«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

In nome del bisogno. Quella volta a Casabianca


PALAZZOLO. Una frattina, una vera frattina era. Rovi, Pruni selvatici, russuliddi, strazzacausi (Smilax aspera), praini, olivastri, querce, scornabecchi (Terebinthus), alaterni; una spolverata di terra e sotto roccia e puntali. In compenso una invidiabile posizione panoramica.
Un dolce declivio a terrazzi da cui si ammira e si domina un arioso paesaggio senza confini, bellissimo e suggestivo. L’Etna innevata nelle giornate limpide, monte Grosso, Bibinello, Pantalica, Ferla, Cassaro, monte Lauro, Cugnarelli, Valverde, Cava dei mulini (dalla quale arriva anche il gorgoglio del Purbella e il guaiolare dei volpacchiotti dell’ultima figliata) e infine Palazzolo tutta, dall’Acremonte al Pantano, la chiesa di san Sebastiano… E tutt’intorno il verde degli ulivi, dei querceti, dei lecceti, figli della roccia e allevati meglio che sulla terra, punteggiato qua e là dal rosso dei tetti delle casine sparse in tutta la zona. Un diliziu vero e proprio che, come per magia, mi stregò fin dal primo momento e continua a stregarmi ancora dopo trent’anni. E la componente magica non manca davvero visto che poco distante campeggia la cosiddetta “Casa degli spiriti”, alias a casina ro signurinu Calliri, abitata, secondo la credenza popolare, da ineffabili folletti e fantasmi dispettosi.
Sto parlando della mia campagna, u cuozzu ro Cuccu, un triangolo di terreno in contrada Casabianca o Quagghialatti che dir si voglia, tre tumoli di pietre e di rocce affioranti, a tre chilometri da Palazzolo. Nel comprarla mi innamorai della posizione strategicamente dominante, delle rocce macchiate di licheni e di ruggine, degli alberi spontanei e selvatici da innestare. Non c’era ombra di casa o di casuommulu, mancava la luce, mancava l’acqua, i muri a secco erano sbracati e da rifare, la terra era poca e poco profonda.
Quello che non era poco invece era il mio entusiasmo che ancora oggi è lo stesso di trent’anni fa. Da perfetto analfabeta della campagna, ma confortato dalla buona volontà e poi dalla passione, col tempo sono diventato quasi un viddanu: ho imparato a potare, a innestare, a zappare, a coltivare, ecc. Ho innestato decine di ulivi, peri, fichi, rose canine, ho fatto trasportare camionate di terra, ho ideato e realizzato lenze, viali, vialetti, aiuole, aiuolette, anfratti, scale, scalette, ma soprattutto ho assecondato la natura del terreno, senza stravolgerne le caratteristiche.
Per accedere al terreno si imbocca una trazzera, a trazzera ri don Luciu, la quale prima che venisse realizzato il tratto a scorrimento veloce (S.S. 124) per Solarino serviva diverse proprietà. Poi tale trazzera fu letteralmente tagliata dal nuovo tratto di statale e finì con il servire solo alcune campagne, tra le quali la mia. Per l’accesso alle altre, ubicate sul lato destro della suddetta statale, fu realizzata una stradina locale con innesto sul tratto dimesso della 124, subito dopo l’incrocio di contrada Carità. La vecchia trazzera quindi diventò poco transitata, anzi in quel periodo me ne servivo quasi esclusivamente io, visto che i vecchi proprietari dei terreni limitrofi al mio non si facevano mai vedere da quelle parti.

