Venutagli meno la madre a 7 anni, Ettore fu mandato a
pascolare le pecore. Ma per poco. Alla prima occasione piantò tutto e andò a
Cagliari a trovare uno zio maresciallo della benemerita. Stette con lui fino
all’età di 19 anni, quando ottenne la qualifica di cuoco.
Ma proprio questo fu il mestiere che esercitò meno.
Non potendo fare il carabiniere, per via della statura, fu arruolato
nell’esercito dove stette in ferma per ben dieci anni.
Era alto quanto un asinello sardignolu, magro, rinsecchito, asciutto; il viso lungo, ossuto,
scuro, con una fronte stretta solcata da mille rughe; il petto aguzzo come
quello di un piccione, le gambe un po’ ercoline, la camminata ciondolante,
sbilenca. Aveva i capelli lisci, castani, e tali cercò di mantenerli sperando
di azzeccare volta per volta la tintura giusta, ma fu sfortunato: i capelli una
volta venivano color nero inchiostro, un’altra volta esibivano aloni di rosso
bruciato, un’altra ancora erano testa di moro o color carruba secca. Nella mano
destra sfoggiava un grosso anello al dito e un grosso braccialetto d’oro; d’oro
anche le due capsule ai molari. Aveva un timbro di voce roca per le tante
sigarette che fumava e un marcato accento sardo; la sua ibrida loquela la
infarciva oltre che di termini originari della sua terra, anche di espressioni
napoletane e siciliane, tutti assieme. Un vero guazzabuglio.
Era amico di tutti, sovente le sparava o le faceva
grosse, ma stava allo scherzo da buon istrione. C’è ancora qualcuno che si
ricorda il giro al Corso in pieno inverno nella macchina scappottata, con il
genero fresco di sposalizio alla guida, ed Ettore dietro, con le gambe
accavallate, spaparanzato, a soffiarsi
con un ventaglio!
Di mestieri fece tutti quelli che poté: banconista,
cameriere, gelataio ambulante, venditore di scampoli, di scarpe e vestiti di
seconda mano, attacchino, banditore di carne di basso macello, interprete in
Albania, maschera del cinema, supporter politico, sbriga faccende, assistente
viario di picchetto davanti alle scuole. Tra tutte queste attività prediligeva,
comunque, il gioco delle carte. A suo dire non volle mai accettare un posto
fisso per una esigenza di libertà, e tale ostinazione, sempre a suo dire, fece
sì che iniziasse a lavorare senza mezzi e chiudesse la sua carriera lavorativa
quasi povero in canna come aveva iniziato. Nel leggere e nello scrivere la cosa
che gli riusciva meglio era la sua firma.
Arrivò a Palazzolo il 27 giugno del 1945 alle ore 12,
anzi alle ore 11,30, in divisa di ufficiale albanese. A mezzogiorno in punto si
presentò alla fidanzata che aveva conosciuto a Genova e lì l’aveva inutilmente
cercata dopo essere rientrato dall’Albania. Messa su casa a Palazzolo, agli
inizi, memore del suo ascendente militare, tra il serio e il faceto si
presentava a qualche commerciante del posto depositando la vecchia pistola
d’ordinanza sul bancone e chiedendo questo e quello. Ben presto ci fu chi gli
fece togliere il vizio con le buone e con le brutte. Si vantava spesso di
essere stato partigiano in Iugoslavia insieme a Tito e di essere stato decorato
al valore, per cui, nelle grandi occasioni faceva sfoggio di medaglie. Un anno
in occasione della festa di S. Paolo, mentre sfilava tutto tronfio assieme al
santo, con le medaglie appuntate sul petto, un buontempone gli fece arrivare na scorcia ri trunzu sulla testa.
