«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Mestieri che scompaiono: Stagnini e quarari

 “… Item una padella di ramo nova. Item un Candilieri di ramo giarno. Item una caudara di ramo di dui quarriir. Item uno spito di ferro.


Il rame, conosciuto fin dalla preistoria, fu largamente usato dai Greci e dai Romani, e in particolare, in fusione con lo stagno per ottenere la lega di bronzo.

In seguito, in epoca medievale esplose in tutta l'Europa la grande stagione del rame: opere incise, a sbalzo, martellate, si produssero ovunque, sia nell'arte sacra, sia in quella profana (utensili, spade, legature di libri, ecc.).

Poi, sul finire del medioevo, la lavorazione di questo metallo ad uso artistico fu pressoché abbandonata, largo impiego ebbe, invece, a partire dal XVII secolo nei manufatti d'uso domestico. Anche lo stagno e il ferro, quest'ultimo ridotto in sottilissime bande (latta), furono adoperati per lo stesso scopo.

Nella Contea di Modica nel 1600 tantissime erano le richieste avanzate dagli artigiani del settore per ottenere la concessione della franchigia: "Mastro Innocentio Prinzi ...singulare nella sua professione di caldararo che fa caldari nuovi..." (di rame), e poi: "Mario Cimino ( ...che fa candileri contempo (contemporaneamente) loro piatti et altri cosi di stagno...". Ancora: Mastro Antonino Di Benedetto   ...il  quale fa e al presente exercita l'arte di fare grattalure di lanna di ferro ..."

E in numerosi atti dotali di Palazzolo (ma vale per qualsiasi area) sempre dello stesso secolo sono compresi, fra l’altro, manufatti in rame e in stagno: “… Item (parimenti n.d.a.) una padella di ramo nova. Item un Candilieri di ramo giarno. Item una caudara di ramo di dui quartari (quattro quartari formavano un barile: n.d.a.): Item uno spito di ferro […]”                                                                                                        

 

Dalla grotta al souvenir

Nella Contea di Modica e in tutto il tavolato Ibleo, già nel periodo alto medievale, ma anche in epoche anteriori, era assai diffuso l'utilizzo di ambienti rupestri adibiti a chiese, a dimore, a magazzini, a botteghe artigianali. Ancora oggi, a Scicli, una delle due ultime botteghe di stagnino rimaste ancora aperte, è ubicata dentro una di queste grotte, molto piccola, sita nella cava di S. Bartolomeo ai piedi di un costone precipite sulla cui sommità si erge imponente la chiesa di S. Matteo. Dall'altra parte dell'àlveo, ora diventato strada carrabile (via Guadagna), quasi dirimpetto alla prima, si trova l'altra bottega, quella di Ninu u Lantirnaru, calderaio-stagnino con la passione delle miniature. Lui la sua brava riconversione artigianale l'ha già fatta; la sua bottega sembra quella dei sette nani di Biancaneve: una serie interminabile di oggetti  di uso domestico miniaturizzati, costruiti pazientemente da lui stesso e confezionati dentro sacchetti di cellophane a mo' di souvenir. Naturalmente, oltre a questi, dentro ci sono gli oggetti di misura canonica in rame o in latta, che lui stesso quando capita (ma non capita quasi più) costruisce e vende, oppure ripara. La sua bottega è diventata metà obbligata per le scolaresche in gita d’istruzione.                                            

 

'U quarararu

Ma era Vizzini, nell'area iblea, che, secondo un’interrotta consuetudine, deteneva il primato nella produzione di quarare (calderoni a forma di campana) in rame per la ricotta. E infatti, sino a circa quarant’anni or sono, in questa località, tra calderai e stagnini, operavano più di una ventina di botteghe, tutte occupate a tempo pieno. Oggi ne sono rimaste solo tre: una di calderaio, una di calderaio-stagnino, una di stagnino. Ed è ancora peggio negli altri centri, dove, questa categoria di botteghe ha chiuso da tempo; resiste ancora qualche stagnino che, grazie alla sua comprovata abilità di saldatore e confidando nel buon Dio, resta in attesa che... qualche sventurato passi a miglior vita.

Negli ultimi tempi, questi due mestieri, il calderaio e lo stagnino per motivi di mera sopravvivenza, convivono, tuttavia, pur se con qualche affinità, sono dissimili poiché ognuno ha delle specifiche peculiarità.

Il calderaio (ramaio, battirame) è l'artigiano che fabbrica caldaie in rame e simili e si dedica pure alla loro riparazione e stagnatura. I manufatti in rame, in passato insostituibili in cucina, nei bar, nelle masserie sono spariti. Le quarare per la confezione della ricotta e gli altri utensili in rame quali u iaruozzu, cioè il mestolo per raccogliere e versare il latte e il siero, la cazza per raccogliere la ricotta dalla caldaia e deporla nelle cavagne o nei vasceddi, u culaturi ecc., sono usate a livello esclusivamente personale: per la vendita oggi c’è l’obbligo di usare recipienti e utensili in acciaio inox.

In casa e in cucina si adoperavano a conca  (il braciere), u cunculinu (lo scaldino), pentole, pentolini, menzaranci (calderotti), mestoli, brocche per l'acqua, e ancora, quarare per cuocere la conserva di pomodoro, per cuocere le carrube, per il vino cotto, per la liscìvia (liscìa), per preparare il sapone di casa. Era così diffuso l’uso di questo metallo che quando nel dopoguerra il rame incominciò a scarseggiare, si andava per le campagne alla ricerca di bossoli di rame giallo per fabbricare le pentole!