IN NOME DEL BISOGNO
Era un pomeriggio del mese di maggio. Come al solito ero andato in campagna per i soliti lavoretti passatempo ma anche per costruire con l’immaginazione la casa che già era stata realizzata sulla carta. La pala meccanica aveva già sbancato la superficie destinata alla costruzione e aveva ammonticchiato il materiale, veri e propri macigni, vicino la quercia grande, una quercia plurisecolare a poca distanza dalla costruenda casa.
Io già la vedevo in piedi in “carne e ossa”, la casetta, bell’e pronta per essere abitata. Mi vedevo seduto in veranda nelle sere d’estate a godermi una brezzerella tonificante, mi vedevo assieme agli amici intento a mangiare, grigliate di pesce, di carne, salsicciate, mi beavo nel fare la pennichella estiva, la doccia… ecc. ecc. Lavoravo e intanto col pensiero coccolavo tutti questi godimenti. Ed ecco che di punto in bianco ebbi la trascurabile avvisaglia di una esigenza… che ritenni di potere rinviare senza alcuna difficoltà. Continuai a fantasticare sulla casa in costruzione: la doccia (la vasca da bagno no perchè occupava troppo spazio), e qui c’eravamo arrivati, e poi il lavandino, il bidet, lo scaldabagno, il water… Già il water. Al pensiero del water, di colpo, l’esigenza che mi portavo dietro da qualche minuto diventò necessità. E mi vedevo a casa a Palazzolo, nel bagno, col giornale in mano. - Ce la faccio ad arrivare a Palazzolo - pensai - sto un altro po’ e poi torno a casa. Avevo fatto i conti senza l’oste. La necessità era diventata improcrastinabile, bisognava rompere gli indugi, non c’era più tempo nemmeno per pensare. Che fare? Quello che fanno tutti in una simile circostanza: un posto al riparo dagli sguardi indiscreti e si “scende in campo” (scendere in campo una volta aveva il significato di andare nell’orto annesso all’abitazione priva di servizi, per espletare routinariamente i bisogni corporali: mi viene in mente la battuta di Benigni sulla scesa in campo di Berlusconi ). Feci una valutazione urgente e sommaria dei siti adatti alla bisogna e mi convinsi che il posto migliore era senz’altro al centro di quei macigni che la pala meccanica aveva ammassato provvisoriamente nei pressi della grande quercia.
Le spalle anche se scoperte non erano alla vista, a destra e a sinistra ero riparato dai massi, davanti c’era la trazzera di cui s’è detto e in quel tratto era obsoleta in quanto i terreni che seguivano ormai erano serviti dalla citata stradella della Carità. A mia memoria, da quando avevo comprato il terreno, da lì non era mai transitata anima viva. Meglio di così! Ero in una botte di ferro. Prelevai dall’auto il rotolo di carta igienica e con una certa premura, ormai, andai a piazzarmi nel posto agognato. La Scottex, deposta sul masso alla mia sinistra, subito incominciò a sventolare come una bandiera, ma niente male, a chi avrebbe potuto dare segnali di resa? Ero assolutamente solo. Solo, immobile, accovacciato, assorto, quasi quasi mi beavo; c’era un venticello che ti faceva un piacevole solletichino, l’area interessata all’operazione era sgombra di ardiculi mascolini e di cipuddazzi, gli uccellini cinguettavano, le farfalle volavano di fiore in fiore. E a pensare che poco prima l’operazione voleva rimandarla al mio ritorno a Palazzolo. Ma quando mai! Questo è il bello, anzi il bello della diretta!... Così assorto e soddisfattissimo della scelta fatta, d’un tratto ebbi la sensazione di aver percepito un fruscìo, uno scalpiccìo. - Saranno state due lucertole in amore che si rincorrono - dissi a me stesso, senza minimamente allarmarmi. Però, con l’orecchio teso, tanto per, cercavo eventuale conferma di quel sospetto frusciare, ed ecco che subitaneamente mi si stagliano davanti nel tratto di trazzera in disuso e a circa una ventina di metri di distanza due belle figure, marito e moglie, che in completo abbigliamento sportivo avevano deciso di fare footing e passavano di lì per caso per poi tornare indietro. Di primo acchito mi sembrarono due fantasmi scappati della “Casa degli spiriti”. In un nano secondo dovevo prendere una decisione. Sì! Ma che fare? Indietro come i gamberi, in quella posizione poi, non potevo andare; ai lati avevo quegli enormi puntali; davanti? sarei andato a finire proprio tra le loro braccia. Era la fine, ero perduto. Rimasi acculato, cercai di darmi un contegno, un colpetto di tosse, speravo che i due amici (quanto ero fesso!) non mi vedessero. Un secondo dopo i due pimpanti atleti, arrivati alla mia altezza, si fermarono, e con nonchalance si avvinghiarono con le dita alla rete di recinzione, pronti a fare quattro chiacchiere tète-a-tète con me. La buona donna mi fece la fatidica domanda: - Che stai facendo?-. -Già, che stavo facendo?-. Non potendomi nè alzare, né sedere (per ovvi motivi), e inerme come un verme, con le mani feci maldestramente finta di frugare a terra come se avessi perso qualcosa e nel frattempo tentai di abbozzare una risposta la meno cretina possibile: -Chi io? Ah! Mi sono cadute 100 lire proprio qui e non riesco a trovarle. -E voialtri? - cercai di farfugliare. -Stiamo facendo footing-. -Ah sì…- replicai io e intanto, trascolorato, continuavo a grufolare con le mani. La Scottex sventolante si era srotolata quasi tutta, incoraggiata dalla leggera aura di cui sopra e si impennava anche, quasi a voler dire “Amici, ci sono anche io e, checché se ne dica, ho una funzione importante in questi frangenti”. -Beh… noi ce ne andiamo, saluti a casa - dissero finalmente i miei due amici. - Grazie… altrettanto… - riuscii a dire con un fil di voce e sudato freddo, sudato come se le dodici fatiche le avessi compiute io e non Ercole. E’ vero! Gli amici si vedono al bisogno.

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