«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

Le sculture antropomorfe di Rosario Masciarò


L’occasione fa l’uomo ladro. Avendo la disposizione per la lettura e la materia prima a iosa e a portata di mano, Masciarò, agente prima della U.T.E.T. poi della Einaudi, di libri ne ha letti tanti, tantissimi, e continua a leggerne ancora anche se ha smesso di fare il venditore. Gli piace leggere, parlare e discutere instancabilmente di tutto: di filosofia, di poesia, di politica, di religione, di Columella, di tradizioni, di arte, eccetera. Ma, oltre che leggere, conversare e respirare l’aria fine della sua residenza di campagna in contrada Serravitrano, e tutto il resto, gli piace pure scolpire facci ri ‘ntagghiu.
E, anche in questo caso, ha una naturale inclinazione e la materia prima a iosa e a portata di mano, perché, come si sa, la campagna palazzolese, grazie a Dio, abbonda più di pietraie che di terra.
A suo tempo, Nostro Signore forse non azzeccò la giusta percentuale di elementi da assegnare ai colli Iblei e abbondò troppo in puntali; ma, non ha importanza, comunque; ci guadagna sicuramente il paesaggio assai vario e affascinante, e ci guadagna pure Rosario Masciarò che a ogni piè sospinto ha solo l’imbarazzo della scelta nel fare sua una pietra anziché un’altra. E poi, la pietra calcarea della “Formazione Palazzolo” è duttile, tenera, bianca, con tonalità leggermente dorate, cedevole allo scalpello per qualsiasi operazione o maquillage.
Il Nostro mette in ginocchio la carriola che si porta dietro nel vano “canile” della sua Mondeo SW, vi carica la prescelta, e per mezzo di una tavola ri ponti fa riscivolare la carriola dentro la vettura con il prezioso minerale, patinato e punteggiato di licheni violacei o giallognoli, a volte litoclasato: quando arriverà il momento lo sottoporrà a chirurgia facciale presso il suo laboratorio in aperta campagna o in quello di via San Sebastiano a Palazzolo.
Più che un artista Masciarò si professa un creativo, dotato di fantasia e di immaginazione; capace di “vedere” di primo acchito nell’apparenza informe di un pezzo di calcare, un Giano, una Cibele, un viso a lui conosciuto. La sua dice che non è “arte”, o, se la è, la ritiene un’arte anomala e lui stesso un “artista” anomalo, naif in senso lato.

Il “mal di petra” Masciarò l’ha avuto fin da piccolo, quando, affacciandosi dalla finestra della sua casa di Gagliano Castelferrato, si trovava di fronte la montagna con in cima la rocca e una miriade di pinnacoli e creste che visti con i suoi occhi diventavano dei Polifemi, dei Mangiafuoco, dei Garibaldi a cavallo, streghe, uccelli: una sorta di “Castello incantato”  simile a quello realmente scolpito nelle rocce del monte Kronos dal contadino - artista Bentivegna. Si arrovellava e si affannava il piccolo Rosario nel mostrare quello che lui “vedeva” e che gli altri non “vedevano” e intanto con la sua fervida immaginazione collaborava la natura-artista che nel tempo aveva plasmato surreali figurazioni alla stregua di ingannevoli morgane.
Passati gli anni, poi, e passata molta acqua per calanchi e per ponti, la sua collaborazione con l’aria, l’acqua, e il vento si è materializzata: armato di scalpello, mazzuolo e inventiva, ha continuato il lavorìo degli elementi cavando maschere e volti dalle pietre. 
Masciarò è felicemente autodidatta, non vanta nessuna scuola di arti visive alle spalle; questo suo status artistico è poi diventato una scelta definitiva, allorché, frequentando a motivo del suo lavoro i fratelli Brancato, uno pittore e l’altro scultore di gran fama presso l’Accademia di Belle Arti di Catania, costoro gli suggerirono di non “imbastardire” la sua vena soggiogandola a canoni e regole che avrebbero impastoiato il suo estro. Dove gli mancava la scuola, gli fu detto, avrebbe sopperito la sua teoria “masciaròiana” basata sul principio di entropia applicata all’arte.
Il pensiero che sottende e che supporta l’istinto “artistico” di Masciarò è informato a questo principio di fisica che lui ha sposato integralmente e mette in atto ogni qualvolta deve dare alla luce uno dei suoi volti: “Se ad una pietra amorfa, quindi in uno stato di entropia (disordine), a poco a poco si immette l’energia delle mani e quella pensante, la pietra assume una certa forma; tale forma naturalmente varia a seconda della sensibilità del soggetto che le trasfonde energia: il risultato finale è così un unicum irripetibile che riflette gli intendimenti dell’artista che l’ha tolta dallo stato di caos.
Nel momento in cui io scelgo una pietra” continua Masciarò “la scelgo perché già in nuce ‘vedo’ l’embrione della figura che intendo realizzare. Partendo da questo canovaccio naturale e dando fondo ad alcune mie recondite cognizioni di disegno, con la matita vi tratteggio sommariamente  l’architettura del viso, mettendo in evidenza le parti anatomiche più significative: gli occhi, il naso, la bocca, la mascella soprattutto. Una volta abbozzato il soggetto, poi sono io che decido, nei particolari, quello che intendo cavare fuori, ciò dipende anche dai miei stati d’animo. Finito il lavoro, per un po’ di tempo lascio il manufatto in quarantena sorvegliata: lo osservo quasi distrattamente poi lo studio con attenzione e alla fine se ritengo di apportare delle modifiche intervengo senza indugio.
Lo stesso concetto di entropia” prosegue “lo sfrutto a livello psicoterapeutico con alcuni ragazzi affetti da disturbi mentali del C.T.A. di Siracusa, diretto dal dott. Cappello. Come membro dell’ “Associazione operatori psichiatrici”, di cui è presidente il dott. Parisi, una o due volte la settimana mi reco a Siracusa presso questa comunità e concretamente dimostro ai ragazzi ospiti come si fa a trasformare una pietra senza forma e senza significato, in una che rappresenti qualcosa. Più si fornisce energia alla pietra a colpi di mazzuolo e scalpello, tanto più diminuisce l’entropia e la pietra assume una certo aspetto. I ragazzi mi seguono con la massima attenzione e la fanno a gara nel cimentarsi in questo proficuo esercizio di sculturo-terapia. Debbo dire che i “miei allievi” sono riusciti a realizzare alcune ‘opere’ che li hanno assai gratificati. Sono contento, e io, per la verità, mi sento più gratificato di loro.”  

