ancora
gli ultimi carretti (l'ultimo lo consegnò nel 1972), e a fare il mastro
d'ascia. I tempi erano già cambiati e i manufatti in legno vecchi e nuovi, si avviavano a diventare archeologia.
Negli anni di più intensa
attività, invece, questi artigiani erano capaci di costruire e di riparare un
ampio ventaglio di oggetti che facevano parte del sistema di vita e di lavoro
delle classi popolari: telai per la tessitura, torchi per frantoi, madie,
gramole, panchette, bbuffetti, bbaulli, collari, pale e forconi per
spagliare il grano, mazze per battere i cereali e il bucato, ecc.
Oramai don Giuvanninu faceva solo qualche scala, qualche riparazione,
affilava, con la mola ad acqua di pietra arenaria, falci, accette e picconi, ma
soprattutto faceva i manici, marrugghi,
alle zappe. Nelle mattinate di sole, passando per via Savoia, disposti in fila
e immobili come soldatini in solenne parata, si potevano osservare sul
marciapiede di fronte alla sua bottega centinaia di bastoni di arancio amaro
appoggiati al muro e messi ad asciugare.
Anche i ferri del mestiere - tantissimi - stavano in
bella mostra nella rastrelliera e in fila anche loro, ma coperti di polvere e
ad aspettare chissà che: martelli, asce, asciuneddi,
pialletti, sgorbie, tenaglie, carpagghi,
succhielli, raspe, ecc. E anche lui, don Giuvanninu,
per abitudine inveterata si alzava presto, come se avesse dovuto intraprendere
chissà quale intensa giornata lavorativa! Si accendeva la sigaretta, e da via
Savoia, dove oltre che star di bottega stava anche di casa al n. 7, lemme lemme
partiva per piazza Pretura, a meno di quattro passi dalla suddetta strada. Era
quello il suo osservatorio privilegiato. Dopo una decina di minuti, staccava ed
andava ad aprire il laboratorio: accendeva un'altra sigaretta, si allacciava il
farali e incominciava ad annartari.
Dopo pranzo di nuovo in piazza,
con la sigaretta in bocca (o penzoloni dal labbro), a guardare, a scambiare due
parole con qualche amico. Chiusa la bottega, di sera faceva un'altra puntatina
nella "sua" piazza: si metteva sul
marciapiede della Pretura o in quello di Corsino, all’angolo con via
Giardino Pubblico, anche d'inverno, con la mani in tasca e la sigaretta serrata
tra le labbra, avanti e indietro; un freddo cane! E lui a passeggiare, solo,
senza sentire il bisogno di un cappotto, con i pantaloni blu della tuta
sbiaditi e un po' scorciati e un vecchio cappello che gli copriva la testa
abbondantemente nuda: si contentava di poco don Giuvanninu, era riservato, schivo, tranquillo. E così se n’è
andato, sereno, in punta di piedi, una decina di anni fa.
1 commento:
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