Il presepio, come rievocazione della nascita di Gesù, si fa risalire a San Francesco, il quale, nel 1223 allestì a Greccio, in un ambiente naturale, una Sacra Rappresentazione. Francescani prima, domenicani e gesuiti poi, diedero successivamente impulso alla costruzione di presepi sia stabili, sia mobili.
Agli inizi del XVI secolo per iniziativa della congregazione dei teatini, si diffuse l’uso di implementare la Sacra Rappresentazione, inserendo, oltre alle figure essenziali della Madonna, del Bambino e di San Giuseppe, tutta una folla di personaggi, di animali (si pensi al “Presepe Cuciniello” con ben 500 “pastori”), di situazioni, di elementi paesistici e scenografici che, discostandosi dalle categorie spazio-temporali, seguirono i gusti espressivi dei singoli autori, uscendo fuori dai luoghi reali testimoni dell'Evento e dai cicli stagionali con le attività e i prodotti ad essi connessi. Il presepio, allora, da narrazione mistica diventò anche narrazione mitica.
L’usanza
nell’isola continua ancora oggi con la produzione di svariate tipologie di
presepi: viventi, stabili, mobili, animati, artistici, popolari. Nel solco di
questa tradizione, si colloca la trilogia dei presepi stabili creati da
Giovanni Leone in mostra a Palazzolo Acreide [1]. L’autore ha rappresentato il Sacro
Evento riproducendolo in tre tòpos assolutamente diversi tra loro sia dal punto
di vista urbanistico-paesaggistico e sia dal punto di vista del tempo storico.
La
sua è una narrazione diacronica, assolutamente originale, di Palazzolo. Parte
dall’arcaica Akrai, per transitare al Medioevo e arrivare infine agli inizi del
secolo appena trascorso. Le tre opere, realizzate nell’arco di oltre quattro
anni, sono quindi a sé stanti, ma insieme diventano un conciso ma
particolareggiato continuum che, pur con
l'inevitabile sincretismo che caratterizza questo tipo di manufatti, palesa
in pochissimi metri quadrati tutta la storia di Palazzolo anche dal punto di
vista antropologico. Leone ci mette a
disposizione, pertanto, uno straordinario triplo spaccato che, partendo dalla
simbologia religiosa dell'Incarnazione, finisce con l’assumere valenze oltre
che storiche anche culturali ed etnografiche.
Nell’arte presepiale,
Giovanni Leone ha un passato fecondo di un vissuto irripetibile: la
collaborazione con Antonino Uccello, la sua amicizia, i suoi insegnamenti, il
coinvolgimento affettivo nelle tormentate vicissitudini della Casa-museo e di
conseguenza la presa di coscienza di un pervicace ostracismo alla cultura
"altra", quella cultura delle classi subalterne che Uccello cercò,
comunque, di diffondere tra la sua gente con la sua fattività concreta e con i
suoi numerosissimi scritti. È stato
il ricordo struggente di quella esaltante esperienza che oggi gli ha dato la
spinta decisiva per riapprodare alla primigenia passione, spegnando così un
incantesimo durato quasi venti anni.
I tre presepi realizzati con materiali
poveri, carta, colla, gesso, polistirolo, mollica di pane, creta, fil di ferro, colori a terra, materiali di risulta, fondi di
caffè, legno e polistirolo, rientrano in una tipologia non
convenzionale, libera da canoni prefissati, anzi, si esaltano proprio per la
dovizia degli elementi profani che, come per sublimazione, riescono a fondersi
magicamente con gli spazi sacri della Natività, delle edicole, delle chiese,
dei sacrati [2].
Tutte e tre le
rappresentazioni sono animate dai “pastori” artistici a firma del figurinaio
calatino Salvatore Raimondo (vedi l’ultimo paragrafo). Si tratta di oltre 200
soggetti in argilla - la stessa Adamà primigenia
plasmata e alitata nella Genesi - alti 5,6
cm, e sono stati creati uno per uno in base ai luoghi e agli interni
realizzati. Gli effetti luce, i movimenti e alcune suppellettili sono a cura di
Giovanni Scirpo.
