«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Mestieri che scompaiono: Il calzolaio (u scarparu)


 Il calzolaio è l'artigiano che, senza il supporto di macchine, confeziona e aggiusta scarpe e calzature in genere; il ciabattino, un gradino sotto, esegue solo riparazioni.

I calzolai artigiani di una volta oggi sono spariti e i pochissimi ciabattini rimasti, non sono altro che vecchi calzolai, costretti, per vivere, a ripiegare sulle poche riparazioni. Negli anni passati, fare rappezzare le scarpe era una consuetudine largamente diffusa: i “ricchi” se le facevano risuolare al primo buco mentre gli altri raccomandavano al ciabattino di metterci una “pezza” (di cuoio). Le scarpe oggi non si riparano quasi più: quelle sportive, comode, confortevoli, ormai diffusissime tra i giovani e i meno giovani, non richiedono riparazioni; quelle in pelle o sono di gran qualità e quindi difficilmente si rompono, oppure sono assai scadenti o affetti da cineseria e non ne vale la pena di farle riparare.



Dunque, man mano che scompaiono i calzolai-ciabattini, spariscono pure le vecchie botteghe, non più rimpiazzate. Nelle grandi città, tuttavia, ipermercati e centri commerciali provano a sostituire questi vecchi artigiani scomparsi con degli appositi reparti, dove, anche a vista, si sostituiscono soprattacchi, si rattoppa, si risuola e si eseguono altri lavori di riparazione. Il fascino della vecchia bottega del calzolaio, angusta, buia, punto di riferimento e “salotto” condiviso da una sequela di amici e clienti più o meno di passaggio, incomincia a diventare solo un ricordo.

Il mestiere di calzolaio e le attività artigianali più modeste, tuttavia, iniziarono a perdere quota a partire dagli anni Cinquanta, con lo sviluppo industriale e con la tecnologia avanzata: calzolai e piccoli artigiani delle regioni meridionali furono costretti a emigrare e a solcare anche l’oceano per approdare negli Stati Uniti, in Australia, in Venezuela in cerca di lavoro.

Entrare oggi in una di queste ultime restanti botteghe è come ritornare indietro nel tempo, un tempo che può sembrare ancestrale per chi non l'ha vissuto, ma che poi, in effetti, è relativamente recente. Sulle ante degli armadi e sulle pareti resistono, ancora ingialliti e consunti santini, foto ricordo, San Crispino (protettore dei calzolai), crocette di palme e ramoscelli di ulivo benedetti, locandine di film, di donne nude sopraffatte dalla polvere.

 

A questo punto cerchiamo di vedere più da vicino la bottega del calzolaio, non solo per acquisire informazioni sulle tecniche del mestiere, ma anche per avere contezza dell'atmosfera che si viveva al suo interno e per capire i rapporti umani e professionali che si instauravano tra il mastro ri putia, gli apprendisti e i frequentatori abituali.

 

Il mastro, per gli apprendisti, oltre ad essere maestro di tecnica era maestro di vita e anche maestro di scuola. Era esempio e modello da imitare e in cui identificarsi, senza riserve. Il ragazzino, già a otto - nove anni, veniva "consegnato" al mastro con la raccomandazione, al bisogno, di non lesinargli bastonate e calci nel sedere; il padrone diventava pertanto un vero e proprio tutore del ragazzo e lo considerava alla stessa guisa di un figlioccio e come tale questi gli doveva rispetto e riconoscenza.

Di mattina il giovanissimo allievo frequentava regolarmente la scuola, di pomeriggio andava a bottega, dove, oltre ad imparare il mestiere, svolgeva pure i compiti: alle batoste prese di mattina si aggiungevano se possibile quelle del mastro, nel pomeriggio. Sempre a fin di bene! Non si ribellava il ragazzo e non si ribellavano i genitori, anzi... Quando poi la malefatta era abbastanza grave, il brav'uomo gli comminava una passata ri vardiunedda (guàrdoli: sono strisce di pelle o cuoio che servono ad assemblare le scarpe e uniscono la tomaia alla suola). Un buon numero di queste tramezze messe tutte assieme, assolvono egregiamente la funzione di scudiscio e ti inducono a riflettere.

