«Tre cose sottili sono il maggior sostegno del mondo: il sottil rivolo di latte dalla mammella della mucca dentro il secchio; la foglia sottile del frumento ancora verde sulla terra; il filo sottile sulla mano di una donna industriosa. Tre rumori di prosperità: il muggito di una mucca gonfia di latte; il tintinnio del ferro di una fucina; il fruscio di un aratro.» (The Trials of Ireland, secolo IX)

T’amo, o pio bove


“T’amo, o pio bove; e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi, …”.  

Questa di Carducci è la più bella rappresentazione del bue, paziente, libero in mezzo al silenzio dei campi o curvo sotto il giogo. Il poeta celebra la forza laboriosa e la mitezza di questo animale, lento ma capace di una potenza tale che nessun cavallo o mulo saprebbe sviluppare. 
Antichi graffiti arrivati fino a noi spesso ci mostrano scene di buoi aggiogati all’aratro, le stesse che fino a qualche anno fa erano consuete nelle nostre campagne. Il poeta greco Esiodo (V sec. a.C.) consiglia a Perse, suo fratello: “Devi farti innanzi tutto una casa, e poi una donna, ed un bue per arare”1. E oltre mille anni dopo Isidoro di Siviglia (VII sec. d.C.) prelato ed erudito affermava che la ricchezza dei popoli antichi si fondava su due principi: pascolare bene e arare bene.

Oggi, con la tecnologia e con il diffondersi a 360° dei mezzi meccanici in agricoltura, sono scomparse la razze a triplice attitudine (latte, carne, lavoro) a favore delle razze da carne e da latte. La specie più diffusa nel mondo è la “frisona” o “pezzata nera” per la sua spiccatissima predisposizione ad elevate produzioni lattee. In Italia s’impone la razza bruno-alpina, ottima per la eccellente resa di latte e per la qualità della carne. Nelle nostre zone (Ragusa ma anche Palermo ed Enna) invece è molto diffusa l’autoctona modicana, già meticciata con la bruno-alpina, dalla triplice attitudine e dalla caratteristica spina dorsale a pipa e con le corna a lira.

Il bue nell’antichità
         La ragione principale per cui il poeta maremmano nel sonetto eponimo definì pio il bue è per la sua antica prerogativa di offerta sacra agli dei. Il bue (toro, vacca, giovenca), infatti, era l’animale da sacrificio che si immolava alle divinità pagane, tanto fra i greci quanto fra i romani ed altri popoli politeisti, per ottenere benevolenza o prosperità. A Siracusa, ad esempio, l’ara di Ierone II, la più grande di tutto il mondo greco, fu costruita per le maxi-immolazioni nelle Eleutherie. Ogni anno l’ara ospitava (lo testimonia Dionisio) il sacrificio di ben 450 buoi in un solo giorno 2.
Gli stessi Ebrei, quando attraversavano il deserto del Sinai, a scopo propiziatorio bruciavano una vacca rossa, e mescolavano poi le sue ceneri ad acqua ogniqualvolta compivano riti lustrali. Anche per gli Egizi il bue era sacro: essi ravvisavano il dio Api (Osiride) in un bue nero (con una stella in fronte) che adoravano e a cui rendevano i più solenni onori. Il valore sacrale attribuito a questo animale è ancora assai diffuso tra diversi popoli orientali. In India, in particolare, la vacca è l'animale sacro per eccellenza: essa viene lasciata vagare liberamente nelle città e nei campi e non è lecito né ucciderla né cibarsi delle sue carni. 
         A Natale, nel presepe tradizionale, accanto al bambino non possono mancare l’asino e il bue; secondo san Girolamo l’asino rappresenterebbe il Vecchio Testamento e il bue il Nuovo. Un’altra diffusa teoria vede nel mite bue, impegnato nell’aratura, l’emblema del Signore che “lavora nel campo di Dio”3.  