Il presepe di Akrai
Le antichità di Acre scoperte,
descritte ed illustrate dal barone Gabriele Judica è il titolo della monumentale
opera pubblicata nel 1819 dal mecenate palazzolese appassionato di archeologia.
Giovanni Leone è andato a collocare la sua Natività tra quei vetusti ruderi
restituiti alla luce dal barone Judica, proprio sotto l'Aphrodision,
luogo sacro agli Acrensi veneratori, là dove più forte soffiano i gelidi venti
aquilonari.
Questo sito, che è il più elevato di tutto l'altipiano
acrense, punto d'incontro tra cielo e terra e divino nido d’arte anelante nel
cielo, fra il silenzio meraviglioso dell’azzurro infinito, diventa anche
punto d'incontro della fine e dell'inizio, della morte con la vita. Sì, perché
Gesù nasce nell'ombelico dell'acropoli, nell'omphalos, luogo sacro per
eccellenza, dove per trasposizione ora albergano le greche cave usate come
ipogei dagli antichi cristiani. E allora, lungi dall'essere dissacratoria o
profana, questa scelta è in linea con il simbolismo cristiano che mai dissocia
la vita dalla morte, intesa, quest'ultima, come dies natalis, giorno di nascita alla vita eterna e ritorno al padre.
Anche il tempo sacro, quello delle feste cicliche (e in
questa fattispecie il Natale) è un ritorno, un tempo circolare che chiude un
ciclo e ne apre un altro, come circolare è lo spazio presepiale rappresentato
da Leone: in un’area di tre, quattro metri quadrati è racchiuso il divino
mistero della Natività e l'affascinante storia di Akrai. Il paesaggio che fa
da scenario all'Evento altro non è che un mirabile compendio della zona
archeologica di Palazzolo che, come per malìa, si immerge, e si sublima ancora,
in una atmosfera di primigenia sacralità.
"L’opera - sottolinea l’autore - oltre ad
una celebrazione del Natale, vuole essere anche un omaggio a Gabriele Judica il
quale con le sue eccezionali scoperte ha "rifondato" Akrai e
Palazzolo nello stesso tempo. Il "pastore" seduto sui conci
dell'Intagliata è proprio lui, il "Regio custode delle antichità del Val
di Noto", intento allo studio e alla veglia dei suoi scavi”.
Il presepio evidenzia un territorio geomorfologicamente
massiccio, costituito da calcari bianchi miocenici, velati di grigio,
muschiati. “Questa velatura naturale, questa patina del tempo, è stata
ottenuta - continua Leone - provando e riprovando, miscelando e rimiscelando
terre e altro fino a quando ho azzeccato la formula giusta per la tonalità giusta.
Nel contesto ho pure inserito uno squarcio dell'habitat rurale di contrada
Nicastro (la chiesa, il baglio, la torre) proprio per "rompere" un
paesaggio che a prima vista poteva apparire uniforme e monotono".
Tanti i siti e i monumenti archeologici ricostruiti. Il teatro antico al completo: koilon, orchestra,
scena, i silos bizantini; e poi il bouleuterion, il pozzo degli Osservanti, la
strada greco romana passante per l'agorà, la neviera, il tempio circolare, il
tempio di Afrodite, l'Intagliata e l'Intagliatella con le grotte sepolcrali,
con gli incavi votivi, con le finestre a squame di pesce, con il bassorilievo
figurato; l'edicola votiva del Santicello, il Santicello, e poi,
per trasposizione (ma anche altri siti sono stati trasposti per motivi di
ordine pratico), a Nord del teatro, i Santoni, le dodici sculture rupestri dedicate
alla Magna Mater: è questo un percorso semicircolare illuminato da torce, un
itinerario "sacro" dedicato alla dea della fecondità, intensamente
venerata dagli Acrensi.
Per quanto riguarda l’insediamento antropico che anima
il presepe, dal punto di vista storico è collocabile a cavallo tra l'800 e il
900. Gli interni, curati nei minimi particolari, sono arredati con i mobili e
le masserizie della gente iblea; in una casa
ri stari c'è persino la naca a-bbuolu;
c'è pure la siènia (noria, bindolo)
in azione, l'antica macchina a forza animale per tirare acqua dal pozzo,
costituita da secchie unite a catena con movimento circolare. Poi c'è il fuoco
scoppiettante nella grotta della Natività, ubicata nella casa ri massaria; ci sono anche le cascate nei pressi del teatro a
conferma delle numerose sorgenti presenti sull'Acremonte che servivano per
l'approvvigionamento idrico del sito abitativo.
