Chi fu testimone difficilmente potrà dimenticare
quella scena esilarante avvenuta al Corso in un lontano Carnevale degli anni
’50.
Il palco, allestito sul marciapiede all’altezza della seconda arcata dei
portici, pullulava di giurati. Nel bel mezzo della sfilata, improvvisamente,
l’effimera struttura (mai il termine effimero fu così azzeccato come in questo
caso!) crollò e inghiottì tutti quelli che l’affollavano, tra cui anche il
professore Sisino. Questi, con una fulminante prontezza di spirito, inscenò lì
per lì un affondamento in alto mare, e si mise ad agitare le braccia come un
naufrago. Era uno spasso vederlo annaspare e nuotare da attore consumato in
quel parapiglia di uomini e di tavole. Quella fu, senza dubbio, la
rappresentazione più riuscita e divertente di quel Carnevale.
Una peculiarità del prof. Sisino era quella di sapersi
facilmente adattare a qualsiasi nuova e imprevista circostanza. E diverse volte
nella sua vita fu costretto a ricominciare daccapo, come l’ultima volta, ad
esempio, quando, rimasto solo a Palazzolo, a 76 anni si trasferì a Trieste presso il figlio Giovanni.
Pur se lo struggimento per la sua Palazzolo e per i suoi vecchi amici glielo si
leggeva negli occhi, tuttavia, anche lì, lontano mille miglia dalla sua terra,
era riuscito ad adattarsi alla nuova situazione (e persino alla bora) e a
riprendere le vecchie abitudini. Il suo nuovo quartiere generale l’aveva
stabilito in un bar di via XX settembre. Lì, “Da Franco”, stava a conversare e
a discutere per l’intera giornata con il cugino Arturo Rizzarelli, con l’altro
compaesano Aurelio Buccheri, con i nuovi amici triestini, con i giovani; lì stava a consumare le sue Alfa e i suoi caffè,
accompagnati dall’immancabile bicchiere d’acqua; lì stava a contemplare, a
meditare, ad osservare.
Ebbe anche il tempo di dedicarsi alla pittura che ai
Sisino era congeniale (il fratello Giorgio ma soprattutto il padre Bartolo hanno dipinto, fra l’altro, quadri e
affreschi in alcune case patrizie di Palazzolo). A 80 anni suonati quindi,
riprese a dipingere: figure antropomorfe e paesaggi. Si recava nei posti più
suggestivi di Trieste, si riempiva gli occhi e il cuore di tutte le bellezze
che gli si presentavano e poi a casa su pezzi di compensato riproduceva in modo
creativo gli incanti che aveva osservato e fotografato mentalmente.
In dieci anni di permanenza a Trieste, dal 1970 sino
alla fine, era riuscito non solo a crearsi ex novo una nutrita cerchia di
amicizie, ma aveva incrementato pure, e di molto, il suo già notevole
patrimonio di utensili, attrezzi e cacciaviti vari (aveva una vera passione
maniacale) avendo scovato, sempre lì, il “Licitra” della situazione.
Era un uomo vigoroso, massiccio, fatto senza
risparmio, dominava tutti con la sua persona. Aveva dei lineamenti decisi, una
fronte ampia, spaziosa, due pesche mature sotto gli occhi, un pronunciatissimo
solco al labbro superiore, una bella pappagorgia cardinalizia e a seguire una
consolidata pancetta; un naso con un sentore di aquilino e il carattere tutto
dell’aquila: forte, fiero, risoluto. La bianca chioma, ondulata e fluente, che
gli arrivava sin oltre alla nuca gli conferiva un’aria ieratica, sembrava un
Mosè.
Era stato ufficiale di cavalleria, con i dragoni, e
qualcosa gli era rimasto di quella
ferrea disciplina militare: la perentorietà nel parlare, l’icasticità del
gesto, la voce; quella voce cavernosa, vibrante, solenne, che intronava e
metteva soggezione, specialmente ai giovani discepoli e agli interlocutori che
non lo conoscevano intimamente; una voce che solo a sentirla da lontano faceva
aggricciare le carni. In fondo, però, era, quel che si dice, un burbero
benefico e godeva di grande carisma tra tutti quelli che lo conoscevano.
E a Palazzolo lo conoscevano tutti ed era amico di
tutti. In paese fu tra i primi a fare il fotografo e nel suo campo era un vero
artista, emulato poi da Ettore il maggiore dei figli. Prezioso il suo archivio
(andato disperso) con reportage fotografici e filmine relativi all’ultima guerra.
Poi ebbe l’incarico di segretario al Liceo-Ginnasio, ma continuò a fare il
fotografo ancora per un certo tempo, ma soprattutto, seguitò, fino a quando
ebbe le forze, a tenere lezioni private di matematica -“La matematica è un
ricamo” soleva dire ai ragazzi - e di francese (“Vi interessa una buona
preparazione di matematica? Volete conoscere seriamente la lingua Francese?
Affidatevi al prof. Sisino”, così recitava la pubblicità sul giornale locale il
“Semaforo”). Nell’udire quella sua voce
solenne, declamatoria, dalla pronuncia irreprensibile, sembrava di avere a che
fare il presidente della repubblica francese in persona.
E in Francia c’andava spesso, a Parigi, dove era di
casa al Lido e al Moulin Rouge. Al ritorno, da Siracusa prendeva il trenino e
scendeva alla stazione di Buscemi-Palazzolo, e qui si riservava una Mylord
tutta per lui. Con un elegantissimo lino bianco e un bianchissimo panama sulle
ventitré, con le gambe accavallate, le scarpe bianche e l’Alfa stretta sulle
punte delle dita, rientrava a Palazzolo con l’aria di un padre priore satollo.