Successe il finimondo, Etturi ne
voleva conto e ragione, voleva sapere chi fosse stato, fece fermare la
processione…
Si mise a fare il lavorante e il cameriere
prima presso il caffè Pino e poi da Corsino. Quindi si mise a vendere gelati
ambulando per vicoli e strade per ben quindici anni. Era il 1947 e per il 20
aprile erano state indette le prime elezioni per l’Assemblea regionale. Tra gli
altri, a Palazzolo, si presentava come candidato Paolo Riccardo Vaccaro nella
lista del Partito Monarchico Popolare. Ettore si arruolò tra i sostenitori del
cavaliere natichi ri gomma, con la
promessa di una carrozzella tutta nuova per i gelati. Prima delle elezioni,
Ettore ebbe una carrozzella tutta nuova, fiammante, a forma di mezza barchetta,
ma con un particolare davvero singolare: ai fianchi, oltre alla scritta “Gelati
e Granite”, era raffigurato lo stemma del partito “Leoni e Corona” con la
scritta “Giustizia sociale, case, lavoro, benessere”. Paolo Vaccaro non fu
eletto, ma Etturi u
Sardignolu continuò a girare in lungo e in largo il paese vendendo
gelati e granite con la carozzella monarchica popolare: “Graniteee, Geeelatii... panna e cioccolato… mangia Giulio!”. La chiusa era il suo
inconfondibile cavallo di battaglia e alludeva sarcasticamente ad un suo
abituale antagonista di briscola di nome Giulio.
In tempo di elezioni faceva l’attacchino. Il partito gli consegnava i
manifesti e la farina per fare la colla: la farina diventava regolarmente pane
o pasta di casa. La colla, poi, la preparava con la farina che andava a scopare
nei mulini. Storica la sua frase pronunciata sui gradini di san Sebastiano in
occasione di una candidatura del cav. Iudica per la D.C. : “Mamme piangete i
vostri figli non tornano più. Io vengo dal paese dei lazzaroni. Piangete!”.
Poi passò nel campo dei tessuti e delle
confezioni, un ritorno per lui, in quanto a Scutari e a Tirana aveva lavorato a
lungo nel settore con gli Ebrei; nel contempo faceva pure l’interprete di
albanese per gli Italiani che avevano la sventura di capitare da quelle parti.
Gli scampoli e le confezioni difettate o usate provenivano da Prato o da
Messina, le scarpe di seconda mano da Catania.
Quando
arrivò sulla piazza la popolarissima stoffa a 190 (190 lire al metro) Ettore
spopolò. Prima comprò una moto “Guazzoni” poi passò ad un “Capriolo”, poi al
furgone e da questo ad una Millecinque Fiat. Il “Capriolo”, un motofurgone
omologo della lapa, l’aveva
acquistato ad Avola. Fatto il pieno di miscela ritornò a Palazzolo a cavallo
del “Capriolo” scorazzando ininterrottamente per le strade principali, sia per
impratichirsi della guida e sia anche per esibirsi con il mezzo nuovo
fiammante. Sennonché, passando per piazza del Popolo quattro, cinque, sei volte
di fila, qualcuno ebbe il sospetto che Ettore non fosse capace di fermarsi. Arturu u Bbossu allora, dalla porta del
suo bar, all’ennesimo giro, gli gridò dietro: “Jèttiti! Jèttiti!”. “Jètta a
tta suoru! Jètta a tta suoru!” gli rispose di rimando Ettore che comunque
si fermò quando finì la miscela. Un’altra
“scuola di pensiero”, invece, è pronta a giurare che qualcuno di nascosto
avesse bloccato al massimo l’acceleratore del tri rroti, per cui, dopo una partenza a razzo, fu costretto ad
inanellare giri dopo giri attorno alla piazza non sapendo come fare per
arrestare il mezzo; alla fine fu costretto a seguire il consiglio di Arturo: si
buttò, a pesce.
Oltre che a Palazzolo, Etturi bazzicava a Buccheri,
a Buscemi, a Cassaro, a Ferla, a Solarino, a Floridia, a Canicattini, a
Rosolini, e anche in alcuni paesi del Ragusano. Appena arrivava in paese
incominciava a strillare con la sua voce accattivante: “Aho, vagliù, figliulelle, cca sugnu”, le donne lo credevano davvero napoletano, e
apprezzavano il suo linguaggio pittoresco e familiarizzavano, pronte a comprare
la mercanzia. Un giorno mentre tornava da Buccheri con la sua Mini T appena
immatricolata, subito dopo la piana, per risparmiare benzina, in discesa girò
la chiave di avviamento su Stop, spense il motore e distrattamente estrasse la
chiave. Alla prima sterzata, si bloccò il volante e l’auto tirò diritto,
sfasciò il muro e cappottò nel terreno sottostante. Uscito a quattro piedi
dalla macchina con le ruote per aria, Ettore ritornò a Palazzolo tutto struppiatu e sul cavallo di S.
Francesco.
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