Il presepio di Castelvecchio
Questo presepio
va a coprire il periodo basso medievale fino al 1693, anno del disastroso terremoto
nel Val di Noto che a Palazzolo distrusse il castello e gran parte delle chiese
e del nucleo urbano.
Fin dall’inizio il nume tutelare (virtuale) di questo progetto
è stato Alessandro Italia, il quale, con la sua opera La Sicilia feudale
fu il primo a descrivere dettagliatamente il castello di Palazzolo e gli usi e
i costumi dell’epoca feudale in Sicilia (questa ponderosa fatica, nel 1942, gli
valse addirittura un’udienza privata con il re Vittorio Emanuele III). In segno
di riconoscimento per questa fondamentale pubblicazione, Giovanni Leone (così
come ha fatto con Gabriele Judica per il “Presepe di Akrai”) ha collocato Alessandro
Italia tra le figure del “Presepe di Castelvecchio”.
Il castello sorgeva su una balza rocciosa a picco sulla
valle dell’Anapo: a sud dominava i quartieri medievali, a nord aveva funzione
di controllo su tutta la valle. L’autore, nella sua ricostruzione, ha tenuto
presente alcuni punti di riferimento topografici certi come il baglio grande,
il baglio piccolo, la chiesa di S. Martino, le due porte di accesso esterno, la
torre quadrata, la torre circolare; per il resto ha ricostruito e ha trasposto
liberamente tutti quegli elementi tipici che contraddistinguono il castello
dalle altre costruzioni. Ci sono perciò le mura merlate con il cammino di
ronda, i dammusi, le segrete, i
magazzini delle derrate, la camera da
letto del castellano, le fortificazioni interne, la sala delle armi,
muraglioni, scale intagliate nella roccia, balconate, porticati.
“Nello stesso contesto – riferisce l’autore –
ho voluto inserire anche gli “Scalilli”, la strada scalinata di epoca più o
meno coeva al castello che collegava lo stesso e il borgo al quartiere di San
Michele e ad Akrai. Lungo questa strada, non più scalinata (da luglio1963-N.D.A.),
ancora oggi esiste una cappelletta denominata cappelletta di “Maria delle
Scaliddi”. All’interno di questa chiesetta, scavata nella roccia, ho posto l’immagine
della Madonna Odigitria, patrona di Palazzolo sino al 1688. In una edicola,
invece ho sistemato un’icona di San Martino che pare sia stato il primo patrono
della nostra città”.
La scalinata si snoda lungo il costone di San Corrado,
sito di grande importanza archeologica e dimora, verso la metà del XIV secolo,
dell’eremita San Corrado. Leone ha quindi riprodotto la grotta-eremo, divenuta
poi chiesa rupestre aperta al culto fino al 1712. Sotto il costone sono stati
inseriti pure i “Ddieri di Bauly”, il complesso rupestre di epoca
bizantina sito nell’omonima cava.
A Nord del castello sotto il costone precipite si apre
la vallata su cui scorre l’Anapo, l’“invisibile”, il fiume del mito e della
memoria, e poi ad ovest si erge una balza rocciosa con anfratti, scaturigine
del fiume, dispensiera di vita e moto al sottostante mulino, arcano grembo dove
alberga il Cristo salvatore del mondo. È qui la
festa, la Natività. In questo presepe Cristo nasce proprio sotto u uttigghiuni, la conduttura forzata
che precipita l’acqua sulle pale della ruota la quale fa girare la mola del
palmento. È questa l’originale grotta dell’Epifania divina, una grotta
splendente e rifulgente luce sacrale.