Un tipo vulcanico questo Masciarò, eclettico, dall’aspetto un po’ bohémien: capelli lunghi, velati d’argento, ventosi, barba anch’essa grigia, alla garibaldina, occhi azzurri, pronto al sorriso, gioviale e dotato di una buona dialettica; parla, parla e intanto umetta e arrotola la cartina con dentro il trinciato forte, lo stesso che fumava suo nonno. Si accende con calma lo sgorbio di sigaretta e alla prima boccata incomincia a sprigionare, soddisfatto, nuvolette di fumo azzurrognolo. 
Le sculture e i volti di pietra realizzati da Masciarò sono centinaia e rigorosamente diversi l’uno dall’altro: è la fantasia a presiedere alle sue creazioni, in osmosi con le pulsioni, l’umore, le emozioni che contraddistinguono ogni individuo. Il suo è un figurativo primordiale, “mostruoso”,  che richiama parvenze antropomorfe dalle fisionomie inquietanti ed enigmatiche. Un universo onirico, popolato da sorprendenti figure e volti che mescolano al profano un alcunché di magico, di sacrale: divinità agresti, dee modiate o con crocchi piramidali, santi barbuti, pelati, monaci cappuccini, erme apotropaiche, figure androgine, luciferine, dei, semidei, mascheroni  beffeggianti, volti muliebri, facce imbronciate, ridenti, felici. 
“A differenza dell’artista di professione” riprende Masciarò “ il quale progetta l’opera in tutti i particolari, io invece assecondo la pietra, mi faccio condizionare spesse volte dalla sua “forma” amorfa. Un esempio lampante, è il mio “urlo di Munch”. Trovandomi nelle mani una pietra bucata, osservando il foro ho pensato subito al capolavoro di Munch e ho intagliato tutto il resto intorno al foro-bocca: gli occhi, il naso…”.
E’ una narrazione fitta e frammentata quella di queste pietre, un inesauribile caleidoscopio che racconta e disvela il mito, le teofanie, i riti arcaici, l’homo sapiens, le civiltà ancestrali, la storia, la metastoria, la religiosità. 
“Le è capitato qualcosa di particolare? Una singolare richiesta da parte di qualcuno?”. “Mi è successo un fatto veramente insolito. Avevo scolpito una pietra dalla forma concava e asessuata. All’interno di questa cavità-grembo, avevo però dato vita ad una figura maschile. Un giorno è venuto un signore di Torino il quale mi ha chiesto una pietra che simboleggiasse la maternità. Io, dispiaciuto di non poterlo accontentare, gli ho mostrato la pietra concava, così, solo per fargliela vedere. Inaspettatamente il signore ha cambiato idea e ha portato via la pietra mostratagli, che, in certo qual modo rappresentava la “paternità”. Sposato, erano sette anni che tentava inutilmente di avere un figlio. Si pensava che la causa fosse la moglie e invece l’intoppo era proprio lui. Risolto il problema grazie ad una appropriata terapia, la moglie era rimasta incinta e da lì a qualche settimana avrebbe dato alla luce un figlio”.
Pochi semplici attrezzi, alcuni dei quali costruiti ad hoc dal suo ferraio di fiducia, gli servono per il suo lavoro: martello, mazzuolo, scalpello a taglio martellina taglio e punta, martellina accetta e punta, martellina a tre punte, subbia, lima grossa, lima fina, spazzola metallica.
Masciarò oltre che dello scalpello, per mettere in risalto tratti ed espressioni particolari delle sue maschere, si serve anche del colore naturale delle pietre, sfruttando gli effetti cromatici della litoclasi e della patina con le sue delicate sfumature cangianti, chiaroscurali, grigiastre, rossastre.
Per favorire il processo di ossidazione delle sculture fresche di scalpello, specie nel periodo invernale, il maestro mette in pratica un consiglio datogli da un vecchio campagnolo della contrada: fa delle spennellature con latte di mucca appena munto. Secondo questa teoria, scientificamente non provata ma sperimentata dalla sapienza contadina, la patina vaccina impedirebbe le incrinature della pietra appena lavorata dovute ai repentini sbalzi di temperatura. Anche in questo caso Masciarò conferma il suo codice improntato alla spontaneità e alla autenticità: niente sostanze chimiche, niente mordenti sul modellato, solo latte fresco prodotto nell’Altipiano ibleo.

I SIRACUSANI, bimestrale di storia arte e tradizioni, maggio-giugno-luglio 2005

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