Al bar avrebbe avuto di che parlare: donne, avventure, musei, castelli,
mirabilie.
Nei momenti di pausa delle lezioni private si
divertiva a raccontare ai ragazzi fatti personali, la sua vita, le avventure, i
dragoni, le manie dei figli: “Oggi mio figlio Giovanni, prima di uscire, ha
dato 73 colpi di pettine al suo ciuffo biondo”, dichiarava con enfasi quando
era in vena di prenderli in giro. Proverbiale la sua “ganascia”: “Con questa
‘ganascia’ ti scaravento a terra” soleva dire ai suoi allievi tra il serio e il
faceto e intanto mostrava in tutta la sua estensione il palmo della mano
destra.
Rocambolesca la storia del suo secondo matrimonio.
Dopo aver fatto strage di cuori a destra e a manca, si fidanzò con una cugina
americana, affermata cantante lirica. All’improvviso però la piantò in asso
perché si era innamorato perdutamente della donna che subito dopo diventò sua
moglie. Purtroppo, dopo avergli dato tre figli, di cui il più grande aveva
appena otto anni, la signora scomparve prematuramente. Il suo dolore fu
immenso, si disperò, incominciò a sfasciare mobili e suppellettili. Dopo alcuni
anni di vedovanza, inaspettatamente si fece viva dagli Stati Uniti la cugina
cantante: si rifidanzarono e si sposarono. Sennonché, questa volta, dopo pochi
mesi di matrimonio, fu lei a piantarlo e a ritornare in America. Evidentemente
la moglie-cugina-soprano aveva covato vendetta per l’antico sgarbo e finalmente
aveva trovato l’occasione propizia per vendicarsi.
Il professore, allora, si rimboccò le maniche e fu
costretto a fare da padre e da madre ai suoi figli, tutti e tre maschi. Era lui
a cucinare, a lavare, a stirare e di questo non se ne doleva. La casa era
sempre piena di roba da mangiare, il ben di Dio. Gli piaceva la buona cucina e
il buon bere durante il pasto che accompagnava sempre con un litrotto di rosso.
In questa fase della sua vita è da ricordare l’episodio delle due “ragazze”
attempate che con il binocolo puntato su piazza Umberto (abitava lì a quei tempi),
dal belvedere del Bando curiosavano, sperando di assistere, senza essere viste,
a qualche scena interessante. Il professore, ancora giovane e aitante, era
appena uscito dalla vasca da bagno e con l’accappatoio addosso si era portato
al balcone a crogiolarsi, quando d’un tratto si accorse di essere osservato con
estremo interesse dalle due bramose signorine. Allora, in un lampo aprì
l’accappatoio sul davanti, e si mostrò, zoomato, in tutto il suo splendore. Le
signorine apparentemente diedero l’impressione di rimanere schifate ma il loro
turbamento lasciò intravedere ben altre sensazioni.
Era un uomo a cui piaceva stare a contatto con la
gente e con i giovani. Aveva eletto come seconde case il bar del Bbossu (caffè “Italia”) e l’”Anapo”. Nel tempo libero, seduto al
tavolo, stava a conversare con il crocchio dei suoi amici e a godersi i tre o
quattro caffè accompagnati dal solito bicchiere d’acqua (a volte preceduti da
uno schizzo di acqua di seltz e mezzo cucchiaino di bicarbonato per tenere
buona l’acidità che se lo mangiava) e seguiti dal solito inesauribile numero di
Alfa dure. Tenendo serrata la sigaretta nell’inforcatura tra l’indice e il
medio gialli di nicotina, la portava alla bocca con la palma aperta aspirando e
assaporando con intensa voluttà l’aroma catramato e seguendo con lo sguardo
assorto le azzurrine spirali di fumo. Nei suoi polmoni, sani fino all’ultimo,
ogni giorno passava tutto il veleno di ben sette pacchetti di sigarette da 10.
La sera fino a notte tarda teneva banco con i giovani, affascinati e appagati
di sentirlo conversare e disquisire su qualsiasi tematica.
Era assai distratto e su questo suo punto debole
esiste una vasta aneddotica. Una volta, ad esempio, uscendo di casa di sera per
recarsi al solito bar, passò prima dal tabaccaio di piazza San Michele per fare
scorta di sigarette. Il buon don Vincenzino, appena lo vide entrare, stralunò e
si mise a guardarlo a bocca aperta. Il professore impermalito lo apostrofò: “Vicinzinu cosa guardi così rimminchionito?!”. “Le sue mutande professore!” rispose il
signor Marietta di rimando con la
mano davanti la bocca e trattenendosi dal ridere. “E’ vero, hai ragione perdìo,
ho dimenticato di mettermi i pantaloni. Ritorno a casa e me li infilo ”,
aggiunse il professore senza scomporsi più di tanto e giù una sonora risata
seguita da quella dello già scompisciato don Vincenzino.
2 commenti:
A causa del COVID-19 ho perso tutto e grazie a dio ho ritrovato il mio sorriso ed è stato grazie al signore Pierre Michel, che ho ricevuto un prestito di 65000 EURO e due miei colleghi hanno anche ricevuto prestiti da quest'uomo senza alcuna difficoltà. È con il signore Pierre Michel, che la vita mi sorride di nuovo: è un uomo semplice e comprensivo.
Ecco la sua E-mail : combaluzierp443@gmail.com
Una grande persona con un cuore generoso verso tutti. Non perché fosse mio nonno, ma era veramente un grande uomo.
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