L’artista, su un piano di otto mq, oltre all’Evento è
riuscito a riprodurre il paesaggio ibleo con le sue inconfondibili peculiarità:
i tavolati rocciosi erosi dal fiume, l’intricato snodarsi delle cavità
carsiche, le pareti muschiose, brune, puntellate di arbusti, di agavi, di
fichidindia, le cascate, la flora con le sue macchie, i suoi alberi, le sue
essenze, l’architettura rurale con i suoi modelli tipologici: gli ovili, i
paralupi, i rifugi, u pagghiaru, il
capanno pastorale fatto di blocchi lavici, i muri a secco, i terrazzamenti, le lenze, le carcare di campagna, le edicole, il mulino ad acqua.
Attraverso le sfumature cromatiche della roccia quasi si
riesce a vedere la sequenza delle stratificazioni geologiche che si sono
sedimentate nei millenni, sembra di percepire l’odore della campagna, dei fumi,
del bucato fresco di liscìa.
Tutto il paesaggio, con la sua architettura, i suoi
colori, la sua atmosfera incantata è di estrema suggestione e di ineffabile
misticismo. Bisogna osservarlo da vicino, con attenzione, frugare con lo
sguardo dentro le case, nelle stanze più segrete, nei recessi, nei dammusi, dentro il mulino, nei mille reticoli
di strade e anfratti per scoprire i particolari più originali, più minuti, più
curati. Solo così si può comprendere perché ci sono voluti ben due anni di
lavoro per portare a termine quest’opera.
Ammirando le scene di lavoro, i riti delle feste e dei
giochi ti senti riportato indietro nel tempo, in quella civiltà contadina di
cui il nostro Antonino Uccello fu cantore assoluto, oppure ti trovi catapultato
in quella Sicilia feudale raccontata da Alessandro Italia, quando “…le luminarie con fascine di busa, veri
fiumi di fuoco che dilagavano, salivano, scendevano per le alpestri vie…”, o
quando “la festa, gaia e rumorosa, era
allietata da enormi farate sparse per le piazze e i punti più alti della città.
Uomini e donne, a gruppi di parentado o di vicinato, vi ballavano intorno
tenendosi per le mani, incitandosi con piccole grida…”.
Il presepe dei quartieri
È
il
presepe delle metafore, a incominciare da quella primaria, liturgica, che è l'allestimento
plastico in tutto il suo insieme e che simboleggia la nascita del Cristo, e
poi: l'uomo alato che campeggia sulla torre dell'Orologio, il frantoio della
Casa-museo, la monumentale fontana della ex piazza Roma, ignominiosamente
cancellata dallo spazio urbano di Palazzolo, spazi e ambienti
"ripuliti" e ritornati ad essere tempio del passato. Bisogna saperlo
"leggere" minuziosamente e intimamente in tutte le sue balze, questo
sofferto scrigno della memoria, in tutti i suoi anfratti, per scoprire, per
capire le inferenze che vi sono riposte: desideri, utopie, ricordi, metafore,
pulsioni, poesia; c'è soprattutto la storia di un paese visto nelle
consuetudini di un tempo con la laboriosità della sua gente portatrice di
esperienze e di tradizioni, ma c'è anche la storia di quell'uomo chiamato
Uccello che con i suoi minuti artigli riuscì a lacerare il velo
dell'indifferenza e dell'ignoranza: è Uccello, l'uomo alato dell' "Orologio",
epifania laica e vigile custode della civiltà contadina e popolare.
L’architettura si sviluppa per sovrapposizioni
e rispecchia e compendia il tipico paesaggio urbano alto-ibleo, in particolare
raffigura i quartieri di Palazzolo all’inizio dello scorso secolo. È caratterizzata da un fitto tessuto di
modeste case terranee del ceto popolare, insistenti su vicoli e bagli e qua e
là sovrastate dalle signorili case palazzate abitate dall'aristocrazia. I
segni, gli stili, i fregi, le maschere, gli intonaci, le grondaie di zinco, le
porte, le tegole grigie o dal colore indefinibile, tutto ha un suo preciso
valore ed una sua funzione espressiva. I punti chiave di questo spazio
organizzato sono contrassegnati dai "monumenti" più significativi per
il loro pregio artistico o per la loro funzione d'uso: la due chiese, la torre dell’orologio,
Fontanagrande, il trappeto.