Le passate ri vardiunedda sulla schiena o sul fondo di essa, risultavano sempre educative e salutari, se, oggi come allora, il principale viene ancora ricordato con deferenza e con gratitudine, anche per l'uso improprio dei guàrdoli.

 

I professionisti che possedevano carisma e ascendente, a quei tempi avevano le botteghe affollate di ragazzi di tutte le età: depositari di saggezza, di vita vissuta, di regole consolidate com’erano, rappresentavano una garanzia per i genitori che glieli mandavano a bottega.

A Palazzolo, la bottega di don Ciccinu u Cucu, in via C. Alberto, arrivava ad accogliere anche dieci apprendisti di ogni sorta e di tutte le età. Là dentro allignava un microcosmo, uno spaccato verace della società palazzolese dell’epoca. Era una vera e propria palestra di vita! Lui, don Cicciu, socialista di vecchio stampo, era un omone alto, prestante, autorevole, sanguigno, elegante sempre: andava in giro armato di Borsalino e papillon. Essere a bottega da lui significava diventare uomini.

Dal punto di vista della qualità della manifattura si contavano due categorie di calzolai: quelli più raffinati (sempre a Palazzolo: don Marianu Infantino, Causi i sita, ecc.), producevano scarpe eleganti, ricercate, di classe, curate nei particolari e da indossare come si indossa un guanto: la produzione era limitata; quelli meno ricercati nelle rifiniture, puntavano invece sulla quantità e su una clientela costituita soprattutto da contadini.

 

Gli apprendisti erano addetti soprattutto a ciantiddiari - cucire il guàrdolo a mano (operazione molto faticosa) - e alle riparazioni: risuolare, bullettare, mettere i firruzzi, (bullette a forma di ferro di cavallo) sul tacco o sulla punta, puntiari. I punti corti e fitti erano riservati alle scarpe dei clienti migliori, puntuali nel pagamento; quelli lunghi, invece, erano destinati ai clienti che abitualmente tergiversavano o traccheggiavano.

A tal proposito circolavano due detti popolari che tentavano di screditare l’onestà professionale di siffatti artigiani: "Lu scarparu, ogni puntu ni fa 'n paru” (Il calzolaio, ogni punto ‘che dà’ ne fa un paio ‘di scarpe’); il secondo è ancora più caustico:  "Lu scarparu, lu 'mprugghiuni, leva sola e metti cartuni” (Il calzolaio, l'imbroglione, leva suola e mette cartone). Non risulta, ad onor del vero, che i calzolai vivessero nell'oro, anzi, è notorio che il calzolaio, nella nostra tradizione, era l'artigiano povero per eccellenza.

 

Al mastro spettava (di diritto) il compito di preparare i modelli, fare il taglio, dare la sagoma ai tacchi, prendere “dal vivo” le misure del piede.

Quest'ultima operazione era abbastanza sbrigativa quando i piedi appartenevano ad un cliente di sesso maschile, se invece si trattava di piedi di donna (specie se piacente), l'operazione diventava complessa e richiedeva tempi lunghi…

Si stirava un foglio di carta bianco a terra e su questo adagiava il piede la cliente di turno; quasi sempre sullo stesso foglio veniva a trovarsi “per caso” un pezzo di specchio: con un lapis si segnavano delicatamente i contorni del piede sinistro, poi del destro, la monta, ma… non si sa perchè, le misure risultavano quasi sempre carenti: “Le scarpe devono aderire come un guanto… altrimenti sono dolori!” ribadiva il maestro.

Dopo il mastro, le misure tentava di riprenderle il suo braccio destro, poi, se possibile l'aiutante in seconda, ma i risultati erano sempre discordanti! Nelle more, intanto, lo specchio da parte sua faceva il suo dovere: rifletteva fedelmente  tutto quello che si trovava immediatamente al di sopra del piedino e degli arti inferiori della procace ma ignara signora. Oh, ineffabili delizie!

