Si chiamava Francesco Lombardo, ma per i
Palazzolesi era don Cicciu Pastasciutta,
nome "d'arte" diventato poi una sorta di marchio di fabbrica, visto
che come ultimo mestiere scelse quello di fabbricare giocattoli.
Alto, apparentemente magro come
un’acciuga, ma con una robusta struttura ossea, le spalle un po’ curve e il
collo esile; una faccia lunga, arsiccia, dai lineamenti marcati, la fronte
larga e rugosa, i capelli grigi, lisci, spartiti a sinistra, grandi orecchi a
sventola, un paio di baffetti incollati sotto il naso e il labbro inferiore
sporgente, a salvadanaio. Era un po’ “filosofo” e parlava in italiano, con aria
seriosa, grave: sembrava non sorridesse mai e quando accennava ad un sorriso
era come ingrugnato. La sua voce era cavernosa, tonante, capace di assumere
toni ridondanti e declamatori nelle giuste circostanze: “Cavaliere Vaccaro… ho
fatto il giro del convento… voteranno tutti per noi!…” ebbe a dire con solenne
enfasi a Paolo Vaccaro candidato alle regionali del 1947 per il Partito
Monarchico Popolare. Il cavaliere natichi ri gomma in tutto accucchiò una
decina di voti.
Da giovane lavorava assieme al padre
nella pirrera di contrada Fontanasecca-Villarosa. Il materiale estratto veniva
frantumato e trasformato in ghiaia, oppure, messo a cuocere nelle tre carcare
funzionanti a ridosso, diventava calce viva. Poi si mise a fare lo scalpellino.
All'inizio del secolo scorso emigrò
negli Stati Uniti, a Middletown, dove trovò lavoro come caposquadra in una
società che costruiva prefabbricati. Lì, nel Connecticut, gli occorse
l’incidente alla mano sinistra: una miccia troppo corta fece deflagrare
anzitempo la carica esplosiva da lui stesso preparata che gli tranciò di netto
le prime tre dita della mano sinistra. Nella stagione fredda portava un guanto
grigio di lana alla mano offesa e un cappotto blu, inverdito, poggiato sulle
spalle.
A Palazzolo, tornò a fare il muratore e
lo scalpellino e poi il venditore di macchine da cucire. Ma, dotato com'era di
creatività e spinto dalla necessità di mantenere dignitosamente la famiglia,
abbandonò la Pfaff
e i corsi di ricamo per signorine per dedicarsi al legno, alla cartapesta e ad
altri materiali eterocliti: si mise a costruire giocattoli e maschere di
carnevale e per di più, avendo la vocazione del bizzarro, si cimentò in diverse
attività a lui congeniali come la costruzione e il lancio di palloni
aerostatici.
Don Cicciu impiantò il suo laboratorio
nella vecchia cava di Fontanasecca ormai in disuso, un po' più in là del
frequentatissimo (sino al '58) casino di Villarosa. Dentro il grottone, scavato
a suo tempo dal padre, impiantò il "reparto cartapesta" e nel locale
attiguo, che fungeva anche da abitazione estiva, si ritagliò lo spazio necessario
per il "reparto falegnameria" in cui si provvedeva al completamento
del prodotto e alla rifinitura. I manufatti, poi, col carruozzu venivano
trasferiti nel tammusu di piazza Sant'Antonio dove venivano pitturati (i colori
a sfumatura si effettuavano con la pompa del Flit) e abbelliti con le varie
minuterie e magari incisi con la tecnica della pirografia.
Ampio il ventaglio di giocattoli
costruiti da don Cicciu: carrittuli, cavalli a dondolo o su rotelle, calessini,
Ciccupeppi, truocculi, pastori in legno (venivano sorteggiati durante la novena
di Natale). Lui stesso per Natale, nella chiesa di sant’Antonio, costruiva il
presepe con muschio e pietre, classico, ma diverso dal solito per via degli
effetti speciali ideati e realizzati da lui: schizzi, giochi d’acqua, di luci,
movimenti, passerelle girevoli. Con le lenti insellate sulla punta del naso,
lavorava di fino e di cervello per ore e ore ai suoi marchingegni e alle sue
diavolerie.