Il tutto intercomunica
e si raccorda grazie ad una serie di strade e viuzze, di scale, di porticati e
slarghi tra fontane che scorrono, tra comignoli fumanti, fra tannure e forni accesi, per convergere,
quasi senza consapevolezza, verso la "Stalla", splendente di vividissima
e ineffabile luce.
Gli interni, arredati
con masserizie povere ma dignitose (il letto con la coltre bianca, a
culunnetta, u cantaranu, il telaio, u cannizzu) e provvisti
anche di derrate (caciocavallo, salami, la rinomata salsiccia palazzolese posta
ad asciugare su una canna a tramontana), non solo fissano l'esatto tempo
storico del plastico, ma, assieme a tutta l'ambientazione e attraverso le scene
di vita quotidiana nel loro divenire, trasmettono arcani sentimenti di pace e serenità
e concorrono a testimoniare l'incarnazione di Cristo a Betlemme.
Salvatore Raimondo, il pasturaru dei presepi di
Giovanni Leone
Di Caltagirone, ben
poca fama sarebbe rimasta come città produttrice di terracotte artistiche, se
don Luigi Sturzo, dopo la scomparsa degli ultimi prestigiosi ceramisti e
plasticatori dell'ottocento, i Di Bartolo, i Vella, i Bongiovanni-Vaccaro, non
avesse preso l'iniziativa di aprire una scuola di ceramica per perpetuare
l'antica tradizione calatina.
Da questa scuola,
diventata "Istituto d'arte della ceramica", esce il figurinaio
calatino Salvatore Raimondo, allievo prediletto di Nicolò Barrano e creatore
dei “pastori” che popolano i tre presepi di Leone.
Una copiosissima
produzione di statuette in terracotta, quella dei figurinai, che spaziava tra
la Rappresentazione Sacra e quelle profane, riproducendo uomini, animali e
santi. La produzione presepiale dei pasturara
comprendeva prodotti prettamente popolari fatti con stampi a mezzo tondo e
malamente rifiniti ma accesi di vivissime policromie; quella dei plasticatori
“colti”, invece produceva gli stessi pezzi a carattere popolareggiante però a
tutto tondo e di squisita fattura artistica, come è documentato dalle opere di
alcuni dei succitati maestri. In entrambi i casi, quindi, i personaggi creati rappresentavano
umili scene di vita e di attività lavorative quotidiane.
Salvatore Raimondo è nato nel 1962 a Caltagirone, città dove si è diplomato e dove lavora. Un suo vecchio parente faceva il pasturaru ed oltre che nella produzione presepiale era specializzato nella lavorazione di fischietti cristoformi (Cristo nel "cataletto") e di Santi Giacomi (S. Giacomo è il patrono di Caltagirone), venduti in loco e nelle fiere paesane. Raimondo si muove invece nell'alveo della tradizione artistica calatina. Le sue opere sono ispirate alla scuola dei Bongiovanni-Vaccaro come testimonia lo stile e la fattura delle figure esclusive modellate per i presepi “Leone”.
La tipologia della sua produzione spazia dalle figure sacro-profane (pastori, composizioni presepiali, santi, personaggi) al campo degli oggetti d'uso (ma sempre a scopo decorativo): vasi, cannate, sbrunìe, quartare, ecc. Da piccolo, garzone di bottega, andava a cavare la creta in contrada S. Giorgio nella stessa contrada dove risiedette il Vella, abilissimo disegnatore e modellatore. "La nostra argilla è più chiara perché contiene meno ossido di ferro - sostiene Raimondo - ed io le statuine dei presepi di Leone le ho volute plasmare con argilla locale poiché è più plastica di quella di Montelupo raffinata industrialmente, e quindi meglio si presta ad essere plasmata fin nei minimi particolari."
I SIRACUSANI, bimestrale di
storia arte e tradizioni novembre - dicembre 2003, n. 46.
NOTE
[1] Nell’aprile del 2017 i tre presepi di Giovanni
Leone, riguardanti la ricostruzione di ambienti tipici del paesaggio acrense,
sono stati donati alla Casa-museo regionale Antonino Uccello (attualmente chiusa
per lavori di ristrutturazione). Precedentemente erano esposti nei locali della
parrocchia di san Sebastiano.
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