Nelle nostre contrade
I bovini da noi sono stati sempre preziosi collaboratori dell’uomo nel lavoro delle campagne, considerati membri a quattro zampe della famiglia contadina. Mentre altrove sono stati utilizzati anche per il traino dei carri, e in periodo bellico persino per trainare pesantissimi cannoni, dalle nostre parti il destino dei bovini era quello di essere aggiogati agli aratri, diversamente: “Lu voi ca nun va a l’aratru, va a lu maceddu”.
I bovini, in alternativa ai muli o agli asini, erano preferibilmente impiegati su terreni pesanti in quanto il loro passo lento e poderoso e la loro robusta struttura fisica permettevano di vangare e sollevare una maggiore quantità di zolle. Se gli equini si lasciavano aggiogare facilmente all’aratro, lo stesso non si poteva dire per i bovini.  Questi infatti prima di essere messi sotto (a partire dal secondo anno di vita) necessitavano di un certo periodo di addestramento.    .
I bovini venivano tenuti insieme tra di loro per mezzo del giogo, ivu. Questo tipo di giogo, a differenza di quello degli equini, è diritto con due leggere incurvature che vanno a posarsi sulle spalle degli animali e su cui viene tenuto fermo per mezzo di due strisce intrecciate di palma nana o di ampelodesmo. “Il giogo per buoi e mucche viene considerato sacro… - scrive Uccello - perché durante il lavoro è adagiato sul collo di animali (buoi e mucche) ritenuti per tradizione benedetti da Dio: questi gioghi non vanno bruciati: Una volta spezzati, o comunque inservibili, restano, quindi, a marcire in mezzo alla campagna…4 (ritorna il leitmotiv della sacralità e della positività del bue). A tal proposito, una credenza popolare, un tempo molto diffusa, sostiene che chi brucia i gioghi delle mucche o uccide dei gatti avrà un’agonia difficile e dolorosa: “A Palazzolo Acreide - continua Uccello -per liberare l’anima del moribondo si soleva gridare in tre luoghi diversi, dove sorgono tre edicole con croce di ferro: Iva iarsi e-gghiatti auccisi: / scissi (u tali) ri stu paisi!”.  (Gioghi arse e gatti uccise: esca tizio da questo paese!)5”. Motivo per cui non era infrequente vedere abbandonati al loro destino in mezzo alle campagne o sui muri a secco i gioghi ormai inservibili.
A Palazzolo l’ultimo contadino ad aver utilizzato bovini per l’aratura è stato u Cuccu i Santa Lucia. Una decina di anni orsono, nella stagione dell’aratura, vani furono i miei reiterati tentativi per potere scattare qualche fotografia mentre lavorava nella sua cirenna (chiusa). Si oppose in tutti i modi, non permise di fotografare nemmeno le mucche da ferme, al giogo. La stessa sorte toccò l’anno successivo all’amico Biagio che, contando sull’amicizia e sulla confidenza con don Turiddu, generosamente pensava di farmi dono di un intero rullino con le immagini “proibite”.  Niente da fare! -“Ppi vacchi è, mancu a parrarini” (Riguardo alle vacche nemmeno a parlarne) - ripeteva di continuo come una macchina parlante. L’anno dopo, ancora un altro vano tentativo in coppia con lo stesso Biagio. Questa volta u Cuccu, finalmente, armò la sua mano destra di un grosso mazzacani, minacciandoci di  aprirci la testa come una melagrana (comu nu ranatu, sic!) se ancora avessimo fatto mezzo passo avanti per immortalare le sue adorate e caste mucche. Non ci restò altro che battere in ritirata in tutta fretta. Coraggiosamente!



Il Corriere degli Iblei, ottobre 2002




Esiodo, Le opere e i giorni,. Torino, tr. it. Utet, 1977, p.407.
2 Cfr:, C. Morrone, Nel segno di Ierone II,  I Siracusani, n. 18, marzo aprile 1998, p.63.
3 A Cattabiani, Calendario, Milano, Rusconi libri, 1994, p. 88.
4 A. Uccello, La civiltà del legno in Sicilia, Palermo, Cavallotto, 1973,  p.30.
5 A. Uccello, La civiltà…, op. cit.,  ibidem.. Vedi anche Raffaele Castelli , Credenze ed usi popolari siciliani, Catania, B&B, 1997, p. 56

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