I cavalli a dondolo o su rotelle, come
pure tutti gli altri prodotti di cartapesta, venivano modellati in stampi di
gesso divisi simmetricamente a metà. Quando il macero asciugava si sformava e
si "armava" all'interno con una struttura in legno, quindi si univa
all'altra metà collandolo con gesso liquido che serviva pure da fondo per il
colore. A proposito di cavalli, fu proprio don Cicciu l’autore del logo della
lista vincente dell’U. P. capeggiata nel
1946 dall'avv. Branca e raffigurata da un "Cavallo in corsa".
Un altro giocattolo fabbricato da don Cicciu era u Ciccupeppi, il
pulcinella che suona i piatti. Montato su due ruote e spinto a mano, grazie ad
un asse a camme collegato alle stesse, alzava e abbassava le braccia su cui
erano fissati due piattini di latta che andavano a battere sugli altri due
fissati alla base producendo un suono-rumore che divertiva tanto i bambini.
La produzione era strettamente connessa al ciclo calendariale delle
feste sia sacre che profane e don Cicciu, nei periodi precedenti le feste,
girava presso i suoi affezionati rivenditori del circondario portandosi dietro
un assortito campionario di giocattoli e maschere dal vero, nonché lunghissime
"fisarmoniche" zeppe di fotografie riproducenti al completo i
prodotti della "ditta".
Tra la Quaresima
e la Pasqua
don Cicciu si trasferiva con tutta la
famiglia nei laboratori di Costa-Fontanasecca e qui si fermava sino ad ottobre
inoltrato. Era questo il periodo migliore per lavorare la cartapesta ma
soprattutto per farla asciugare direttamente al sole.
Subito dopo i Morti, con la collaborazione dei familiari e di ragazzi
apprendisti, passava alla rifinitura e al completamento dei manufatti
carnevaleschi. Per le maschere si andava da quelle a mezza faccia a quelle a
tutto tondo e quindi ai grossi testoni per i carri allegorici. I soggetti più richiesti
erano il Pierrot, il vecchio grinzoso e rubicondo, l'orso, l'asino, il leone
ecc. Le maschere più care erano pure cedute in affitto a serata come altresì
gli eleganti costumi di stoffa.
Ma il buon don Cicciu era conosciuto in
tutta l'area iblea anche per i suoi palloni volanti che lanciava in “orbita” in
occasione delle feste. Era quello il momento più atteso di tutta la festa, sia
per l'atmosfera di suspense che precedeva il lancio (specie se tirava vento) e
sia per la spettacolarità dell'evento in sé stesso.
L'involucro degli aerostati era di carta
velina colorata e attorno alla struttura di fil di ferro prendeva forme
diverse, secondo le richieste dei committenti. Il modello più comune era una
stella a sette punte (stellario) con l'immagine del santo festeggiato da una
faccia e l'Evviva dall'altra; c'erano poi il gallo, l'anatra, il pesce, il
pallone a tre punte e così via.
Ma la mongolfiera scenograficamente più
spettacolare era quella del drago con sette teste infocate che uscivano da un
groviglio di coloratissimi festoni a frange e sotto ogni testa bruciava del
cotone imbevuto di petrolio. Quando questo tipo di mongolfiera fiammeggiante
prendeva il largo sembrava una ninfa accesa nel cielo, un lampadario volante
dalle braccia sfavillanti di luci. Al varo, don Cicciu prima gonfiava i palloni
con l'aria calda prodotta dalla combustione di pastruna stagionati. Subito dopo
dava fuoco al fornelletto col petrolio posto sotto la bocca dell'involucro e
l'aerostato si librava tra le grida di stupore e di ammirazione dei
ragazzini.
I palloni di don Cicciu erano diventati
tradizione per la ricorrenza di san Michele a Palazzolo, ma solcavano pure i
cieli di S. Lucia di Mendola, di Testa dell'Acqua, di Canicattini, di Ferla, di
Cassaro, di Ragusa Ibla, ecc.
Tutto questo fino ai primi anni '50,
quando ancora ci si contentava di poco. E con poco o niente, piccoli e grandi,
grazie a don Cicciu, riuscivano ad
accaparrarsi effimeri sprazzi di felicità.
Nessun commento:
Posta un commento