Tutti i recipienti di rame per uso commestibile venivano stagnati all'origine, e in seguito - a seconda dell'uso che se ne faceva - con una frequenza periodica. Ciò era previsto anche da Regolamenti comunali per evitare il pericoloso fenomeno del verderame (carbonato basico), una patina di colore verde che si forma in presenza di umidità e che, se ingerita attraverso cibi contaminati, si accumula nel fegato provocando l'avvelenamento da rame: “Tutti i recipienti destinati a contenere, o cuocere cibi, e bevande se sono di rame devono mantenersi costantemente, ed interamente stagnate al loro interno”.

La stagnatura a regola d'arte, fatta dai calderai, viene eseguita con lo stagno vergine e la borace, una tecnica affatto semplice; gli stagnini, invece, e sicuramente con risultati più modesti, usavano una lega di piombo e stagno unitamente al cloruro di zinco.

Gli attrezzi da lavoro usati dai calderai sono pochi e in buona parte vengono approntati da loro stessi: il martello, la martellina, il mazzuolo di legno, il palo diritto per la "controfaccia", quello a mela, il palo da spianare, da stozzare, la capra o cavalletto, il ceppo, la chiodaia, la forgia ('a furgina).

Come nasce una quarara tradizionale? Si taglia una striscia di rame in rapporto alla capienza voluta e se ne saldano le due estremità alla forgia. Si ottiene così un cilindro che in gergo è chiamato "fusto" al quale si salda il fondo servendosi di tre elementi: il fuoco, lo stagno, la borace. Quindi si tempera e si fa la cerchiatura nella parte superiore per rinforzare il bordo. Con un mazzuolo di legno si passa alla martellatura per dare la sagoma: i colpi sono lenti e cadenzati, sempre gli stessi, un rito. Poi si passa alla "manicatura", si attaccano cioè i manici fissandoli con chiodi di rame ribattuti, in seguito si stende un velo di stagno vergine e si passa alla lucidatura. A quarara è pronta.                                              

 

'U stagninu                            

E' senz'altro più articolata la produzione dello stagnino, il cui mestiere, rispetto al calderaio, non è meno difficoltoso, anche se la latta e lo stagno sono meno nobili del rame e più malleabili.

Lo stagnaio (stagnino, stagnaro, stagnataru, lastraio, lattoniere, lantirnaru, ecc.) oltre al lavoro di stagnatura e di riparazione, con le cesoie, il martello e il saldatore, era capace di creare una miriade di oggetti dalle forme e per gli usi più svariati: secchi, cannati, quartari, cischi, coppi per fichidindia, vasche e misure per l’olio (cafisu, mienzu cafisu), stagnati (oliere), imbuti, mestoli, stampi per pasticceria, scaldini, lanterne e lumeri, grondaie di zinco, ecc.; qualcuno arrivava a costruire anche le vasche da bagno.

Lo stagnino per dare forma e misura ai suoi manufatti si serviva di modelli di cartone, sui quali ritagliava la banda stagnata; erano modelli che si tramandavano gelosamente di padre in figlio e gli oggetti da essi derivati, per stile e per forma, erano rivelatori della bottega di provenienza.

Poi, con il fenomeno dell'emigrazione da un lato e con l’avvento dello smalto e dell'alluminio prima, dell'acciaio e della plastica dopo, dei manufatti di Eternit!?, della vetroresina, delle fibre di vetro e di tante altre nuove fibre sintetiche dall’altro, stagnini e calderai, a poco a poco, quasi senza avvedersene hanno visto svuotarsi le loro botteghe di lavoro e di apprendisti; i pochi rimasti sono pressoché  disoccupati. L'unico lavoro sul quale possono contare, ma devono essere saldatori provetti, è quello al quale abbiamo accennato prima; nondimeno, di questi tempi si vive più a lungo… purtroppo per loro!                                                                          

 

Le botteghe di Palazzolo

Palazzolo, un tempo, annoverava un discreto numero di queste due categorie di artigiani. Nella sola via C. Alberto vi erano dislocate tre botteghe: quella di Giovanni Vecchio e quella di Concetto Romanello, calderai ed entrambi originari di Vizzini, e poi la bottega di Paolo Lozito, stagnino, il quale ha fatto il proprio mestiere sino ad un quindicina di anni fa e pertanto di diritto gli tocca la palma di ultimo stagnino di Palazzolo.

La via Maddalena ospitava la bottega di Giovanni Bosco stagnino-cazzusaru, rinomato per le gazzose con la pallina! Il poveretto era sordo spaccato e per chi voleva farsi sentire doveva spolmonarsi. E allora, ai suoi tempi, se in una discussione tra amici, c'era qualcuno che alzava troppo la voce, la frase di rito era: "Ma dove siamo!? nella casa di Bosco?".

In via Maestranza, di fronte all'ex Liceo-ginnasio, c'era la bottega di don Cicciu u strammatu: era un vero specialista nella costruzione di lanterne per i carretti; più in basso sempre in via Maestranza, teneva bottega don Pippinu Cassia, u quarararu; da lui aveva preso il patronimico la figlia Angelina, a Quararara, nota chiromante in contrada Saraceni. Un altro artigiano era Tordonato che aveva la bottega in piazza del Popolo prima e poi in via S. Sebastiano e faceva lo stagnino-mascaru (fuochista di fuochi d’artificio), e un altro ancora (un certo Armando) in piazza Marconi.

Al presente, la quasi totalità di questi artigiani ha chiuso bottega; ne è rimasto qualcuno nei centri più grossi e tradizionalmente più favorevoli a questa attività, mentre qualcun altro di solito è diventato itinerante e transita per paesi e campagne confondendosi con zingari e camminanti: "Aviti pareddi! Stagnamu pignati!".  La credenza popolare li ritiene precursori di piogge e temporali o uccelli di malaugurio. Mah!

CAMMINO, settimanale di informazione 19 dicembre 1993

5 commenti:

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