L'aria
è frizzante, il cielo è plumbeo e pioviggina. Una voglia d'autunno ti prende.
Una voglia indefinibile, di ricordi, di conche
accese, di odori, di nonne con mostarde e scorze dentro alte credenze; una
voglia di sapori, antichi, perduti. E' il momento in cui le nostre donne,
ancora legate alla tradizione, preparano mostarde e cotognate e le vetrine dei
pasticcieri si arricchiscono di "frutta martorana".
La mostarda
L'etimologia della parola mostarda deriva dal latino mustu, mustum (mosto). Il mosto difatti
è uno degli ingredienti di questo tradizionale dolce siciliano che nella
parlata locale è detto mustata, a
riprova dell'etimo originario.
Si preleva il succo appena pigiato (un tempo, quando si
pestava con i piedi, lo si prendeva prima di aggiungere la calce usata come
disinfettante) e si mette a cuocere con dentro un sacchettino di cenere di sarmenti
o anche di ulivo o di mandorlo assieme ad un pezzo di ciaramira (servono a temperare l'asprigno e dolcificano allo stesso
tempo). Dopo una bollitura piuttosto lunga si lascia decantare il cotto per
circa ventiquattro ore. Si prende poi dell'altro mosto fresco dentro cui si fa
sciogliere a freddo l'amido o farina di maiorca, e si riversa nel cotto già
filtrato. Si riporta il tutto a bollore rimestando con una paletta di legno e
facendo cuocere per dieci minuti. Prima di spegnere il fuoco si aggiungono delle
mandorle tostate e tritate, una
incipriata di cannella e di buccia d'arancia pestata finissima, e se
piace anche un pizzico di vaniglia.
Ancora tiepida, si versa nelle tipiche formelle di
ceramica di Caltagirone appena inumidite e quindi si mette ad asciugare al sole
per un paio di giorni. Dopo si sforma e si rimette ad asciugare ancora per
qualche giorno, rigirandola di continuo. In seguito, si conserva in carta oleata o in barattoli in
compagnia di foglie secche di alloro.
La mostarda di fichidindia è una variante di quella
classica di solo mosto: a questo si aggiunge, nella giusta proporzione, polpa
di fichidindia setacciata.
La mostarda di fichi, invece, è mostarda senza mosto. Si
privano i fichi del peduncolo e si tagliano a
pezzetti, quindi si mettono a cuocere per due, tre ore assieme a buccia
d'arancia, chiodi di garofano, cannella a stecche; si filtrano con una
"mappina" bianca e il liquido si rimette di nuovo sul fuoco
aggiungendo 100 g di farina per litro e rimescolando. Alla fine si mettono
altri aromi preferiti e poi noci o mandorle tostate, quindi si versa nelle
formelle figurate di terracotta.
La cotognata
"Carissimo
Nino... una donna... per forza volle portarmi a casa sua... mi offrì un dolce
di un sapore che ancora riaffiora ai sensi le sere d'inverno, che dolce così
l'ho ritrovato soltanto quest'estate a Palazzolo Acreide,... perchè in questo favoloso paese fanno una
specie di marmellata di cotogne, la mettono al sole in strane forme di terracotta
che rappresentano santa Rosalia, o il
seno di sant'Agnese o semplicemente c'è scritto "tesoro mio". Poi...
te l'offrono in una serata dolce d'estate sulla terrazza d'un palazzo
antico..." Così il pittore Luigi Guerricchio, il 13 agosto
del 1968, scriveva ad Uccello da Matera. In questa affettuosa confessione è
compresa tutta la squisitezza della nostra cotognata e la conferma che si
tratta di un dolce di lunga conservazione.
Il pregio della cotognata sta nella chiarezza e nella
trasparenza della purea. Per ottenere tale prerogativa si scelgono cotogne (è
cattivo augurio regalarne alla fidanzata) non completamente mature (ntinìri) e si usa abbondantemente il
limone; poi si deve sapere azzeccare il tempo di cottura soggetto a diverse
variabili.
Si lavano e si strofinano le cotogne ad una ad una per
eliminare l'impalpabile peluria (u
lippicieddu). Si mettono a bollire in acqua fredda con quarti di limone
privi di buccia; poi, dopo sbucciate, si tagliano e si passano al setaccio; a
parte si prepara il caramello: un kg di zucchero in un bicchiere d'acqua di
gelsomino; quindi si aggiunge la stessa
quantità di pasta di cotogne e si mette a fuoco lento rimescolando con una
paletta di legno fino alla cottura che va dai cinque ai dieci minuti (la
marmellata è pronta quando "tiene" nel cucchiaio). Si toglie dal
fuoco e per spegnere subito il bollore si
infila la pentola con la cotognata dentro un recipiente più grande con
acqua fredda; da qui si mette nelle bocce o nelle formelle umide di limone (è
nota la mania del marchese di Castelluccio, il quale inviava con largo anticipo
le proprie formelle di terracotta al suo pasticciere (netino) di fiducia per
informarvi tutta la cotognata ordinatagli). Si sforma dopo ventiquattro ore e
si mette ad asciugare.
La pasta reale
Fino a qualche decennio fa, una settimana prima dei
morti i banconi e le vetrine dei dolcieri, come per incanto, si coloravano di
frutta di pasta reale sistemata in grandi vassoi o in cestini di vimini,
sigillati con carta cellophane e con il fondo imbottito di pagliuzze colorate.
Oggi questo tipo di marzapane, che è alla base dell'alta attività dolciaria
siciliana, si trova tutto l'anno e viene preparato un po' dappertutto, anche
fuori dalla Sicilia e anche in forme diverse dalla frutta.
Pure questo è un dolce che si conserva bene per molto
tempo; da qualcuno viene chiamato "dolce riposto", ma non in
riferimento al centro etneo vicino Giarre quanto piuttosto perchè dolce da
riporre, cioè da conservare senza paura che si guasti (il vero "dolce di
riposto" però è marzapane farcito e glassato).
Il nome "pasta reale" invece gli deriva dal
fatto che originariamente era preparato nelle sontuose cucine reali e quindi
era dolce da re e da nobili, tanto bello a vedersi e da mangiarsi.
Ma si chiama anche "frutta martorana" dal nome
di uno dei conventi di Palermo (la Martorana) in cui frati-pasticcieri
ottennero il monopolio e il segreto della ricetta che, essenzialmente, è a base
di mandorle sgusciate, farina, miele, zucchero e cannella ridotti in pasta
molto raffinata.
Ecco a tal proposito la celebrazione di questa
specialità da parte di Giovanni Meli nella sua poesia "Li cosi duci di li batii": La Marturana chi è vera
cuccagna/Vogghiu ludari e sono la sampugna/Pri frutti naturali è cosa
magna;/Biatu cu c'è amicu e si ci 'ncugna;/Chi è bedda la carrubba e la
castagna:/Li pruna, li varcoca, li cutugna...
Questa pasta diventa "frutta" grazie ai calchi
di zolfo o di gesso e grazie soprattutto all'abilità degli artigiani
pasticcieri in gara con la Natura e capaci di modellarla, di colorarla e di
lucidarla in modo tale da dare la massima verosimiglianza alla frutta vera.
IL CORRIERE DEGLI IBLEI,
ottobre 1998
1 commento:
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