 

Il tavolo da lavoro era costituito da un bancone alto, molto più alto del deschetto attorno al quale lavoravano gli apprendisti: su questo tavolo all’impiedi, il mastro elaborava i modelli. Anche in questo caso c’erano due categorie di professionisti: quelli disponibili ad insegnare il mestiere e quelli gelosi, gelosissimi della loro arte. Questi ultimi lavoravano con grande circospezione per vanificare le occhiate concupiscenti dei loro picciotti apprendisti che, come tali, cercavano di rubare il mestiere. Ma, seduti sul ciruni, la sedia dei calzolai (e dei sarti) bassa e senza spalliera, i malcapitati potevano vedere ben poco. Il ciruni sembrava studiato apposta per questo: si era costretti a stare con la testa e con gli occhi abbassati sul deschetto senza avere la possibilità di sbirciare nè a destra nè a manca.

Il deschetto era sempre affollato di piccoli attrezzi posati alla rinfusa: lesine, punteruolo, trincetti, il vasetto della colla, ritagli di pelle, pezzetti di vetro, spago impeciato, cera da calzolaio, raspa; in ognuno dei quattro angoli del deschetto c’erano poi dei piccoli scompartimenti triangolari zeppi di chiodini, simenza, sego, lignolu, e a terra, forme di legno, piede di ferro (il calzolaio, seduto, lo appoggia sulle ginocchia e dentro vi infila la scarpa da lavorare), tomaie (‘mpigne), il catino (bbàinu o lemmu) per mettere a mollo il cuoio.

  

Le botteghe dei calzolai, come detto, erano i luoghi ideali di lunghe sedute e incontri per amici, perditempo e clienti amanti della conversazione. Erano queste, assieme alle botteghe del barbiere e del sarto, i luoghi privilegiati per il passaparola: qui in tempo reale si conoscevano anticipazioni e notizie di carattere politico, sociale, scandalistico. Si parlava di donne, di corna, si raccontavano barzellette, si proponevano nniminagghi. I giornali, la radio e poi la TV naturalmente, facevano, la loro parte, ma le notizie più succulente a carattere locale partivano da questi “comitati di redazione” spontanei.

In bottega si iniziava a lavorare all’alba e nelle lunghe serate d'inverno si lavorava fino alle dieci, alle undici, anche con il lume a petrolio o a lume di candela; si raccontavano i cunta, la storia di Bellalonga figghia, le storie di Le mille e una notte, letture del Vangelo (Giobbe, Apocalisse). Il ragazzo più sveglio, più inteliggente, veniva esentato dal lavoro per potere leggere agli astanti novelle e romanzi, leggende e racconti. Il tempo scorreva più rapidamente, e anche (soprattutto) il lavoro. D’estate poi, ove possibile, si piazzava il bischetto davanti all’uscio e, all’aria aperta, si incominciava ad abbozzare il cuoio, a rifilare, a rattoppare, a risuolare, ad impuntire, a punteggiare, a mettere le bullette.

 

Nei centri agricoli, a tempo di messi, calzolai e apprendisti, per una o due settimane, andavano a lavorare in campagna a giornata: realizzavano gli scarponi, eseguivano le riparazioni necessarie, applicavano bullette (tacci), bullettoni e lunette di ferro al tacco e alla punta della scarpa per rinforzarli. Il pagamento delle prestazioni spesso avveniva in frumento o altri beni in natura e/o in denaro a chiusura della stagione agricola, o per la fiera dei Morti. Nel patto era incluso pure il vitto e l'alloggio (nel pagliaio)). Se poi era malannata per i contadini, era malannata per tutti, artigiani in testa. Era un giro che coinvolgeva, come in una catena di S. Antonio, le classi lavoratrici più povere. Forse per questo il calzolaio a volte, non avendo liquido per comprare cuoio di prima scelta, ripiegava su materiale di scarto, e allora, a ragione: “Lu scarparu lu 'mprugghiuni, leva sola e metti cartuni". Ma necessità fa virtù.

 

 CAMMINO, settimanale di informazione e di opinione, 10 ottobre 1993


2 commenti:

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